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Autore: Lori_Tommo96    23/10/2013    4 recensioni
Quindi lo lascerai andare così? Ero pronta al rifiuto, pronta a dire addio per sempre a quello che eravamo stati, ma non ero assolutamente preparata alle sue mani calde e accoglienti che mi presero il viso, alla sua lingua dolce che si insediò tra le mie labbra chiedendo l’accesso alla mia bocca.
Mi stava baciando e lo stava facendo come nessuno lo aveva mai fatto prima.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutte le mie adorate lettrici!
Vi annuncio da subito che il prossimo sarà l’ultimo capitolo (stento a credere di essere arrivata in fondo al mio progetto aaaaah).
Spero che questo capitolo non vi deluda, c’è parecchia introspezione ed è incentrato principalmente sulla figura di Giulia e il suo stato d’animo.
Non vedo l’ora di farvi leggere il finale della storia, ci sto ancora lavorando per renderlo al meglio!
Grazie a chi recensisce e a chi segue Red Dress.
Ora la smetto e vi lascio al capitolo!
Buona lettura!
Lori_Tommo
 
 
 
 
 
“Allora Giu, quali sono state le conseguenze economiche della Seconda guerra mondiale?” chiese Hope mordendo il cappuccio della sua penna e sistemandosi meglio gli occhiali da vista sul naso, affondando la testa sul libro e attendendo una mia risposta. Ma io ero stufa di studiare, non avevo voglia di pensare all’esame, non in una bellissima giornata di inizio giugno seduta su una panchina nel parco. 
“Dai basta, per oggi abbiamo ripassato abbastanza” mi lamentai, alzandomi di scatto e chiudendo il libro di storia che teneva sotto il naso.
“Ok hai vinto, facciamo due passi”
Camminammo un po’ nel nostro parco, lo stesso che frequentavamo da bambine.
Avevo tanti ricordi di quel posto. La maggior parte riguardavano Hope, Abby e Harry, quand’era ancora il ragazzino che amava giocare a pallone nel campetto che stavamo affiancando io e la mia amica.
Pensavo a cosa stesse facendo in quel momento in America, precisamente a Los Angeles, mentre io passeggiavo nei posti dove adoravo giocare con lui.
Guardai distrattamente il mio braccio. Mi avevano tolto il gesso da pochi giorni, il polso era a posto, ma dovevo ancora tenere una fasciatura.
La cosa spaventosa era la mia mano. Una volta tolti i punti, rimase un segno rosso violaceo che partiva poco sotto il mio indice e arrivava al mignolo. Dava il voltastomaco solo a guardarlo.
“Ti fa ancora male?” chiese Hope indicando con lo sguardo la ferita ormai chiusa.
“No, la mano è ok, tira solo un po’. E’ il polso a farmi male, ma il dottore dice che è normale”.
Hope annuì, poi fece una domanda scomoda, senza però intuire l’effetto che mi fece.
“Quando potrai suonare di nuovo?”
Tasto dolente. Avevo paura solamente a guardarlo il pianoforte, non ero pronta per suonare con il polso così fuori uso, ma non sarei comunque stata in grado di rimettere le mani sopra una tastiera.
Avevo paura, una paura folle di come mi sarei potuta sentire se mi fossi seduta al piano e dalle mie mani non fosse uscito nulla. Perché dopo più di un mese di totale immobilità, non sapevo cosa aspettarmi. Guardai Hope cercando di mantenermi impassibile.
“Intanto non posso andare all’accademia, ho smesso di studiare e anche di lavorare per pagarmi le spese” affermai ostentando indifferenza alla situazione, quando invece quell’amara consapevolezza mi distruggeva.
Avevo passato notti intere a piangere, quelle in cui non poter stringere Harry faceva più male.
E in quei casi cadevo nella mia silenziosa disperazione, come mi successe quel pomeriggio al parco per una banale frase della mia amica, che camminava al mio fianco ignorando quanto rumore facesse nella mia testa il mio apparente silenzio.
Tutto quello che avevo fatto in tanti mesi si era rivelato inutile e constatarlo mi uccideva.
Capii di avere bisogno di uno sfogo, di qualcuno che mi capisse e con cui potevo parlare a tu per tu senza vergogna, altrimenti sarei esplosa.
E la persona adatta era al mio fianco. Camminammo ancora per un po’, in religioso silenzio, poi mi sedetti su una panchina invitando Hope a fare altrettanto. Presi un bel respiro e parlai.
“Ho fallito in tutto. Non sono riuscita a fare capire ai miei genitori quanto ci tenga a Harry, con la mia fuga di dicembre non ho fatto altro che alimentare il loro astio nei suoi confronti. Ma comunque non c’è molto da stupirsi, non hanno capito neanche quanto ci tenessi alla musica, altrimenti quello stupido lavoro non sarebbe servito. Ho lavato bicchieri su bicchieri, servito degli ubriaconi di mezza età ogni sera, sottraendo tempo allo studio, per cosa? Per poi finire così” sventolai il mio braccio malato. Hope mi ascoltava attentamente, perciò ripresi il discorso.
“Ma non sono solo loro a dare problemi sai? Essere distante dalla persona che amo migliaia di chilometri, vedere Harry sulle riviste, saperlo circondato da un mondo viscido fatto di apparenza, foto, feste esclusive è il prezzo da pagare per essere la sua ragazza. Ci sono anche io sul web. Nove articoli su dieci che mi riguardano, parlano di me come la stupida ingenua ragazzina che aspetta il suo principe azzurro nel suo castello fatato mentre lui se ne sbatte a decine. E io non voglio credere a queste storie, non posso proprio permettermi di pensare all’eventualità che siano vere, altrimenti potrei impazzire” sospirai, cominciando a torturarmi i ricci e asciugandomi una lacrima che non ero riuscita a trattenere.
Hope mise una mano sul mio ginocchio, avvicinandosi di più a me.
“Ho sempre pensato che la tua vita fosse un po’ incasinata… beh lo è, ma pensa che tra poco, passati gli A-Levels, andrai al college a Londra, con me, con Cindy, sarai più vicina a Harry! Quando non è in tour abita lì no?”
Annuii tenendo lo sguardo basso. Hope continuò nel suo intento, quello di mostrarmi il lato positivo delle cose e non potevo negare di avere un disperato bisogno di vedere il bicchiere mezzo pieno.
“Per quanto riguarda internet, il gossip e tutte quella robaccia, beh un’accanita lettrice di riviste stupide come te dovrebbe avere imparato che il novanta per cento di quello che è scritto su quei giornaletti è una colossale cazzata, no?” lo disse scherzando, riuscendo a strapparmi un sorrisino divertito. Sì, io e lei ne avevamo lette di idiozie sulle riviste, tante anche.
“Hai ragione” ammisi, posando la mia mano sulla sua, che stava ancora sul mio ginocchio.
“Una cosa però devi farla Giuli” disse seria. Non intuivo a cosa si riferisse, ma me lo fece capire.
“Fai una chiacchierata in famiglia ok? Me lo prometti?” domandò speranzosa.
Non le avevo mai voluto bene come in quell’istante.
“Ci ho già provato, ma te lo prometto” la abbracciai “Grazie” sussurrai al suo orecchio.
Mi strinse ancora un po’, poi mi riaccompagnò a casa come se la conversazione non fosse avvenuta.
Era sempre così: passavamo dallo sfogarci, al deprimerci insieme, per poi scherzare pochi minuti dopo come se niente fosse. E con lei ci stavo bene anche per quello.
 
 
Decisi che rimandare quella conversazione con i miei genitori sarebbe stato inutile, quindi pensai di parlare con loro la sera stessa, a cena. Il fatto che non ci fosse Cindy a supportarmi poteva essere uno svantaggio, perciò decisi di ricorrere a un altro tipo di aiuto. Scrissi un messaggio al mio riccio sperando di non averlo disturbato. Maledetto il fuso orario.
 
- Ho bisogno di consulenza, puoi collegarti su Skype?
 
Evidentemente non avevo scelto un momento sbagliato, perché la sua risposta arrivò dopo pochi secondi.
 
- Il tempo di accendere il pc e sono tutto per te.
 
Soddisfatta, salii alla svelta le scale, mi chiusi in camera, accesi il pc e aprii Skype.
Dopo un po’, mi apparvero in diretta due dei cinque membri dei One Direction, a torso nudo, sullo schermo del computer.
“Holaaa” urlarono in coro il mio moroso e quel bel pezzo di ragazzo del suo amico irlandese dagli occhi magnetici, nonché Niall Horan.
Scossi la testa, abbozzai un “ciao” e sorrisi, cercando di non sbavare davanti a quel dannato schermo e sforzandomi di essere naturale. Non avevo molta confidenza con Niall, ma non ce n’era gran che bisogno data la sua naturale espansività esagerata. Infatti, fu lui a parlare per primo, come se mi conoscesse da sempre.
“Come va la vita nel vecchio continente?”
Scoppiai a ridere per l’assurdità della domanda.
“Non sono io quella che in giro per il mondo a fare concerti, ditemi qualcosa voi due!” proposi.
Harry fece per aprire la bocca, ma il biondo lo precedette.
“Qua è uno spasso, le fan americane sono un po’ turbolente, il cibo si lascia a desiderare, ma non ci lamentiamo, vero Haz?”
Dovevo abituarmi ancora a quel nomignolo, ma mi piaceva un sacco.
Harry guardò la webcam, quindi me, poi Niall.
“Hai mangiato qualsiasi cosa portassero a tavola, mancava solo che mordessi un piatto! Se il cibo non facesse schifo che avresti fatto?” lo canzonò Harry, facendomi sorridere.
“Si chiama istinto di sopravvivenza Styles, non posso morire di fame anche se il cibo fa schifo!” spiegò Niall, strappando una risata con tanto di fossette a Harry e una anche a me.
“Vai biondo, togliti dai piedi adesso!” a Niall arrivò uno spintone.
“Un momento, devo salutare Giulia. Ciao Giuliaaaa!” gridò in direzione della webcam.
“Ciao Niall” risposi sorridendo: era in assoluto l’irlandese più pazzo che conoscessi.
Sembrava un orsacchiotto innocente con quei suoi occhioni azzurri e il viso ancora fanciullesco ma, superata l’apparenza, il dolce Niall era un tornado vivente di adrenalina e risate.
Harry mi aveva raccontato decine e decine di aneddoti riguardanti il biondino, uno più imbarazzante dell’altro, comunque già alla festa di Capodanno mi ero accorta della natura espansiva e burlona di Niall.
Dopo vari spintoni tra i due, Horan decise di arrendersi e rimasi a tu per tu con Harry, anzi a tu per tu con la sua faccia e il suo petto muscoloso sul mio schermo.
“Scusalo, non sa farsi gli affari suoi, ha letto il messaggio che mi hai mandato e ha voluto presenziare” spiegò Harry.
“E’ simpatico Niall, ma è sempre… ehm così?” domandai un po’ incredula.
“Peggio di solito, ma tocca il fondo quando beve! Zayn ha nascosto la birra sotto la sua cuccetta nel tour bus, se la trova siamo rovinati!”
Scoppiai a ridere, ma poi mi ricordai per cosa l’avevo chiamato. Mi schiarii la voce.
“Devo parlare con i miei genitori stasera, di te. Ormai mi sembra il momento che accettino la situazione” affermai seria.
Harry assunse un’espressione visibilmente tesa, poi annuì.
“Ok, sono oltre oceano circondato da un corpo di sicurezza, ma tu cerca comunque di non fare arrabbiare tua madre più del dovuto!” scherzò alzando l’indice per ammonirmi.
“Stupido!” dissi non trattenendo una risata “Ti ho fatto collegare per un supporto morale, non puoi dire così!”
“Cosa dovrei dire?” chiese mettendosi una mano fra i ricci e torturandoseli.
“Non so, consigli? Sono un po’ in ansia a dire il vero…” ammisi.
Non sapevo esattamente come avrei toccato l’argomento: in casa nostra del mio fidanzato non se ne parlava MAI. Erano due le parole tabù dal giorno dell’incidente: pianoforte e Harry.
Il mio ragazzo mi guardò con occhi comprensivi. Quanto avrei voluto abbracciarlo in quel momento!
“Beh, ho capito che i tuoi non si fidano di me, ma visto che andrai ad abitare a Londra più vicino a me e che le cose più o meno vanno avanti potrebbero…”
“Più o meno Styles?” domandai fulminandolo con lo sguardo.
“Cos’hai capito scema!” mi rimproverò “nel senso che nonostante tutto questo casino riusciamo a volerci bene comunque, anche se ora ti vedo su un computer e non posso stritolarti tra le mie braccia. Vorrei baciarti anche, sai piccola?” confessò, arrossendo violentemente.
Sorrisi quasi commossa: erano pochi i momenti come quello in cui potevo bearmi della sua dolcezza. Anche Harry Styles aveva un lato romantico, seppure si ostinasse a non mostrarlo.
“Quanto ti amo quando arrossisci?” lo punzecchiai, ma ero sincera e lui lo sapeva.
“Sono diventato quasi diabetico, troppo miele” bofonchiò e io sghignazzai.
 “Beh, allora so perfettamente cosa dire in tua difesa” annunciai entusiasta.
Harry corrugò la fronte e fece un sorriso sghembo.
“Illuminami, cosa vorresti dire in mia difesa?” chiese virgolettando l’aria con le dita per sottolineare l’ultima frase.
Non ci pensai due volte alla risposta.
“Dirò che ti amo, che quando vuoi sei un ragazzo dolce, che mi manchi da impazzire e che non vedo l’ora di andare a Londra. Per il college, ovvio” sogghignai facendogli l’occhiolino.
Harry, dall’altra parte dello schermo, sorrise e fece per dire qualcosa, ma poi sentii chiaramente una voce distante chiamarlo per qualcosa che non afferrai. Harry si voltò alla sua sinistra, guardando qualcuno che mi era impossibile identificare e sospirò un “arrivo”, poi si rivolse a me.
“Direi che la prospettiva di Londra, di te e di me a Londra, mi piace. Ora devo andare, fatti valere!” mi incoraggiò.
“Ci provo”
“Manchi anche a me comunque” sussurrò appena, ma il messaggio arrivò forte e chiaro.
Gli sorrisi. Ci scambiammo un ultimo saluto, gli lanciai un bacio virtuale con tanto di schiocco e chiusi il pc.
 
 
 
Circa una mezz’ora dopo mi trovavo seduta al tavolo della cucina, davanti a un piatto di riso che non avevo assolutamente voglia di mangiare, mentre i miei genitori chiacchieravano del più e del meno.
Rigiravo i chicchi bianchi con la forchetta in cerca delle parole giuste da dire, per far sì che la discussione non finisse come l’ultima volta: non avrebbero perdonato un’altra fuga amorosa o qualcosa di simile.
No, non era più il momento di fuggire o di far finta che Harry non esistesse davanti a loro.
Lui era una parte fondamentale del mio futuro, i miei genitori dovevano capirlo e, soprattutto, accettarlo.
Mentre stavo ancora cercando l’imput per quello che avevo da dire, mia madre si accorse del mio disagio.
“Non mangi tesoro? Sei agitata per gli esami? Che c’è che non va?” chiese in modo apprensivo.
Non avevo mangiato che un boccone di riso, ma rischiai di vomitare all’istante.
Che c’è che non va?
Sentii il cosiddetto tuffo al cuore, le braccia appesantirsi, gli occhi riempirsi di lacrime e la rabbia scorrere incontrollata in tutto il mio corpo, da capo a piede.
Davvero non si rendeva conto di cosa non andasse per il verso giusto? Sul serio non si era accorta delle lacrime che avevo versato le prime notti dopo il disastro, quando la mattina mi alzavo con gli occhi gonfi, rossi e con tanto di borse? Come poteva non notare la mia paura di rimettere le mani su un pianoforte, la fottuta paura di capire che non sarebbe mai tornato nulla come prima? Era da un tempo infinito che non sfioravo quei tasti e lei, la donna che mi aveva messo al mondo, non mi aveva “notata” mentre cadevo in frantumi e ricostruivo i miei pezzi uno ad uno.
Era sempre lei la donna che non aveva capito a distanza di mesi e mesi quanto io e Harry ci amassimo, lei sapeva preoccuparsi solo della scuola, del college, senza dare una minima importanza alla parte di me che urlava per essere capita.
La guardavo senza proferire parola, incredula, sconvolta, mentre ero investita in pieno da rabbia e delusione, dal totale senso di abbandono.
Non so dove trovai la forza per parlare, ma lo feci, con voce ferma e distaccata.
“Ci sono varie cose che non vanno” cominciai “ad esempio mi manca lavorare. Sai perché? Perché io avevo bene in mente come spendere quei soldi. Avevo un progetto per il futuro”.
Decisi di dire la verità. Guardai negli occhi entrambi i miei interlocutori, a turno: non era solo mia madre a dover capire. Mio padre mi spinse a continuare con un gesto di mano e non me lo feci ripetere.
“Io voglio davvero andare al college a Londra, ma pensavo di frequentare contemporaneamente anche la Royal, pagandomi da sola le spese, senza il vostro aiuto, ma…” un nodo alla gola mi bloccò e sentivo le lacrime scendere sulle mie guance. Mio padre e mia madre erano allibiti.
Dovevo finire, cercai aria disperatamente con  un respiro profondo e proseguii.
“Succedono gli incidenti no? Sarebbe potuta andare peggio, potevo morire, ma anche con questa filosofia non riesco a non stare male, non avete idea di come mi senta senza la mia musica. Ah, e poi c’è Harry mamma!” gridai “Lui a differenza vostra, anche da lontano, mi ha aiutata a farmi forza!  Ci amiamo, cazzo! Non dico semplicemente che lo amo perché non basta, anche lui ama me e voi non lo a-accettate” singhiozzai, prendendomi la testa tra le mani e cadendo in un pianto disperato.
Il riso era diventato freddo, nella stanza calò il silenzio.
Mi sentivo male, ma più leggera. Non sapevo quando e se avrei ritoccato un pianoforte, ma la consapevolezza che mi stavo comunque rialzando, grazie a Harry, Hope, mia sorella, mi faceva sentire forte. Sapere che il merito non era delle persone che mi stavano davanti mi faceva soffrire, ma averglielo detto in faccia mi aveva tolto un gran peso.
Fu mio padre il primo a parlare.
“Perché non ci hai detto a cosa servivano i soldi, se avessi saputo quanto ci tenevi…”
“Lo sapevi papà!” lo corressi “ma ormai non ha importanza la Royal, non riesco ancora a piegare il polso e non so se avrò mai la forza per rimettermi a suonare” constatai amaramente.
I miei genitori si guardarono e allora ci vidi chiaro: nei loro occhi si leggeva a caratteri cubitali la parola pentimento. Avevo colpito nel segno.
“Tesoro” fu mia madre a parlare.
Si alzò dalla sua sedia, poi si diresse verso di me, appoggiandosi al mio lato del tavolo.
“Credo che le scuse non bastino, mi dispiace tanto” sussurrò.
E lo so che in quel momento avrei dovuto fare la sostenuta, dire che non me ne facevo niente delle sue scuse, ma io le volevo bene e il mio scopo non era vincere una sorta di battaglia, bensì quello di portare un po’ di pace e comprensione in quella casa dove vivevano dei perfetti sconosciuti da troppo tempo. Perciò scattai in piedi e la abbracciai, piangendo sulla sua spalla come quando ero piccola.
Lei prese ad accarezzarmi i ricci e mi fece calmare, perché diamine, io avevo bisogno della mia mamma.
Però avevo anche un’altra disperata necessità e per la prima volta sentivo che avrei potuto ottenere da loro ciò che volevo. Mi staccai dall’abbraccio per guardare negli occhi mio padre, che a testa china fissava il vuoto, evidentemente dispiaciuto.
“Papà” lo richiamai e allora mi guardò “non mi interessa la Royal, non so se nella mia vita ci sarà mai spazio per la musica, ma una cosa te la devo chiedere, anzi la devo chiedere a tutti e due”
“Se ti riferisci a Harry” mi precedette mio padre “abbiamo sbagliato a giudicarlo. Dovrebbe venire a cena da noi qualche volta, potrebbe quasi starmi simpatico” sdrammatizzò, facendomi un lieve sorriso che sapeva tanto di scuse.
Il mio cuore fece le capriole, i tripli salti mortali e le piroette. Mi alzai da tavola e andai ad abbracciarlo.
Per quella volta, dopo un tempo impronunciabile, eravamo di nuovo una famiglia nel vero senso della parola. Perciò li perdonai tacitamente, come avevano fatto loro con me miliardi di volte quand’ero piccola. Non avrei mai immaginato che quel generale di mia madre e il sergente che aveva per marito potessero conoscere il significato della parola “scuse” se a doversi scusare erano proprio loro.
Mi stupii anche di me stessa: per una volta nella mia vita avevo tirato fuori il coraggio, non ero scappata, non mi ero nascosta e avevo ottenuto finalmente qualcosa.
Prima di quella sera pensavo che fossero solo gli altri, Hope, Harry e Cindy per lo più, ad aiutarmi a reagire e a non farmi mollare, ma quando tornai nel mio letto dopo la cena più assurda della mia esistenza avevo capito una cosa importante: sapevo essere forte anche da sola.
  
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