BRIANNE
Bree sbuffò
sommessamente, dall’ultimo banco
dell’aula. Si concentrò per l’ennesima
volta sull’assurda traccia che il
docente aveva dato loro. La rilesse, cercando di comprenderne il
significato,
decisa a superare quella situazione di stallo. Doveva scrivere un
semplice
componimento sull’analisi caratteriale di una persona che
aveva colpito la sua
attenzione. Non era difficile, ma il compito non si prospettava neppure
semplice. Inizialmente Bree si era soffermata a riflettere sul
significato delle
ultime quattro parole, trovandole estremamente vacue. Le persone
colpivano la
sua attenzione per motivi diversi, troppo diversi, e quello era un tema
assegnato
dal professore di psicologia. Non riusciva a capire se fosse meglio
trattare di
un modello da imitare o di uno da screditare. Bree si chiese se quello
dell’insegnante fosse stato un modo carino per chiedere a
tutti loro di parlare
di qualcuno che soffrisse di qualche problema psicologico, tipo lei,
per
esempio.
Bree sapeva che la maggior parte degli
studenti la considerava solo come una pazza schizzata a cui i farmaci
avevano
dato alla testa, ma non si curava di loro. Aveva smesso di ascoltarli
quando un
giorno, appena due anni prima, le avevano fatto sparire dei libri. Lei
li aveva
cercati in giro, ingenuamente aveva persino allarmato la professoressa,
ma proprio
quando stava per accusare un ragazzo, li aveva ritrovati esattamente
sotto il
suo banco. Nessuno le aveva creduto. In fin dei conti era sempre stata
un po’
stramba per tutti e, in quell’occasione, avevano avuto prova
delle loro teorie.
Sua madre l’aveva costretta a segnarsi al corso di
psicologia, nonostante lei
avesse provato più volte a dissuaderla da
quell’idea che ai suoi occhi appariva
tanto malvagia. Non voleva ancora essere presa in giro per i suoi
capelli rossicci,
fragola, o per le espressioni buffe del suo viso. Aveva imparato a
fingere di
non vedere, ma poteva ancora distintamente sentire le risatine o le
battutine
che gli altri si scambiavano al suo passaggio.
Partecipare a quelle lezioni, inoltre, era
stato un suggerimento della sua analista, una donna sulla quarantina
che
continuava ad estorcere cifre esorbitanti alla madre per darle consigli
infondati e non risolvere alcun problema.
Rimuginò ancora sul concetto espresso nelle
poche righe della traccia a lei assegnata. Conoscere, per lei, era un
processo
che avveniva per gradi. Quando una cosa estranea risultava rientrare
nei parametri
imposti dalla mente, essa veniva immediatamente categorizzata e si
aveva la
fallace sensazione di averne compreso tutto. Non sorprendeva, non
eccitava, non
trasmetteva nulla di nuovo. Era quando si entrava in contatto con il
diverso,
quando esso spezzava gli schemi prestabiliti della conoscenza che si
percepiva
realmente qualcosa, si imparava, ci si confrontava, si cresceva. Bree
concluse,
dunque, che qualsiasi cosa ci apparisse anormale diventasse lampante ai
nostri
occhi, costringendoci a parlarne, a discuterne per cercare di venirne a
capo.
A quel punto si poteva provare fino allo
strenuo a comprendere quella diversità, fino a tramutarla in
normalità o
additarla come stranezza. E Bree sapeva quanto le persone fossero
riluttanti
nei confronti delle stranezze. Le temevano, non sapevano come gestirle
ed
allora preferivano schernirle, denigrarle.
Bree era una stranezza, Bree poteva essere una
di quelle persone che colpivano l’attenzione.
Così finalmente si decise: decise che avrebbe parlato
di lei, della sua storia, della sua vita.
Strinse forte la penna tra il pollice e
l’indice della mano destra, poi ne poggiò la punta
sulla pagina ancora bianca
del quaderno e scrisse.
Quando ebbe terminato mancavano ancora una
quindicina di minuti al suono della campanella. Non era una verifica,
quella
che si stava svolgendo, ma solo un esercizio. Rilesse il suo elaborato,
correggendo le lievi imperfezioni che non aveva notato durante la
stesura, poi
si preparò per consegnarlo.
Si domandò quante altre persone, in quella
classe, avessero trattato di lei. Sorrise a
quell’eventualità, mentre usciva
con un lieve anticipo dalla classe.
“Ciao Louis.”, salutò il ragazzo,
intento a
scegliere uno snack tra quelli offerti dai distributori del piano.
Il castano fece un mezzo salto, leggermente
scosso dal tono acuto che lo aveva preso alla sprovvista.
“Ciao Bree.”, ricambiò digitando una
combinazione
di due numeri sulla piccola tastiera ed inserì delle monete.
“Come ti senti oggi?”, gli chiese
avvicinandosi di qualche passo al ragazzo, per poi poggiarsi di schiena
alla
macchinetta delle bibite, situata accanto a quella che Louis stava
utilizzando.
“Che intendi dire?”, domandò di rimando
corrugando la fronte.
Bree esitò qualche attimo, dandosi mentalmente
della stupida per avergli posto proprio quel quesito. Louis si
accovacciò per
prelevare un pacchetto di patatine, poi puntò gli occhi
azzurri sul volto
appena tormentato di Bree.
“L’altra sera a casa di Millie hai detto di
stare uno schifo.”, ricordò.
Avevano bevuto davvero molto quella notte e
probabilmente Louis non era neppure consapevole di tutte le parole che
erano
uscite dalla sua bocca.
“Ah.”, bofonchiò aprendo la bustina che
teneva
tra le mani. “Uno schifo anche oggi, allora.”,
confessò iniziando a
sgranocchiare qualche patatina.
Quando Bree si sentiva triste sua madre le consigliava
di prendere degli antidepressivi. Il suo bagno ne era pieno. Tra i vari
scaffali erano stipate le più svariate confezioni di
pillole, ognuna per
una precisa occasione. Era il suo particolare
modo per risolvere i problemi ed ora stava diventando anche quello
della
figlia.
“Se vuoi posso darti qualcosa che ti renda
felice.”, propose pensando che non sarebbe stato un problema
prendere alcune
delle pillole di sua madre per darle a lui.
Louis storse il viso, in segno di diniego, poi
le porse il pacchetto di patatine, facendole cenno di prenderne alcune.
Bree ne
prese solo una e la mangiò.
“Tu non smetti mai di prendere quelle
schifezze?”, le domandò studiando
l’espressione del suo viso.
Bree fece spallucce e cercò di incurvare le
labbra in un sorriso, ma le uscì solo una piccola e brutta
smorfia.
“Mamma dice che fanno bene e che…”,
iniziò a
dire per giustificarsi.
“E tu cosa dici, Bree?”, la interruppe Louis
intensificando il suo sguardo.
Bree aveva le labbra schiuse, gli occhi
sgranati ed un’espressione sorpresa. Non si sarebbe mai
aspettata che qualcuno
le facesse apertamente una simile domanda, non a lei, la schizzata
senza
cervello.
“Non lo so, è come se atrofizzassero tutto.
Non mi fanno sentire niente.”, ammise con un filo di voce,
giocando con le mani
che aveva intrecciato sulla pancia.
Louis annuì, decidendo che si sarebbe
accontentato di quelle parole e non avrebbe scavato ulteriormente.
Aveva visto
qualcosa al di là dell’aria svampita di Bree, ma
ci sarebbe voluto del tempo
prima di riuscire ad andare oltre quella.
“Lou, cazzo! Sono dieci minuti che ti cerco!”,
esordì Zayn, procedendo a passo spedito verso di loro.
“Ehi, calma amico.”, scherzò il castano
sorridendogli allegramente.
“Calma un corno!”, inveì
l’altro tirando un
pugno al distributore sul quale era poggiata Bree, facendola tremare.
“Stasera
devo fare un servizio.”, borbottò con voce ora
più calma. “Mi accompagni?”, gli
chiese infine guardandolo dritto in quegli occhi azzurri.
Louis aveva capito chiaramente cosa il suo
sguardo significasse. Avrebbero dovuto svolgere una di quelle
commissioni di
cui Zayn si prendeva carico.
Annuì, tentando di nascondere il velo di
preoccupazione.
“Io devo andare.”, annunciò Bree
scollando le
spalle dalla superficie metallica delle macchinette.
In realtà non le sarebbe dispiaciuto
trascorrere dell’altro tempo in compagnia di quei due
ragazzi, ma sentiva il
bisogno di rinfrescarsi. Giunta in bagno, guardò la sua
espressione allo
specchio notando quanto pesanti fossero le sue occhiaie. Fece scorrere
l’acqua,
poi ne raccolse una piccola quantità tra le mani disposte a
coppe e bagnò il
viso.
“Sta’ zitto, c’è qualcuno di
là.”, una voce
che Bree non riconobbe borbottava dall’interno di uno dei
bagni.
“Non me ne frega!”, sbottò un ragazzo.
Bree chiuse il rubinetto e trattenne il fiato.
“Cosa cazzo significa che sei tornata con
Liam?”, chiese ancora quello che a Bree pareva essere Niall.
Ed, ovviamente, dedusse che la ragazza in
questione fosse Millie.
“Significa che quello che è successo quella
sera è stato un errore.”, borbottò lei.
“Fare sesso con me è stato un errore?”,
le
chiese sconvolto il ragazzo.
“Abbassa la voce!”, lo zittì con tono
inviperito. “Dimenticalo, ok?”, tuonò.
Bree stava per uscire da quella stanza, ormai
aveva già sentito abbastanza, ma la porta
dell’ultimo bagno si aprì per poi
essere richiusa con forza, tanto da farla sussultare.
In un attimo si trovò faccia a faccia con una
Millie spaesata, ma allo stesso tempo adirata.
“Io…”, iniziò Bree sbattendo
freneticamente le
palpebre.
“Tu non hai sentito niente.”, decretò
Millie
con voce perentoria.
La incenerì con lo sguardo, poi con passo
deciso la sorpassò, lasciando Bree alle sue spalle.
“Allora, grande uomo, com’è andata con
Margaret?”,
chiese un entusiasta Liam all’indirizzo dell’amico,
durante la pausa tra la
terza e la quarta ora.
Harry sorrise, sollevando l’angolo destro
delle labbra ed una fossetta si scavò sulla sua guancia.
“È andata.”, annunciò con
aria sognante, perso
tra i ricordi avvincenti di quella notte.
“Ma bravo!”, si congratulò sornione.
“Ed è
meglio o peggio di quello che sembra?”, domandò
poi, volendo i particolari
piccanti.
“Oh, è decisamente meglio.”,
confessò. “Molto
meglio.”, precisò portando una mano tra la massa
di ricci.
“Parlavate di me?”, intervenne giocosamente
Margaret, avvicinandosi al muretto sul quale erano seduti Liam ed Harry.
Non sapeva quanto avesse ragione.
“Ciao Harry.”, salutò il riccio
schioccando un
sonoro bacio all’angolo delle sue labbra, poi si sedette
accanto a lui.
“Ciao.”, ripeté anche Charlotte seguendo
l’amica con la quale aveva trascorso i minuti precedenti.
“Come va Charlie?”, chiese Liam
all’indirizzo
della ragazza che ultimamente aveva preso ad essere stranamente
taciturna.
“Non sono nel mezzo di una fase critica in cui
mi maledico per essere single, se è questo che volevi
sapere.”, esordì
palesemente tesa. “Noi donne sappiamo cavarcela anche senza
un fidanzato.”,
aggiunse ancora.
“Non lo metto in dubbio.”, rispose Liam, sulla
difensiva. “Qualche volta tu e Margaret potreste unirvi a me
e Millie.”,
propose poi rivolgendosi all’amico, deciso a cambiare
discorso.
Harry sorrise appena, cercando di camuffare
quanto irritante trovasse quell’invito. Era stufo di ricevere
consigli da Liam,
voleva fare a modo suo per una volta. Inoltre, era convinto che Liam
avrebbe
concentrato su di sé tutta l’attenzione,
distogliendo Margaret da una
tranquilla passeggiata in compagnia di Harry.
“Questo è il problema di voi maschi!”,
sbottò
Charlotte.
Era ormai chiaro a tutti quanto nervosa fosse
quel giorno. Solitamente tendeva a controllare i suoi impulsi, mettendo
a
tacere il suo senso critico ed i suoi acuti giudizi. Quella mattina,
tuttavia,
sembrava non riuscire a tenere a freno la lingua.
“Come se fosse obbligatorio essere in coppia
per uscire!”, sbraitò gesticolando come una
forsennata.
“Andiamo Charlie, io non intendevo…”,
iniziò a
spiegare Liam, prima di essere interrotto dalla bionda.
“Tu intendevi proprio questo, invece!”,
controbatté. “Il mondo ruota intorno al sesso,
diamine!”, tuonò riducendo gli
occhi a due piccole fessure.
Charlotte non sopportava i pregiudizi, non
sopportava le discriminazioni e le iniquità. Era una di
quelle ragazze
determinate, pronte a battersi per le proprie idee, a non tacere
davanti a
un’ingiustizia. Solitamente lottava per il rispetto degli
animali o della
parità delle donne, ma quella volta si era appigliata ad un
cavillo quasi
insignificante. Forse aveva solo bisogno di sfogarsi e Liam le aveva
servito su
un piatto d’argento un’opportunità
irripetibile.
“Qual è il tuo problema nell’uscire con
persone non accoppiate? Che ad una certa ora non ci si può
appartare? È questo
che ti infastidisce?”, lo accusò iniziando a
muovere piccoli passi.
“Ma certo che no!”, rispose con trasposto, ma
le sue parole non bastarono a placare l’ira di Charlie.
“Il punto è che siamo una generazione malata.
Fingiamo di aver sconfitto l’apartheid e la segregazione, ma
siamo pronti a
puntare il dito contro chiunque appare diverso da noi.”,
blaterò.
Margaret la guardava spaesata, non immaginando
affatto quanto potesse infervorarsi per un semplice invito. Harry,
invece,
aveva corrugato la fronte, avendo perso il filo logico del discorso.
“Abbiamo combattuto lotte molto più
impegnative e feroci, simuliamo che tutto vada bene, ma in
realtà non è così!”,
riprese.
“Charlotte, forse stai esagerando.”,
provò a
dire con cautela Margaret.
“Esagerando? Esagerando? Sai quanti animali
hanno ucciso per la tua borsa? Lo sai?”, tuonò
sempre più scossa, puntando
l’oggetto di pelle che l’amica aveva lasciato
cadere sul muretto.
Margaret si alzò, affiancandola. Con un
braccio circondò le sue spalle, nonostante
l’opposizione fatta da Charlotte.
“Va tutto bene, Charlie.”, sussurrò
abbracciandola.
Finalmente la bionda si calmò, godendo del
calore di quella stretta. Si lasciò cullare e chiuse gli
occhi. Quando li
riaprì erano umidi e le sue guance erano solcate da lacrime.
“Mi dispiace.”, balbettò poggiando la
testa
sulla spalla di Margaret.
“È tutto ok, tranquilla.”,
ripeté la ragazza,
aumentando la presa intorno al busto di Charlotte.
Aveva represso quel pianto per giorni,
sforzandosi di non cedere, perché lei era forte, ma alla
fine era scoppiata proprio
nel momento in cui meno se l’aspettava. Louis
l’avrebbe assimilata ad una bomba
ad orologeria che era non era stata disinnescata in tempo.
Al termine delle lezioni Audrey uscì
dall’edificio e si incamminò verso
l’auto della sorella, parcheggiata ad uno
dei primi posti. Per almeno un’altra decina di giorni avrebbe
dovuto fare
affidamento su Millie
per gli
spostamenti. Audrey aveva da poco dato l’esame di guida per
la patente,
conseguendola. Tuttavia non disponeva ancora di una macchina di sua
proprietà.
Ne aveva ordinata una appena qualche giorno prima, ma il colore della
vernice
che aveva scelto non era disponibile nell’immediato,
così si era ritrovata
senza una vettura capace di assicurare ogni suo movimento.
Poggiò la schiena alla portiera del lato del
passeggero ed incrociò le braccia al petto, sperando che
l’attesa non si fosse
protratta eccessivamente nel tempo.
“Quante volte ti ho detto di non appoggiarti
alla mia auto?”, sbottò Millie, piombando
all’improvviso alle sue spalle.
Audrey sbuffò, voltandosi in direzione della
sorella.
“Anche io ti ho detto centinaia di volte di
non urlare come una gallina, ma tu continui a farlo.”,
sibilò con un ghigno
sulle labbra.
Millie aprì l’auto ed entrambe presero posto
nell’abitacolo.
“Sei insopportabile, è per questo che non hai
amici.”, sentenziò mentre girava la chiave nel
quadro.
“Certo, invece tu sì che ne hai.”,
ironizzò
Audrey. “Sei patetica.”, affermò poi con
aria sprezzante.
“Tu invece mi fai pena.”, ribatté
Millie, non
preoccupandosi neppure di rivolgere un veloce sguardo alla sorella.
“Ti vesti
di nero, ti ricopri di matita, ti nascondi da tutto e da tutti. Non
potresti
provare ad essere un po’ più femminile e
socievole?”, continuò.
Audrey scosse il capo, sfinita da quei
continui battibecchi.
“E tu, invece, potresti semplicemente
smetterla di rivolgermi la parola?”, bofonchiò,
sperando di dare un taglio a
quella inutile discussione.
“Certo, anzi meglio. Non parliamo.”,
borbottò
Millie con una smorfia.
“Bene.”, terminò soddisfatta Audrey,
prima di
ricadere nel suo silenzio.
Bree si sedette esattamente di fronte alla
scrivania della sua analista. Quel pomeriggio aveva una delle frequenti
sedute
in cui non si sarebbe tassativamente potuta assentare.
“Ciao Brianne.”, la salutò la donna con
voce
pacata e gentile.
“Salve.”, ricambiò la ragazza piegando
le
labbra in un sorriso appena accennato.
“Cosa mi racconti oggi?”, le chiese la donna,
sistemando meglio gli occhiali sul naso.
Bree fece spallucce, non avendo molto da
raccontarle. Per lo più la sua vita era scandita da ritmi
tranquilli ed abituali
che non le riservavano alcuna novità eclatante.
“Credo di aver trovato dei nuovi amici.”,
disse dopo interminabili secondi, quando le immagini di quella mattina
le si
pararono davanti agli occhi.
“Vuoi dirmi come si chiamano?”, domandò
l’analista, temendo stesse mentendo o si trattasse di
personaggi fittizi.
“Louis e Zayn.”, rispose. “Frequentando
la mia
scuola.”, spiegò.
Tutto quel silenzio la faceva sentire a
disagio, tanto che era costretta a giocherellare con l’orlo
della camicetta
dalla tonalità pastello che indossava. Era snervante dover
parlare di sé ad una
donna estranea che continuava a fissarla come fosse un esemplare unico
al mondo
degno dei più accurati studi scientifici.
Non sentiva quella sensazione di conforto,
supporto e comprensione che pensava di poter trovare presso uno studio
del
genere.
“E sono gentili con te?”, continuò la
donna,
proseguendo il suo rituale interrogatorio.
“Sì.”, confermò Bree puntando
lo sguardo in
quello della signora seduta a poco più di un metro da lei.
Quello strazio sarebbe continuato per almeno
un’altra ventina di minuti, il necessario affinché
poi l’analista potesse
sentirsi perfettamente in regola per pretendere i soldi della visita
dalla
madre di Bree.
“Hai voglia di dirmi altro?”, le chiese dopo
qualche minuto di assoluto silenzio.
Agli inizi Bree trovava estremamente irritante
l’atteggiamento di quella signora, così ogni
qualvolta le porgesse quella
domanda Bree raccontava storie surreali di avventure esotiche e di
esperienze
inimmaginabili. L’analista l’ascoltava, facendo
finta di credere a tutto ciò
che diceva, poi la salutava con fare affettuoso. Ma puntualmente il
girono
seguente Bree si vedeva aumentata la dose quotidiana di pillole.
Così, alla
fine, aveva deciso di dare un taglio netto a quello stupido giochetto,
ma ormai
era troppo tardi. La prima volta che Bree era stata da uno psicologo
era perché
aveva dato uno schiaffo ad un bambino. Aveva appena dodici anni e quel
tipo
aveva cercato in tutti i modi di darle un bacio. Lei non voleva, quel
ragazzo non
le piaceva affatto. Un giorno, dopo il suo ennesimo tentativo mal
riuscito, gli
aveva stampato una cinquina sulla guancia sinistra. Nessuno aveva
creduto alla
sua versione dei fatti. Tutti avevano preferito additarla come la
ragazza
violenta la cui madre prendeva antidepressivi. Aveva iniziato con
colloqui
mensili, ma sua madre aveva pensato bene di intensificarli, fino a
quando,
l’anno scorso, l’aveva portata dalla sua analista.
Da quel momento era iniziato
per Bree un lento e graduale declino.
“No.”, rispose senza abbassare lo sguardo.
Non aveva davvero voglia di raccontarle della
sua vita, probabilmente non ne aveva mai avuta.
Louis salì sull’auto che Zayn stava guidando.
Sapeva che il suo amico, quella sera, sarebbe dovuto andare a
consegnare dell’erba
per conto di uno di quei tipi che di tanto in tanto gliene forniva
qualche
oncia a buon prezzo.
“Sei sicuro di volerlo fare?”, gli
domandò
voltandosi verso l’amico.
Louis non era un fifone, ma sapeva quanto
rischioso potesse essere immischiarsi in un giro del genere.
“Devo, lo sai.”, sentenziò con lo
sguardo
fisso sulla strada.
“Ok, allora facciamo questa cosa e
torniamocene a casa.”, borbottò Louis.
“Grazie.”, mormorò Zayn prima di
spingere il
piede sul pedale dell’acceleratore.
Wow, non ci credo, torno finalmente ad aggiornare! *.*
Credo sia passata un'eternità dall'ultima volta, ma, sapete, tra traslochi e borsoni vari è stato un po' difficile trovare il tempo... :/
Anyway, che ve ne pare di questo capitolo? :D
Bree e Louis... L'avreste mai immaginato? D:
Dai, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate. ;)
A presto (sarò più regolare d'ora in poi),
Astrea_