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Autore: Blam_    25/10/2013    1 recensioni
Mi chiedo che senso ha?
Non la vita. La vita non ha nessun senso. Già il parto è una cosa inutile: devi soffrire per regalare al mondo una vita che probabilmente non avrà nessun senso.
Prima dovevi sopravvivere per vivere, ora se sei vivo esisti.
La vita è un peso.
Ma che senso ha?
Si può essere indipendentemente liberi?
Genere: Avventura, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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La squadra zeta lavorò al darmi una casa per due ragioni: per fuggire ai compiti estivi e perchè un compagno non si lascia mai senza un bagno.
In tutto eravamo cinque se si esclude mia madre che faceva di tutto tranne aiutarci: lei gridava ordini militari (Forza soldati, su con quelle assi poppante, voglio che sudiate come maialini d'india in un forno a microonde...etc..etc..). 
I più piccoli, Amelia e Jordan, venivano impiegati nell'abbellire gli interni mentre i più grandi, Giuly,Dante e io,raschiavano le superfici dallo sterco dei volatili e trasportavamo, assemblavamo e ci davano sui piedi tutto ciò che c'era di più pesante. Naturalmente fummo incaricati anche di aiutare i veri muratori, gli elettricisti e gli idraulici di turno che davano una forma all'appartamento. 
Furono tre mesi di eterna sofferenza ,giorno e notte.  

Continuavamo a dormire in tenda perchè nessuno ci voleva tra i piedi. Quella fu un'estate equatoriale quindi meno si era insieme meglio era. 
Mia nonna non ci portò nemmeno in vancanza: ogni estate trasferiva  tutti i nipoti al mare per due settimane e per me che già all'età di cinque anni avevo  visto tutto il litorale greco, quella spiaggia piena di cicche e di fazzoletti usati che si rigettava come vomito in quell'acqua piena di assorbenti e creme solari, sembrava bellissima. 

Alloggiavamo sempre nella stessa casa che Nonnone affittava. Era Blu. Ironico, il blu significa tristezza, nostalgia e ogni volta che ce ne andavamo qualcuno piangeva e per qualcuno intendo io...scoppiavo in suppliche e lacrime, poi avevo uno stadio di rabbia epiclettica e mi gettavo a terra cingendo le gambe di mio nonno che mi guardava ridendo:non volevo partire. 
Per noi della zeta andare al mare significava libertà: dovevamo autogestirci, non avevamo i nostri genitori che ci ponevano dei limiti, il limite eravamo noi. Ciò significava che dovevamo imparare da soli ciò che era giusto o sbagliato per condividere in maniera pacifica un appartamento ,sotto naturalmente la vigilanza ,nei primi tempi,di nonnone, che ci dava una mano a pulire ognuno le proprie stanze, e nonna che insegnò a cucinare a tutti tranne che a me poichè mi riteneva un piromane: una volta feci saltare in aria il micoonde e un'altra volta ancora presi fuoco infornando le pizze di fine estate nel forno a legna di zia Celia. 
Con il passare del tempo e  la nascita di nuovi piccoli fagioli smocciolanti ci dividemmo le mansioni. Io ero adepto alla disinfestazione (era sempre pieno di ragni, zanzare e scorpioni che si infilavano nei letti) e al lavaggio dei piatti. In più mi affidarono Jordan, quei bastardi. 

Il più piccolo dei cugini era allergico alla natura, all'erba, al polline, alla polvere, alle punture di formiche rosse, alle noccioline e all'ambiente e ciò comportava lo stare attenti a tutto ciò che infilava nella sua boccuccia ingrata e fetida e al sangue che gli usciva puntualmente dal naso per il troppo starnutire. Era emofobo: appena notava una un pallino rosso sulla sua maglietta ,che poteva benissimo essere sugo o gelato al lampone, il suo preferito, vomitava o sveniva. Così se sentivo riecheggiare uno starnuto tra le pareti blu, mi fiondavo verso il suo epicentro con un secchio e un rotolo di carta igenica. Alla fine diventai paranoico e delle notti le passai in bianco. Quell'ingrato non mi ha mai ringraziato anzi, se la rideva ogni volta che asciugavo il suo vomito dalle mie infradito. 
Neanche Jordan però riusciva a guastare l'immagine che avevo dell'andare al mare.

Non avevamo una sveglia fissa, il primo che alzava le sue chiappe dal materasso preparava la colazione per tutti e puliva la sua stanza nell'attesa. Naturalmente la prima persona che si svegliava era mia nonna. Si svegliava come un fantasma, fluttuava verso la cucina e silenziosamente metteva a scaldare il latte sul fornello, preparava l'enorme tavolone in sala e alla fine si sedeva in cucina a guardare i primi raggi fiochi del mattino. Non si accorgeva nemmeno quando prendevo una sedia e mi posizionavo lì vicino. Eppure io non avevo la sua stessa grazia quando mi svegliavo; il mio era un sonno leggero e scomodo, il mio risveglio pesante e lumacoso. Quando la mattina camminavo verso mia nonna, la terra tremava. Ogni volta che poggiavo il più leggermente possibile, a mio parere, un piede a terra facevo lo stesso rumore di una mandria impazzita di bufali in calore. 
Una volta poi che tutti erano svegli  con i letti fatti e la pancia piena, indossavamo il costume e andavamo verso il mare prendendo per mano i più piccoli. Attraversavamo la strada e percorrevamo placidamente il breve tratto di marciapiede che ci separava da quel paradiso inquinato in cui noi ci divertivamo da pazzi. La mattina, poichè il sole picchiava molto forte, ci limitavamo ad aspettare vicino l'ombrellone l'ora prestabilita per tuffarci in acqua. Grazie a questa scusa ,mia cugina per ammazzare il tempo mi trascinava con se a fare lunghissime passeggiate. Non fu del tutto tempo perso: eravamo molto legati e il passare molto tempo da soli quelle mattine ci legò ancora di più. Io le raccontavo i miei viaggi con la mamma, le persone buffe che incontravo e le mie papere causate dalla mia goffaggine da oca ubriaca; lei si limitava ad ascoltare e a sorridere. Aveva un sorriso bellissimo anche quelle volte che lo forzava, inclinava un pochino gli angoli della bocca e la sua faccia si tramutava in un piccolo eden. Era uno di quei sorrisi ottimistici che hanno il potere di convertire un emo nella persona più felice della galassia, come una pillola d'estasi. Era placido e rassicurante ed era mio. 
A volte invece mi rimproverava per delle cretinate che commettevo, come l'uccisione involontaria di una gallina investita da una carriola in Brasile, o del mio isolarmi con me stesso perchè mi riteneva carismatico e molto intelligente. "Ma io non sono così...lo sono con te perchè mi piaci." 
"Lo sei anche con tutti gli altri cugini e con zia e con i nostri nonni. Posso dialogare con te come se fossi un ragazzo più grande e ci portiamo 3 anni di differenza! Perchè non fai conoscere al mondo queste qualità? Perchè le sigilli?" 
"Perchè...perchè non tutti mi meritano. Oh."  Scoppiò a ridere.
"Ah, questa poi! In realtà sei solo un misantropo egoista!" 
"Misantropo?"
"Vuol dire che odi il genere umano"
" Ma io non ti odio!"
" Lo spero, fessachiotto" 
E continuavamo finchè non eravamo arrivati agli scogli delle tartarughe da dove ci tuffavamo e facevamo immersioni. Amavo tuffarmi molto vicino agli scogli perchè erano sempre pieni di alghe verdi, innocue, che però facevano un solletico tremendo e rilassante. Mi lasciavo portare dalla corrente tra le rocce e mi strusciavo lì vicino; la sensazione delle alghe sulla pelle mi rizzava i peli sulle braccia. Era come se tante mani si contendessero il mio corpo galleggiante e privo di qualunque essenza vitale, morto. Mi accarezzavano morbosamente le piante dei piedi e le gambe, mi sorreggevano sul pelo dell'acqua come in un concerto e ti lasciavano alla corrente. Ogni dolore, provocato dall'urto del mio corpo tra gli scogli, era quasi inesistente mentre mi ubriacavo dell'amore che quelle sirene invisibili avevano per me. Mi ungevano la pelle con i loro tocchi morbidi dalle mani setose sfiorandomi dolcemente.
Quando uscivo dall'acqua ero sempre pieno di lividi ed escoriazioni con la pelle d'oca e una gobba tra le gambe. Giuly lo attribuiva al freddo ma io inconsapevole continuavo a masturbarmi mentalmente tra le rocce. Rimanevamo lì fino a mezzogiorno. Una volta mentre mia cugina si stendeva sul bagnasciuga e io facevo immersioni per trovare delle tartarughe marine, mi imbattei in una piccola cavità nella roccia. Incuriosito, mi avvicinai e fui risucchiato dentro quel cunicolo buio e bagnato. Cominciai ad aggrapparmi agli spuntoni di roccia che trovavo ma la corrente era troppo forte e mi risucchiava sempre più dentro. Avevo due possibilità: morire incastrato o affogare nell'altra estremità perchè se c'era corrente voleva dire che doveva esserci un'altra cavità nell'interno. Così mi lasciai andare, almeno così avrei risparmiato la vista del mio corpo blu a Giuly. Dopo secondi che mi parvero interminabili, sbucai in una piscina naturale con spiaggia e tartarughe. Arrivai alla conclusione che negli scogli c'era una caverna. La luce filtrava dai piccoli buchi nelle rocce che lasciavano passare la luce del sole e io potei trovare un'uscita in quella che sarebbe potuta essere la mia tomba. Mi arrampicai tra gli spuntoni delle pareti e riuscii ad infilarmi in uno di quei buchi luminosi solo che rimasi incastrato. Iniziai ad gridare aiuto e sentii il mio nome ripetersi dalla riva. Mia cugina gridava da più di un'ora credendo che fossi affogato o che avessi sbattuto la testa tra gli scogli; quando mi vide con mezzo busto di qua e mezzo di là per poco non mi prese a calci. Mi voleva bene ma il mio egocentrismo, come lo definiva lei, che in realtà era solo pura curiosità, la faceva andare in bestia. Cercò di tirarmi fuori senza mozzarmi il tronco o una gamba che già non riuscivo a sentire più. Venti minuti, trenta quarantacinque, io sudavo in preda al panico e Giuly, tra insulti e bestemmie, cercava di tirarmi fuori. 
Sentendo le sue grida e vedendo me a metà, si avvicinò il figlio del bagnino del lido lì affianco, Biagio che ci fissò entrambi e ritornò da dove era venuto.  Poco dopo tornò con una tanica d'olio, del burro e un calzante. Mia cugina lo capì al volo e tutti e due strofinarono il burro sul buco da dove cercavo di uscire e mi fecero colare addosso l'olio; il calzante lo tennero per ultima e disperata risorsa perchè già non entravo io, figurati il calzante! 
Poi si divisero le mie braccia e iniziarono a tirare verso l'esterno, alla fine mi presero per le ascelle. Dopo molto tempo, diciamo quanto basta per cuocermi come del riso fritto all'extra vergine di oliva, riuscirono a farmi sgusciare fuori. Appena uscito non ebbi nemmeno il tempo per riprendere fiato perchè mia cugina aveva iniziato a lanciarmi  i suoi famigerati fendenti a mano doppia: tirava con l'intenzione di uccidermi. 
Mentre lei cercava di mettere fine alla mia inutile esistenza da rompipalle, Biagio la osservava. Mi piacerebbe dire "ci" osservava ma in realtà io facevo parte dello sfondo su cui aveva posizionato Giuly. 
A nove anni iniziai a provare gelosia per una donna. 
Ero geloso e seccato che lei mi usasse per arrivare agli scogli delle tartarughe ogni mattina solo da accompagnatore. Dapprima non le importava, lo vedeva solo come n compagno di giochi che ci sorprendeva a nuotare tra gli scogli. Poi però iniziò a piacerle quel piccolo -infimo- stronzo -ruba -cugine. Lo rivedemmo infatti l'anno dopo nel pieno della pubertà: aveva cambiato voce, era più alto di una spanna e i suoi lineamenti ,già delineati dai muscoli dell'atleta per i suoi lavoretti estivi da aiutante bagnino, si maschilizzarono. Ne venne fuori un modello di intimo maschile con l'acne. Aggiungendo anche il suo carattere smielato e determinato, alla fine delle due settimane gli sorpresi a baciarsi in acqua. Era un bacio da prima volta, inesperto, erano timorosi di toccarsi e sorpresi di poterlo fare con le labbra. A riva c'erano le loro asciugamani e un cestino da pic-nic con sopra una rosa. 
Era un pomeriggio bellissimo, l'acqua era calma e c'era l'alta marea, in pratica era la giornata perfetta per fare immersioni. Non vedendo arrivare Giuly in spiaggia con gli altri cugini credevo che fosse già andata verso gli scogli e avesse avuto la mia stessa idea. Ero particolarmente felice non solo per la giornata, ma anche perchè quella stessa mattina Biagio e lei avevano litigato per non ricordo quale stupida ragione...ah, si! Gli avevo fatto sbattere la testa contro uno scoglio e Giuly mi aveva difeso. 
Felice ma con l'anima appesantita dal senso di colpa, andai verso gli scogli per una nuotata e per scusarmi con la mia adorata cugina. 
Quello che vidi mi fece salire del vomito misto a rabbia. Come si era permesso quel lurido verme bastardo figlio di una cagna di toccare un fiore così puro con un sorriso angelico?! Non riuscivo a fare mente locale, il demone della gelosia mia aveva invaso e io gli avevo permesso di dominare il mio corpo e tutte le sue funzioni motorie, tanto che andai verso il cestino da pic-nic e lo aprii: dentro era ancora tutto intatto, l' impazienza di baciarsi gli aveva invasi completamente, il cestino era una sorta di ornamento all'appuntamento, una scusa per vedersi. Ci cagai dentro e sulla sabbia umida, lontano dalle onde insaziabili del mare scrissi "goditela finchè puoi". 
Me ne andai soddisfatto. 
  
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