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Autore: Astrea_    21/10/2013    1 recensioni
[Dal primo capitolo]
Sapevano che erano esattamente come tante piccole mine vaganti, senza passato né futuro, anime che si affannavano per sopravvivere, che si sbracciavano per rimanere a galla nell’oceano increspato della vita. Si sforzavano di cercare contatti, di trovare stabilità, amore ed affetto. Fingevano di comprendersi, di esserci l’uno per l’altro, di essere uniti, ma in realtà sapevano di essere terribilmente soli. Non erano un gruppo, ma solo l’unione di individualità problematiche, di adolescenti troppo presi ad affrontare le difficoltà del piccolo mondo nel quale si rinchiudevano. Erano fragili, talmente tanto che sarebbe bastata una sola folata di vento per raderli al suolo, ridurli a brandelli. Erano forti, tanto forti da mascherare le loro più grandi paure, l’incolmabile vuoto che sentivano nei loro petti e nelle loro menti.
STORIA ISPIRATA ALLA SERIE TELEVISIVA "SKINS".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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BRIANNE

Bree sbuffò sommessamente, dall’ultimo banco dell’aula. Si concentrò per l’ennesima volta sull’assurda traccia che il docente aveva dato loro. La rilesse, cercando di comprenderne il significato, decisa a superare quella situazione di stallo. Doveva scrivere un semplice componimento sull’analisi caratteriale di una persona che aveva colpito la sua attenzione. Non era difficile, ma il compito non si prospettava neppure semplice. Inizialmente Bree si era soffermata a riflettere sul significato delle ultime quattro parole, trovandole estremamente vacue. Le persone colpivano la sua attenzione per motivi diversi, troppo diversi, e quello era un tema assegnato dal professore di psicologia. Non riusciva a capire se fosse meglio trattare di un modello da imitare o di uno da screditare. Bree si chiese se quello dell’insegnante fosse stato un modo carino per chiedere a tutti loro di parlare di qualcuno che soffrisse di qualche problema psicologico, tipo lei, per esempio.
Bree sapeva che la maggior parte degli studenti la considerava solo come una pazza schizzata a cui i farmaci avevano dato alla testa, ma non si curava di loro. Aveva smesso di ascoltarli quando un giorno, appena due anni prima, le avevano fatto sparire dei libri. Lei li aveva cercati in giro, ingenuamente aveva persino allarmato la professoressa, ma proprio quando stava per accusare un ragazzo, li aveva ritrovati esattamente sotto il suo banco. Nessuno le aveva creduto. In fin dei conti era sempre stata un po’ stramba per tutti e, in quell’occasione, avevano avuto prova delle loro teorie. Sua madre l’aveva costretta a segnarsi al corso di psicologia, nonostante lei avesse provato più volte a dissuaderla da quell’idea che ai suoi occhi appariva tanto malvagia. Non voleva ancora essere presa in giro per i suoi capelli rossicci, fragola, o per le espressioni buffe del suo viso. Aveva imparato a fingere di non vedere, ma poteva ancora distintamente sentire le risatine o le battutine che gli altri si scambiavano al suo passaggio.
Partecipare a quelle lezioni, inoltre, era stato un suggerimento della sua analista, una donna sulla quarantina che continuava ad estorcere cifre esorbitanti alla madre per darle consigli infondati e non risolvere alcun problema.
Rimuginò ancora sul concetto espresso nelle poche righe della traccia a lei assegnata. Conoscere, per lei, era un processo che avveniva per gradi. Quando una cosa estranea risultava rientrare nei parametri imposti dalla mente, essa veniva immediatamente categorizzata e si aveva la fallace sensazione di averne compreso tutto. Non sorprendeva, non eccitava, non trasmetteva nulla di nuovo. Era quando si entrava in contatto con il diverso, quando esso spezzava gli schemi prestabiliti della conoscenza che si percepiva realmente qualcosa, si imparava, ci si confrontava, si cresceva. Bree concluse, dunque, che qualsiasi cosa ci apparisse anormale diventasse lampante ai nostri occhi, costringendoci a parlarne, a discuterne per cercare di venirne a capo.
A quel punto si poteva provare fino allo strenuo a comprendere quella diversità, fino a tramutarla in normalità o additarla come stranezza. E Bree sapeva quanto le persone fossero riluttanti nei confronti delle stranezze. Le temevano, non sapevano come gestirle ed allora preferivano schernirle, denigrarle.
Bree era una stranezza, Bree poteva essere una di quelle persone che colpivano l’attenzione.
Così finalmente si decise: decise che avrebbe parlato di lei, della sua storia, della sua vita.
Strinse forte la penna tra il pollice e l’indice della mano destra, poi ne poggiò la punta sulla pagina ancora bianca del quaderno e scrisse.
Quando ebbe terminato mancavano ancora una quindicina di minuti al suono della campanella. Non era una verifica, quella che si stava svolgendo, ma solo un esercizio. Rilesse il suo elaborato, correggendo le lievi imperfezioni che non aveva notato durante la stesura, poi si preparò per consegnarlo.
Si domandò quante altre persone, in quella classe, avessero trattato di lei. Sorrise a quell’eventualità, mentre usciva con un lieve anticipo dalla classe.
“Ciao Louis.”, salutò il ragazzo, intento a scegliere uno snack tra quelli offerti dai distributori del piano.
Il castano fece un mezzo salto, leggermente scosso dal tono acuto che lo aveva preso alla sprovvista.
“Ciao Bree.”, ricambiò digitando una combinazione di due numeri sulla piccola tastiera ed inserì delle monete.
“Come ti senti oggi?”, gli chiese avvicinandosi di qualche passo al ragazzo, per poi poggiarsi di schiena alla macchinetta delle bibite, situata accanto a quella che Louis stava utilizzando.
“Che intendi dire?”, domandò di rimando corrugando la fronte.
Bree esitò qualche attimo, dandosi mentalmente della stupida per avergli posto proprio quel quesito. Louis si accovacciò per prelevare un pacchetto di patatine, poi puntò gli occhi azzurri sul volto appena tormentato di Bree.
“L’altra sera a casa di Millie hai detto di stare uno schifo.”, ricordò.
Avevano bevuto davvero molto quella notte e probabilmente Louis non era neppure consapevole di tutte le parole che erano uscite dalla sua bocca.
“Ah.”, bofonchiò aprendo la bustina che teneva tra le mani. “Uno schifo anche oggi, allora.”, confessò iniziando a sgranocchiare qualche patatina.
Quando Bree si sentiva triste sua madre le consigliava di prendere degli antidepressivi. Il suo bagno ne era pieno. Tra i vari scaffali erano stipate le più svariate confezioni di pillole, ognuna  per una precisa occasione. Era il suo particolare modo per risolvere i problemi ed ora stava diventando anche quello della figlia.
“Se vuoi posso darti qualcosa che ti renda felice.”, propose pensando che non sarebbe stato un problema prendere alcune delle pillole di sua madre per darle a lui.
Louis storse il viso, in segno di diniego, poi le porse il pacchetto di patatine, facendole cenno di prenderne alcune. Bree ne prese solo una e la mangiò.
“Tu non smetti mai di prendere quelle schifezze?”, le domandò studiando l’espressione del suo viso.
Bree fece spallucce e cercò di incurvare le labbra in un sorriso, ma le uscì solo una piccola e brutta smorfia.
“Mamma dice che fanno bene e che…”, iniziò a dire per giustificarsi.
“E tu cosa dici, Bree?”, la interruppe Louis intensificando il suo sguardo.
Bree aveva le labbra schiuse, gli occhi sgranati ed un’espressione sorpresa. Non si sarebbe mai aspettata che qualcuno le facesse apertamente una simile domanda, non a lei, la schizzata senza cervello.
“Non lo so, è come se atrofizzassero tutto. Non mi fanno sentire niente.”, ammise con un filo di voce, giocando con le mani che aveva intrecciato sulla pancia.
Louis annuì, decidendo che si sarebbe accontentato di quelle parole e non avrebbe scavato ulteriormente. Aveva visto qualcosa al di là dell’aria svampita di Bree, ma ci sarebbe voluto del tempo prima di riuscire ad andare oltre quella.
“Lou, cazzo! Sono dieci minuti che ti cerco!”, esordì Zayn, procedendo a passo spedito verso di loro.
“Ehi, calma amico.”, scherzò il castano sorridendogli allegramente.
“Calma un corno!”, inveì l’altro tirando un pugno al distributore sul quale era poggiata Bree, facendola tremare. “Stasera devo fare un servizio.”, borbottò con voce ora più calma. “Mi accompagni?”, gli chiese infine guardandolo dritto in quegli occhi azzurri.
Louis aveva capito chiaramente cosa il suo sguardo significasse. Avrebbero dovuto svolgere una di quelle commissioni di cui Zayn si prendeva carico.
Annuì, tentando di nascondere il velo di preoccupazione.
“Io devo andare.”, annunciò Bree scollando le spalle dalla superficie metallica delle macchinette.
In realtà non le sarebbe dispiaciuto trascorrere dell’altro tempo in compagnia di quei due ragazzi, ma sentiva il bisogno di rinfrescarsi. Giunta in bagno, guardò la sua espressione allo specchio notando quanto pesanti fossero le sue occhiaie. Fece scorrere l’acqua, poi ne raccolse una piccola quantità tra le mani disposte a coppe e bagnò il viso.
“Sta’ zitto, c’è qualcuno di là.”, una voce che Bree non riconobbe borbottava dall’interno di uno dei bagni.
“Non me ne frega!”, sbottò un ragazzo.
Bree chiuse il rubinetto e trattenne il fiato.
“Cosa cazzo significa che sei tornata con Liam?”, chiese ancora quello che a Bree pareva essere Niall.
Ed, ovviamente, dedusse che la ragazza in questione fosse Millie.
“Significa che quello che è successo quella sera è stato un errore.”, borbottò lei.
“Fare sesso con me è stato un errore?”, le chiese sconvolto il ragazzo.
“Abbassa la voce!”, lo zittì con tono inviperito. “Dimenticalo, ok?”, tuonò.
Bree stava per uscire da quella stanza, ormai aveva già sentito abbastanza, ma la porta dell’ultimo bagno si aprì per poi essere richiusa con forza, tanto da farla sussultare.
In un attimo si trovò faccia a faccia con una Millie spaesata, ma allo stesso tempo adirata.
“Io…”, iniziò Bree sbattendo freneticamente le palpebre.
“Tu non hai sentito niente.”, decretò Millie con voce perentoria.
La incenerì con lo sguardo, poi con passo deciso la sorpassò, lasciando Bree alle sue spalle.
“Allora, grande uomo, com’è andata con Margaret?”, chiese un entusiasta Liam all’indirizzo dell’amico, durante la pausa tra la terza e la quarta ora.
Harry sorrise, sollevando l’angolo destro delle labbra ed una fossetta si scavò sulla sua guancia.
“È andata.”, annunciò con aria sognante, perso tra i ricordi avvincenti di quella notte.
“Ma bravo!”, si congratulò sornione. “Ed è meglio o peggio di quello che sembra?”, domandò poi, volendo i particolari piccanti.
“Oh, è decisamente meglio.”, confessò. “Molto meglio.”, precisò portando una mano tra la massa di ricci.
“Parlavate di me?”, intervenne giocosamente Margaret, avvicinandosi al muretto sul quale erano seduti Liam ed Harry.
Non sapeva quanto avesse ragione.
“Ciao Harry.”, salutò il riccio schioccando un sonoro bacio all’angolo delle sue labbra, poi si sedette accanto a lui.
“Ciao.”, ripeté anche Charlotte seguendo l’amica con la quale aveva trascorso i minuti precedenti.
“Come va Charlie?”, chiese Liam all’indirizzo della ragazza che ultimamente aveva preso ad essere stranamente taciturna.
“Non sono nel mezzo di una fase critica in cui mi maledico per essere single, se è questo che volevi sapere.”, esordì palesemente tesa. “Noi donne sappiamo cavarcela anche senza un fidanzato.”, aggiunse ancora.
“Non lo metto in dubbio.”, rispose Liam, sulla difensiva. “Qualche volta tu e Margaret potreste unirvi a me e Millie.”, propose poi rivolgendosi all’amico, deciso a cambiare discorso.
Harry sorrise appena, cercando di camuffare quanto irritante trovasse quell’invito. Era stufo di ricevere consigli da Liam, voleva fare a modo suo per una volta. Inoltre, era convinto che Liam avrebbe concentrato su di sé tutta l’attenzione, distogliendo Margaret da una tranquilla passeggiata in compagnia di Harry.
“Questo è il problema di voi maschi!”, sbottò Charlotte.
Era ormai chiaro a tutti quanto nervosa fosse quel giorno. Solitamente tendeva a controllare i suoi impulsi, mettendo a tacere il suo senso critico ed i suoi acuti giudizi. Quella mattina, tuttavia, sembrava non riuscire a tenere a freno la lingua.
“Come se fosse obbligatorio essere in coppia per uscire!”, sbraitò gesticolando come una forsennata.
“Andiamo Charlie, io non intendevo…”, iniziò a spiegare Liam, prima di essere interrotto dalla bionda.
“Tu intendevi proprio questo, invece!”, controbatté. “Il mondo ruota intorno al sesso, diamine!”, tuonò riducendo gli occhi a due piccole fessure.
Charlotte non sopportava i pregiudizi, non sopportava le discriminazioni e le iniquità. Era una di quelle ragazze determinate, pronte a battersi per le proprie idee, a non tacere davanti a un’ingiustizia. Solitamente lottava per il rispetto degli animali o della parità delle donne, ma quella volta si era appigliata ad un cavillo quasi insignificante. Forse aveva solo bisogno di sfogarsi e Liam le aveva servito su un piatto d’argento un’opportunità irripetibile.
“Qual è il tuo problema nell’uscire con persone non accoppiate? Che ad una certa ora non ci si può appartare? È questo che ti infastidisce?”, lo accusò iniziando a muovere piccoli passi.
“Ma certo che no!”, rispose con trasposto, ma le sue parole non bastarono a placare l’ira di Charlie.
“Il punto è che siamo una generazione malata. Fingiamo di aver sconfitto l’apartheid e la segregazione, ma siamo pronti a puntare il dito contro chiunque appare diverso da noi.”, blaterò.
Margaret la guardava spaesata, non immaginando affatto quanto potesse infervorarsi per un semplice invito. Harry, invece, aveva corrugato la fronte, avendo perso il filo logico del discorso.
“Abbiamo combattuto lotte molto più impegnative e feroci, simuliamo che tutto vada bene, ma in realtà non è così!”, riprese.
“Charlotte, forse stai esagerando.”, provò a dire con cautela Margaret.
“Esagerando? Esagerando? Sai quanti animali hanno ucciso per la tua borsa? Lo sai?”, tuonò sempre più scossa, puntando l’oggetto di pelle che l’amica aveva lasciato cadere sul muretto.
Margaret si alzò, affiancandola. Con un braccio circondò le sue spalle, nonostante l’opposizione fatta da Charlotte.
“Va tutto bene, Charlie.”, sussurrò abbracciandola.
Finalmente la bionda si calmò, godendo del calore di quella stretta. Si lasciò cullare e chiuse gli occhi. Quando li riaprì erano umidi e le sue guance erano solcate da lacrime.
“Mi dispiace.”, balbettò poggiando la testa sulla spalla di Margaret.
“È tutto ok, tranquilla.”, ripeté la ragazza, aumentando la presa intorno al busto di Charlotte.
Aveva represso quel pianto per giorni, sforzandosi di non cedere, perché lei era forte, ma alla fine era scoppiata proprio nel momento in cui meno se l’aspettava. Louis l’avrebbe assimilata ad una bomba ad orologeria che era non era stata disinnescata in tempo.
Al termine delle lezioni Audrey uscì dall’edificio e si incamminò verso l’auto della sorella, parcheggiata ad uno dei primi posti. Per almeno un’altra decina di giorni avrebbe dovuto fare affidamento su  Millie per gli spostamenti. Audrey aveva da poco dato l’esame di guida per la patente, conseguendola. Tuttavia non disponeva ancora di una macchina di sua proprietà. Ne aveva ordinata una appena qualche giorno prima, ma il colore della vernice che aveva scelto non era disponibile nell’immediato, così si era ritrovata senza una vettura capace di assicurare ogni suo movimento.
Poggiò la schiena alla portiera del lato del passeggero ed incrociò le braccia al petto, sperando che l’attesa non si fosse protratta eccessivamente nel tempo.
“Quante volte ti ho detto di non appoggiarti alla mia auto?”, sbottò Millie, piombando all’improvviso alle sue spalle.
Audrey sbuffò, voltandosi in direzione della sorella.
“Anche io ti ho detto centinaia di volte di non urlare come una gallina, ma tu continui a farlo.”, sibilò con un ghigno sulle labbra.
Millie aprì l’auto ed entrambe presero posto nell’abitacolo.
“Sei insopportabile, è per questo che non hai amici.”, sentenziò mentre girava la chiave nel quadro.
“Certo, invece tu sì che ne hai.”, ironizzò Audrey. “Sei patetica.”, affermò poi con aria sprezzante.
“Tu invece mi fai pena.”, ribatté Millie, non preoccupandosi neppure di rivolgere un veloce sguardo alla sorella. “Ti vesti di nero, ti ricopri di matita, ti nascondi da tutto e da tutti. Non potresti provare ad essere un po’ più femminile e socievole?”, continuò.
Audrey scosse il capo, sfinita da quei continui battibecchi.
“E tu, invece, potresti semplicemente smetterla di rivolgermi la parola?”, bofonchiò, sperando di dare un taglio a quella inutile discussione.
“Certo, anzi meglio. Non parliamo.”, borbottò Millie con una smorfia.
“Bene.”, terminò soddisfatta Audrey, prima di ricadere nel suo silenzio.
Bree si sedette esattamente di fronte alla scrivania della sua analista. Quel pomeriggio aveva una delle frequenti sedute in cui non si sarebbe tassativamente potuta assentare.
“Ciao Brianne.”, la salutò la donna con voce pacata e gentile.
“Salve.”, ricambiò la ragazza piegando le labbra in un sorriso appena accennato.
“Cosa mi racconti oggi?”, le chiese la donna, sistemando meglio gli occhiali sul naso.
Bree fece spallucce, non avendo molto da raccontarle. Per lo più la sua vita era scandita da ritmi tranquilli ed abituali che non le riservavano alcuna novità eclatante.
“Credo di aver trovato dei nuovi amici.”, disse dopo interminabili secondi, quando le immagini di quella mattina le si pararono davanti agli occhi.
“Vuoi dirmi come si chiamano?”, domandò l’analista, temendo stesse mentendo o si trattasse di personaggi fittizi.
“Louis e Zayn.”, rispose. “Frequentando la mia scuola.”, spiegò.
Tutto quel silenzio la faceva sentire a disagio, tanto che era costretta a giocherellare con l’orlo della camicetta dalla tonalità pastello che indossava. Era snervante dover parlare di sé ad una donna estranea che continuava a fissarla come fosse un esemplare unico al mondo degno dei più accurati studi scientifici.
Non sentiva quella sensazione di conforto, supporto e comprensione che pensava di poter trovare presso uno studio del genere.
“E sono gentili con te?”, continuò la donna, proseguendo il suo rituale interrogatorio.
“Sì.”, confermò Bree puntando lo sguardo in quello della signora seduta a poco più di un metro da lei.
Quello strazio sarebbe continuato per almeno un’altra ventina di minuti, il necessario affinché poi l’analista potesse sentirsi perfettamente in regola per pretendere i soldi della visita dalla madre di Bree.
“Hai voglia di dirmi altro?”, le chiese dopo qualche minuto di assoluto silenzio.
Agli inizi Bree trovava estremamente irritante l’atteggiamento di quella signora, così ogni qualvolta le porgesse quella domanda Bree raccontava storie surreali di avventure esotiche e di esperienze inimmaginabili. L’analista l’ascoltava, facendo finta di credere a tutto ciò che diceva, poi la salutava con fare affettuoso. Ma puntualmente il girono seguente Bree si vedeva aumentata la dose quotidiana di pillole. Così, alla fine, aveva deciso di dare un taglio netto a quello stupido giochetto, ma ormai era troppo tardi. La prima volta che Bree era stata da uno psicologo era perché aveva dato uno schiaffo ad un bambino. Aveva appena dodici anni e quel tipo aveva cercato in tutti i modi di darle un bacio. Lei non voleva, quel ragazzo non le piaceva affatto. Un giorno, dopo il suo ennesimo tentativo mal riuscito, gli aveva stampato una cinquina sulla guancia sinistra. Nessuno aveva creduto alla sua versione dei fatti. Tutti avevano preferito additarla come la ragazza violenta la cui madre prendeva antidepressivi. Aveva iniziato con colloqui mensili, ma sua madre aveva pensato bene di intensificarli, fino a quando, l’anno scorso, l’aveva portata dalla sua analista. Da quel momento era iniziato per Bree un lento e graduale declino.
“No.”, rispose senza abbassare lo sguardo.
Non aveva davvero voglia di raccontarle della sua vita, probabilmente non ne aveva mai avuta.
Louis salì sull’auto che Zayn stava guidando. Sapeva che il suo amico, quella sera, sarebbe dovuto andare a consegnare dell’erba per conto di uno di quei tipi che di tanto in tanto gliene forniva qualche oncia a buon prezzo.
“Sei sicuro di volerlo fare?”, gli domandò voltandosi verso l’amico.
Louis non era un fifone, ma sapeva quanto rischioso potesse essere immischiarsi in un giro del genere.
“Devo, lo sai.”, sentenziò con lo sguardo fisso sulla strada.
“Ok, allora facciamo questa cosa e torniamocene a casa.”, borbottò Louis.
“Grazie.”, mormorò Zayn prima di spingere il piede sul pedale dell’acceleratore.

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Angolo Autrice
Wow, non ci credo, torno finalmente ad aggiornare! *.*
Credo sia passata un'eternità dall'ultima volta, ma, sapete, tra traslochi e borsoni vari è stato un po' difficile trovare il tempo... :/
Anyway, che ve ne pare di questo capitolo? :D
Bree e Louis... L'avreste mai immaginato? D:
Dai, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate. ;)
A presto (sarò più regolare d'ora in poi),  
                                                                                 Astrea_ 










  
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