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Autore: orocea    23/10/2013    2 recensioni
Castiel vede spesso suo padre.
In realtà non ci ha mai parlato e oggi che ha trent’anni, probabilmente, quell’uomo misterioso di cui ha sempre saputo immaginare solo l’ombra sarà già morto. Però lui lo vede: suo padre è in tutti gli angoli, si riflette in tutti gli specchi del reparto psichiatria.
[... ]
Dean Winchester è un ragazzo ben piazzato, con un bel paio di occhi verdi, una discreta fortuna con le ragazze e assolutamente nessuna voglia di operarsi di peritonite.
AU!destiel
Genere: Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessuna stagione
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Questo capitolo mi è venuto giù tutto in un botto, dunque preparatevi psicologicamente a leggere un cucciolo di obbrobrio appena partorito e grondante sangue. L’immagine non è delle migliori, ma è quella che rende meglio l’idea. Non so dove andrà a parare questa fanfiction, che cresce in maniera direttamente proporzionale al mio amore da fangirl per la destiel, però sono contenta lo stesso perché mi permette di scrivere e per una volta mi sento abbastanza soddisfatta di quello che sto facendo. Quindi: pace, amore e biscottini. Grazie infinite a tutti gli utenti che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate e che l’hanno recensita. Spero che nonostante tutto gradiate questo capitolo e che il prossimo aggiornamento arrivi presto.
Buona lettura!

 
 
Ask me why and I'll die
 
Dean si sveglia alle sei e quarantacinque del mattino, dopo aver fatto nove ore di un sonno surreale che gli sono sembrate un viaggio febbrile sulle montagne russe. Apre piano gli occhi, abbacinato dalla luce sottile e prepotente dell’alba e dalla morfina antidolorifica, senza davvero mettere a fuoco qualcosa. Avverte un sentore d’umido sulla sua bocca e si accorge di aver sbavato nel sonno. E’ tutto intorpidito, ma costretto a rimanere supino per via dell’operazione recente, e si rende conto di non comprendere per niente quei pazzi che si sottomettono alla chirurgia plastica e hanno il coraggio di subire i devastanti effetti post operatori.
«Dean» sussurra qualcuno al suo fianco.
«Cosa c’è», chiede Dean, con la voce impastata. Non sembra neanche una domanda.
Poi sussulta, capendo all’improvviso di non essere solo, e volta la testa di scatto, aprendo occhi e bocca in una smorfia allarmata.
«Parla piano, non dovrei essere qui a quest’ora».
«Ma tu sei quello dell’altra notte!», urla Dean. «Castle!».
«SSH!». Castiel lo trapana letteralmente con lo sguardo. Il pigmento dei suoi occhi – blu di Prussia?, si chiede Dean – crea un riverbero sulle sue guance grazie alla strana luce mattutina, come se il colore colasse giù lungo gli zigomi. Lanciandosi in avanti gli tappa la bocca con la mano destra, ma la saliva sulle labbra dell’altro lo coglie impreparato e lo costringe a ritrarsi con una smorfia che è un interessante misto di schifo e sorpresa. «Sono Castiel», precisa, sventolando la mano contaminata e cercando con lo sguardo nella stanza un distributore di disinfettante.
«Come hai fatto a venire qui?».
«Quando le infermiere del turno di notte smontano c’è sempre un po’ di confusione». Castiel sorride soddisfatto, alzando il mento.
Dean chiude gli occhi e li riapre, per accertarsi che non è più tanto fatto di morfina. L’altro è ancora nella stanza e si sta spalmando il gel disinfettante sulle mani con un impegno quasi eccessivo.
«Perché sei venuto?».
Castiel si volta, improvvisamente serio, e lascia cadere le braccia lungo i fianchi. Ci sono almeno due metri di distanza tra loro e Dean non riesce a decifrare il suo sguardo, lontano e improvvisamente cupo.
Comincia a dondolare sul posto. «Non volevo davvero che mi facessi questa domanda».
«Be’, dovevi comunque aspettartela» protesta Dean.
Castiel smette di dondolarsi e incolla gli occhi al pavimento.
«Allora?».
Non vorrebbe davvero parlarne. Pronunciare la parola ‘allucinazioni’ e simili di fronte a un tipo come Dean sarebbe come sottoscrivere il proprio contratto di svitato a vita nella sua testa. E’ nervoso, molto, ma riconosce che al momento l’unica cosa che potrebbe fargli ottenere l’amicizia di Dean è la sincerità.
Come la nostra vicina di casa Marge, quella che ci portava le crostate di domenica e poi quando ha saputo che mi sono tagliato le vene ha smesso con le crostate e ha cominciato con i rosari e l’acquasantiera e, soprattutto, con quegli insopportabili sguardi di pietà e i sussurri di compassione come se fosse al cospetto di un morto.
Rettifica: al momento una sincerità velata è più che sufficiente.
«Ho sognato».
Dean si solleva un po’ e appoggia le spalle sul guanciale come meglio può. «Hai sognato me?».
«Già». Gli occhi di Castiel fanno avanti e indietro dal letto al pavimento. «Mi dicevi di venire da te oggi».
«Ehm… Interessante».
L’imbarazzo di Dean è palese. Castiel non voleva questo. C’è davvero bisogno di un motivo per voler incontrare di nuovo qualcuno, specialmente se può essere l’amico che non hai mai avuto?
Prosegue. Vorrebbe essere normale, dunque prosegue come se niente fosse. «Mi dicevi il numero della stanza, 505. Io non lo ricordavo. Poi mi dicevi che avevi un’officina meccanica. E’ vero, no? Ho trovato anche il recapito telefonico».
Dean sorride, muovendo le spalle, rilassato. Pensa di stare ascoltando un mezzo svitato, in effetti. «Sì, be’, ho davvero un’officina meccanica».
«Te l’ha lasciata tuo padre tre anni fa quando è morto. Mi dispiace tanto per la tua perdita».
Dean alza lo sguardo all’improvviso, diventando serio. «Come lo sai?», chiede. «Eri un cliente?».
«Non ho mai avuto una macchina».
Dean sembra davvero il tipo che non digerisce le cose che non stanno sotto il suo controllo. E la mente di Castiel sembra essere una di queste.
«Non scherzare».
«Non scherzo».
«Dimmi chi sei o chiamo l’infermiera».
Castiel si getta in avanti, allarmato. Dimentica tutti i paletti che si era imposto per essere considerato dal suo nuovo potenziale amico come una persona nei limiti della norma e dice: «Sono Castiel Novak, ricoverato al reparto psichiatria, piano terzo, stanza 393, e ho le allucinazioni e ieri ho avuto un’allucinazione - in realtà le ho tutti i giorni - ma ieri ho visto che hai un fratello che fa tirocinio per diventare avvocato, e hai anche una macchina d’epoca, un’Impala del Sessantotto e-».
Dean solleva il braccio libero dagli aghi e gli pianta la mano sulla spalla, scuotendolo vigorosamente. «Calmati. Tu devi tornare nella tua stanza».
«Ti prego, dammi ascolto, non sono pazzo, ho le allucinazioni ma so che non sono reali».
Dean lo guarda sovrappensiero, soppesando tutte le possibilità. C’è una scintilla di lucidità negli occhi di quel ragazzo strano, dal nome insolito e dai lineamenti così quadri e regolari, e contemporaneamente un po’ di disperazione in cui vede inevitabilmente se stesso. Ha improvvisamente le vertigini.
«Devi ascoltarmi», chiede di nuovo, come se ne dipendesse la vita.
Dean sospira. «Come faccio a sapere che non sei un pazzo cospiratore?».
«L’unica cosa che so consultare sono gli elenchi telefonici e i vocabolari», dice Castiel, convinto. «Da dove avrei potuto prendere informazioni?».
«Internet».
«Non so usare il computer e non ne vedo uno da un pezzo. La mia allucinazione è stata solo una coincidenza». Non ci crede, ma che altro potrebbe dire?
Dopo un istante interminabile, Dean lascia andare la spalla dell’altro, rilassando il braccio e tutto il corpo sul guanciale. Quella conversazione lo ha sfinito anche e soprattutto in senso fisico. Il palmo della sua mano è un po’ sudato e improvvisamente sale dalle coperte leggere un calore fastidioso. Chiude gli occhi per qualche secondo prima di riaprirli, fissare per un momento il vuoto come a recuperare le energie e poi puntarli sull’altro, che si rimette dritto e fa un mezzo passo indietro.
Ci sono due minuti di silenzio, durante i quali Dean cerca di rendersi conto, stavolta con sforzi mentali più seri, se è ancora fatto di morfina o no.
Castiel lo fissa: ha l’aria di uno che sta cercando di prendere una decisione importante e spera davvero di non aver reso inutile il proprio disperato tentativo.
«Perché sei qui?», chiede all’improvviso Dean.
«Sinceramente?». Un sospiro. «Non lo so bene neanch’io».
«Okay…». Dean scuote la testa a destra e a sinistra, lentamente, come per sgranchirsi il collo. «Sono le sette e tredici», dice, guardando verso l’orologio appeso alla parete opposta al letto. «Tra sette minuti esatti passa il controllo mattutino».
E’ un invito cortese a sloggiare. Castiel si avvicina alla porta e poggia una mano sul pomello. «Volevo solo dirti che tornerò».
«Perché?».
«Per conoscerti meglio e per convincerti che non sono pazzo. Ma più per la seconda, a dire la verità».
Dean si lascia sfuggire una risata. Castiel vorrebbe voltarsi e guardarlo ridere, ma si trattiene. «Buona fortuna, 007».
«A presto, Dean».
La porta si schiude senza nessun rumore. Castiel guarda prima a sinistra, poi si sporge a destra e scivola fuori, richiudendola. Il silenzio è così assoluto che Dean dubita di essere davvero sveglio.
  
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