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Autore: Ivola    25/10/2013    3 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
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Note: Vi ero mancata? No? Bene.
Comincio col dire una cosa importantissima: ho finalmente ricominciato a rispondere alle recensioni (o quasi...), sembra banale, però è un passo avanti contro la pigrizia e gli impegni che vogliono impossessarsi di me.
Questo capitolo non è lunghissimo, e non mi fa impazzire, ma forse è passabile. Sono felice di dirvi che qualcuno ci aveva azzeccato. Su cosa lo scoprirete solo vivend- leggendo, leggendo. E vabbé, dai.
Avevo detto che avrei pubblicato domani o domenica, e invece ho fatto prima perché ho eliminato un pezzettino che volevo aggiungere alla fine. Forse lo metterò comunque come flashback iniziale nel prossimo, boh.
Ah, visto che radioactive me l'aveva chiesto, i banner li "alternerò" in base i capitoli. Quello di Mito mi sa di copertina per i capitoli un po' più "soft", ecco.
Che altro...? Non lo so, solo che la psicologia di 'sti qua è sempre più contorta. London è un'incoerente del platano che mi danna la scrittura /con affetto/.
Ho un messaggio per Gretuzza: nota il "Go home" del quarto paragrafo. Ok? *inspira, espira*
E ringrazio per le recensioni la suddetta radioactive, yingsu, Ribes e _Horan_. Penso di adorarvi, mi avete fatta davvero felice. Per non parlare degli 11 preferiti, 1 ricordate e 25 seguiti. Grazie infinite a tutti, sul serio ♥
So... Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene dall'omonima "Fake plastic trees" dei Radiohead.
Che dovete assolutamente ascoltare, pena dolorosi squartamenti da parte della sottoscritta. Ascoltatela e piangete, ha tutto un significato simbolico che mi spezza il cuoricino ogni volta.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ















 













Blur

(Tied to a Railroad)






012. Twelfth Chapter – Fake plastic trees.




Klaus rimase immobile per degli attimi che a London parvero infiniti. Vide i suoi occhi ingrandirsi, la bocca socchiudersi pronta a esprimere verbalmente tutto quello che si stava tenendo dentro, i pugni stringersi e la pelle del viso impallidire.
« Klaus… io… » provò a dire, ma non sapeva proprio da dove cominciare. Forse dal fatto che avevano sprecato circa sei mesi della loro vita? No, non da quello, perché non era vero, non erano stati sprecati del tutto.
« Da sempre? » chiese lui con calma glaciale, alzandosi dalla poltrona.
London, guardandolo negli occhi, rimase impaurita da una sua possibile reazione e quella calma apparente non faceva altro che farla innervosire ancora di più. 
« No, non da sempre. Il dottor Thruman ha detto che probabilmente si tratta di una cosa sviluppatasi nel tempo, e che vorrebbe visitarti di nuovo. »
Klaus le si avvicinò. « Io non voglio farmi più visitare da nessuno » sibilò a poche spanne dal suo volto, stringendole un polso.
London fece un passo indietro, ma continuò a fissarlo con sguardo rammaricato. 
« Klaus, mi dispiace. »
« Non voglio il tuo dispiacere, basta così » disse lui, abbassando lo sguardo.
« Il dottor Thruman ha detto anche che- »
« Non m’importa! » scattò il marito. « Non importa più niente, adesso. »
« … ha detto che può essere colpa dell’alcool » continuò lei, imperterrita. « Ti sei rovinato da solo. » Non voleva incolparlo, ma ci teneva a precisare che si era causato quel male con le sue stesse mani.
« Cosa? » chiese, stupito.
« Sì, ubriacarti in continuazione ti ha portato a questo » rispose lei.
« Io non mi ubriaco in continuazione! » sbottò Klaus, alzando il tono di voce. « Non lo faccio da un bel po’. »
« Perché hai trovato un’altra distrazione, non è così? »
Non aveva potuto fare a meno di fare quel commento, perché era più che certa che fosse la verità.
Klaus le lanciò uno sguardo arrabbiato e incapacitato. 
« Vaffanculo, London. Sai che ti dico? Che sei inutile almeno quanto me. » Lasciò il salotto velocemente, salendo al piano superiore con ancora i pugni stretti ferreamente.
London non lo avrebbe dato a vedere e non voleva, ma era rimasta ferita da quelle parole, anche se si era già aspettata una reazione simile. Prendersela con lei non serviva a niente, eppure forse era l’unica cosa che lui riuscisse a fare in quel momento.
Lo comprese, lo giustificò. Si era ritrovato in una situazione troppo ingestibile persino per lui, e forse il proprio aiuto non sarebbe più servito a niente in quel momento.
Sei inutile almeno quanto me, aveva appena detto. London pensò che se Klaus doveva sentirsi inutile allore il suo mondo stava crollando per davvero.

Si rannicchiò sotto le coperte, mentre fuori infuriava una vera e propria bufera, con tanto di tuoni e lampi che la facevano sentire inquieta. In quel momento avrebbe voluto tanto essere abbracciata da suo fratello, ma per forza dei fatti si trovava a casa, nel letto matrimoniale, sola. Allungò un braccio, trovando l’altro lato del materasso freddo e vuoto. Klaus probabilmente si era addormentato nella sua vecchia stanza, dove si era rintanato per tutto il giorno.
Da un lato avrebbe voluto andare a vedere come stava, ma sapeva benissimo che lui l’avrebbe cacciata senza scrupoli, perché aveva bisogno dei suoi spazi.
Dentro la propria testa si scatenava tutt’altro tipo di tempesta, fatta di domande, pensieri sfocati, parole… mentre nel petto l’unica cosa presente era un vuoto incolmabile. Il classico vuoto lasciato da un crollo di speranze.
Il dottor Thruman aveva parlato chiaro: Klaus era sterile e non avrebbe potuto avere dei figli. Il che, naturalmente, complicava tutta la faccenda.
London ripensò agli ultimi sei mesi, ai baci rubati, alle battutine maliziose, al corpo caldo di Klaus premuto contro il proprio, alle litigate e alle notti insonni. E tutt’a un tratto quel letto le parve talmente vuoto da eguagliare quella sensazione nel suo petto.
Sentiva freddo, nonostante le coperte, sentiva la necessità di dormire in compagnia di qualcuno, perché non avrebbe preso sonno in ogni caso. Troppi pensieri, troppe cose che le ronzavano in testa.
Era stato tutto inutile; stavano provando ad avere un figlio dalla fine di luglio e non avevano concluso un bel niente, anche se ogni volta che erano stati a letto insieme – nonostante il fatto che non sempre si era trattato del letto nel vero senso del termine – l’atto le era sembrato fine a se stesso. Erano tutte scuse, nessuno dei due aveva mai davvero voluto un figlio.
Si rigirò tra le lenzuola, nervosa, quando un lampo illuminò il suo campo visivo lanciando bagliori oscuri nella stanza. Sperava che Klaus l’avrebbe raggiunta presto, ma più i minuti passavano, più la sua insofferenza cresceva. London aveva la presunzione di credere che non avesse paura di nulla, ma forse l’unica cosa che la spaventava davvero era la solitudine. Certo, aveva pur sempre Ben, ma non sapeva cosa avrebbe fatto se un giorno tutti l’avessero lasciata da sola, al buio, come in quel momento.
Per un impulso improvviso si scostò le coperte di dosso e, a piedi scalzi, uscì dalla stanza da letto. Un brivido le scese lungo la schiena, a contatto con il pavimento freddo, quindi si affrettò a raggiungere la propria meta.
La vecchia camera di Klaus – che in realtà era una semplice camera per gli ospiti – era poco lontana, eppure London cercò di raggiungerla il più lentamente possibile. Non sapeva neanche cosa volesse fare, in realtà. Svegliarlo perché aveva bisogno di compagnia? No, l’avrebbe soltanto fatto incazzare.
Quando raggiunse la porta di mogano, contò dieci secondi prima di entrare. Poi la aprì piano, tentando di non farla cigolare e sbirciando all’interno. Si vedeva veramente poco, ma dopo un po’ la vista si abituò al buio, individuando il letto singolo con la testiera appoggiata alla parete.
Klaus era lì, supino, e sembrava dormire un sonno nervoso, perché ogni tanto cambiava posizione, mormorando qualcosa di incomprensibile.
London si avvicinò con cautela e lo osservò per qualche secondo senza motivo apparente, soffermandosi sulla sua fronte corrugata e chiedendosi che cosa stesse sognando. Spostò delicatamente le coperte, e s’infilò nel letto accanto a lui, sebbene ci fosse pochissimo spazio. Gli strinse la schiena in un gesto quasi del tutto spontaneo e intrecciò le gambe alle sue; lui parve tranquillizzarsi, perché smise di rigirarsi agitatamente. Passò qualche minuto, e anche la tempesta cominciò a placarsi.

« London? » mormorò improvvisamente Klaus, forse stupito e ancora in dormiveglia.
London non avrebbe voluto svegliarlo, ma si strinse di più a lui, sussurrandogli soltanto: 
« Va tutto bene », prima di chiudere gli occhi e trovare, finalmente, un po’ di pace.
 
 
*
 

Klaus si svegliò davvero molto presto; appena aprì gli occhi, notò che era soltanto l’alba. Dei fievolissimi raggi di luce giallastra facevano capolino da dietro le tende sottili, illuminando di poco la spoglia stanza degli ospiti, che infatti comprendeva solo letto, un armadio a due ante e una scrivania bianca.
Qualche granello di polvere viaggiò davanti al fascio di luce, trasmettendogli una curiosa sensazione di tranquillità, a differenza del caos che aveva governato la sua testa quella notte, come la calma dopo la tempesta.
Klaus non ricordava di aver mai fatto sogni tanto assurdi in vita sua: bambini piccolissimi divorati da un branco di leoni, un terremoto durante il suo matrimonio che distruggeva tutto il Distretto, Ben che gli parlava degli Hunger Games con gli occhi luminosi di un tributo Favorito, suo padre che tentava di uccidere London e Shyvonne… Un turbinio di incubi senza senso, ma capaci di angosciarlo così tanto da farlo sentire ancora stretto da una camicia di forza.
Rimase immobile per qualche secondo, rendendosi poi conto che a stringerlo erano semplicemente le braccia della moglie. Ricordava soltanto di sfuggita il fatto che lei si fosse stesa sotto le coperte accanto a lui quella notte, ma non il perché non l’avesse fatta andare via.
Non gli dispiaceva essere abbracciato così, ma ormai non aveva più senso. Potevano anche smettere di fingere, smettere di credere che andasse tutto bene, e soprattutto smettere di recitare la parte degli sposini innamorati.
Al solo pensiero sentì qualcosa crollare nelle sue certezze, dentro di lui. Lo voleva davvero? Voleva davvero tornare a convincersi di odiarla con tutte le proprie forze?
La risposta gli salì spontanea alla mente: no. No che non lo voleva, non dopo tutto quello che era successo.
Si girò piano verso di lei, attento a non farla svegliare. Dormiva ancora placidamente, con il volto rilassato e il respiro regolare. Rimase ad osservarla per degli istanti molto lunghi, sfiorandole piano un braccio. Dio, se era bella.
Le scostò un ciuffo dalla fronte con un sorriso amaro. Niente sarebbe più tornato come prima, certo, ma non per lei. London aveva sempre avuto suo fratello accanto e, nel bene o nel male, insieme sarebbero riusciti a superare ogni avversità.
Un po’ era invidioso del loro rapporto, perché lui non aveva idea di che cosa potesse significare avere sempre una spalla su cui contare, una persona che sapeva esattamente di cosa avessi bisogno. Erano fortunati, i Bridge, ad essere così uniti.
Klaus era solo, apatico e inutile. Non trovava altri aggettivi per definirsi.
Non avrebbe mai avuto dei figli, non avrebbe mai avuto una vita normale, non avrebbe mai ammesso di essere innamorato di London – o forse lo era sempre stato?
Si diede dello stupido, mentre continuava a bearsi dell’immagine addormentata della ragazza.

London si ridestò dopo qualche minuto, ancora stretta al petto di Klaus. Non disse niente, nonostante avesse notato che anche lui era sveglio.

« Dormito bene? » le domandò Klaus laconicamente.
La moglie annuì. 
« E tu? »
Il ragazzo non rispose, restando a fissarla in silenzio. In realtà non sapeva bene cosa dire, non riusciva a esprimere nemmeno con una parola tutto quello che gli passava per la mente in quel momento. Era tutto troppo dannatamente difficile.
London non indagò oltre e gli accarezzò una tempia delicatamente.

« E adesso? » fece Klaus, con un tono più vacillante di quello che avrebbe voluto.
« Adesso sta’ tranquillo » sussurrò la ragazza a pochi centimetri dal suo volto e dalla sua bocca. « Troveremo un modo. »
« Troverò » precisò lui, corrucciando lo sguardo. L’aiuto di London ormai non sarebbe più servito a niente.
London non ribatté, preferendo avvicinarsi e colmare quel divario tanto inutile tra le loro labbra. Klaus all’inizio rispose senza esitare, ma poi si staccò di botto.

« No » disse semplicemente, alzandosi dal letto.
Lei lo guardò interrogativamente. 
« No a cosa? »
« A questo! » esclamò in risposta. « Non capisci che ora è tutto inutile? » le domandò, alzando il tono all’improvviso. Non era arrabbiato con lei, ma il fatto che non riuscisse a trovare un senso in mezzo a tutto quel casino lo stava dilaniando.
London si alzò a sua volta, guardandolo afflitta. 
« Klaus, ci deve essere un’altra soluzione… »
« Certo che c’è » replicò il ragazzo amaramente. « Dobbiamo annullare il matrimonio. »
La moglie sgranò gli occhi e stava per esprimere la propria opinione, ma Klaus la batté sul tempo: « E’ finita, London. Non so bene cosa, ma è finita. Puoi tornare da Ben, adesso, andare da chi vuoi, ma non ha più senso continuare questa farsa. »
London inspirò piano. Troppe cose contemporaneamente, troppo velocemente.
« Klaus, aspetta… » mormorò, senza sapere davvero come continuare la frase.
« Sei libera » disse lui, con uno sguardo più addolorato che arrabbiato. « Torna a casa. »
 
 
*
 

London continuava a girare per la stanza nervosamente, biascicando frasi sconnesse e forse anche prive di senso.
Ben era seduto sul letto della sorella nella sua vecchia stanza del maniero dei Bridge e la osservava senza realmente guardarla, immerso in ragionamenti contorti.

« Ha detto che annullerà il matrimonio » ripeté di nuovo la ragazza.
Il fratello sospirò. 
« Non lo farà. »
« Era serio » ripose lei, contorcendosi le mani. « Insomma, è l’unica soluzione. » Il gemello si alzò dal letto e, tentando di rassicurarla, andò ad abbracciarla. London non si rifiutò e affondò senza indugio la testa nel suo petto, inspirando quel profumo così familiare.
« London » la chiamò Ben, prendendole il viso tra le mani affusolate. La indusse a guardarlo negli occhi e continuò: « tu vuoi aiutare Klaus? » Era una domanda diretta, a cui si potevano dare soltanto due risposte: una positiva, l’altra negativa.
London si specchiò negli occhi del fratello, così seri ma al tempo stesso  caldi e incoraggianti, poi non potè fare a meno di distogliere lo sguardo. 
« Non lo so, Ben. E’ che mi pare assurdo di aver perso sei mesi della mia vita inutilmente. Ormai mi ero anche abituata all’idea di avere un figlio, è frustrante. »
Ben cercò nuovamente il suo sguardo, accarezzandole una guancia. « Non hai risposto alla mia domanda. Vuoi aiutarlo o no? »
« No, io... » ribatté lei istintivamente, ma si rese subito conto che sembrava troppo falso persino per le proprie orecchie.
« Stai mentendo. »
London si stupiva tutte le volte di quanto suo fratello riuscisse a leggerle dentro, e da un lato si sentiva troppo esposta, perché neanche lei riusciva a leggere dentro se stessa. Erano gemelli, d’altronde, ma Ben era molto più bravo a capire i sentimenti degli altri.
« Oh, giuro che non so che fare » disse la ragazza, prendendo tra le proprie mani quelle del gemello. « E’ complicato. »
« Lo capisco, Londie » provò a tranquillizzarla, « ma adesso devi prendere una decisione. » Fece una breve pausa. « Tu non vuoi annullare il matrimonio, giusto? »
London probabilmente stava per dare un’altra risposta negativa, dovuta unicamente al suo orgoglio incrollabile, ma Ben la precedette: « Certo che non lo vuoi, o tutto questo tempo sarebbe stato sprecato. E vuoi anche aiutare Klaus, per quanto ti costi ammetterlo. »
La ragazza rimase a fissarlo in silenzio, quasi disarmata di fronte alla sua perspicacia. Aveva bisogno di lui, perché era l’unico che riusciva a metterle la verità in faccia senza essere rude o insensibile.
« Che cosa posso fare? » sussurrò lei, a quel punto, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. « E’ tutto inutile, adesso. »
Ben sorrise debolmente. « Non tutto. »
London alzò la testa di scatto.
« Lo so che lo stai pensando anche tu » continuò il ragazzo, portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
« No, Ben, no. Non me lo permetterebbe mai » disse la sorella, stirando le labbra in un’espressione amareggiata. « Si incazzerebbe soltanto. »
« Dipende da te. »
« E da te, no? » replicò lei. « Non voglio che tu sia costretto a farlo. »
« Io farei qualsiasi cosa pur di aiutarti. »
London tentennò qualche istante, osservando attentamente il volto del gemello, teso e persuasivo nella sua perfezione. « No, insomma, ci sono troppi rischi, e non sono d’accordo a- »
« London, guardami » disse Ben. « Io so che è importante per te. Adesso devi decidere, e la decisione è solo tua, ma sappi che io sono dalla tua parte. »
La ragazza, che improvvisamente aveva assunto un colorito più pallido, rimase in silenzio. Era pericoloso, lo sapevano entrambi. Una mossa azzardatissima, per quanto definitiva.
« Bisogna sempre rischiare, nel gioco degli scacchi » le aveva detto una volta suo padre, quando era ancora una bambina e vedeva il mondo come un gioco ai propri comandi, in cui quasi sempre si vinceva.
« Credo... » balbettò a quel punto, cercando le parole giuste.
Ben attese pazientemente il suo responso.

« … credo che forse dovremmo correre il rischio. »

London, in un gesto quasi involontario, chiuse frettolosamente le tende. Erano al primo piano della villa, certo, ma aveva il timore che qualcuno potesse vederli.
Era una sensazione stranissima. Prima non si era mai preoccupata che la gente potesse considerare e giudicare lei e Ben unicamente come i due gemelli incestuosi del Distretto Sei – a dire il vero era una voce che era circolata abbastanza spesso, specie tra gli impiccioni – perché non le importava di niente e di nessuno. Ma adesso le cose erano cambiate, in un senso che London nemmeno sapeva determinare.
Era come stare in apnea a lungo e non riuscire a riemergere. Doveva trovare un modo per respirare, per fare chiarezza nei propri sentimenti.
Stava accadendo tutto troppo velocemente e questo non la aiutava a trovare un ordine preciso. Un vorticare di eventi e di emozioni, ecco cos’era.
Un uragano che si era abbattuto su di lei con violenza.
London cercò di lasciarsi andare, mentre aiutava Ben a togliersi la maglietta, ma più si baciavano e più andavano avanti, più risultava un atto artificioso – o meglio, dettato dal senso del dovere. C’era dolcezza in quei gesti, sì, ma si trattava di una dolcezza più sottile e fraterna.
Ben tentò di metterla a suo agio, anche se non ce n’era bisogno; non c’era pudore, né desiderio, né fretta. Solo un obiettivo, forse. E delle mute parole.
London, baciando la pelle liscia del torace del fratello, pensò a quanto il proprio corpo fremesse molto di più dinanzi agli impulsi di Klaus, e se ne vergognò, così tanto da sentirsi sporca, macchiata.
L’aveva disarmata, alla fine. Klaus era stato capace di rendere nulle le sue difese e di vanificare i suoi tentativi di contrattacco o fuga.
Esitò, e quell’istante bastò a far capire al gemello che qualcosa non andava.

« Londie » sussurrò piano, a poche spanne dal suo viso, « non devi farlo per forza, se non vuoi. »
London lo baciò di slancio, tentando di bloccare quelle parole che, lo sapeva, sarebbero sgorgate lo stesso come una cascata gelida fatta di tormenti e insicurezze. Era impossibile trattenerle, a quel punto. Quasi doloroso.
« Non è un problema se adesso sei innamorata di lui » disse il fratello, appoggiando la fronte a quella della ragazza.
London per poco non sobbalzò a quella frase, riscuotendosi dai propri pensieri. Non era un problema. Certo, non era un problema per il solo fatto che non era vero.
London non era capace di amare nessuno, all’infuori di Ben, proprio non ci riusciva. E credeva di essere a posto con la coscienza per questo motivo, anche se non si spiegava come mai si sentisse ancora incompleta e al posto sbagliato.
Forse la verità era che non aveva voglia di mettere a posto i tasselli del puzzle. Forse aveva soltanto paura, come un comune essere umano che è spaventato dalla piega che stavano prendendo gli eventi.
Paura di cosa, poi? Di far crollare tutte le proprie certezze, probabilmente. Di vedere il proprio castello di vetro andare in frantumi senza alcuna possibilità di poter essere ricostruito.

« Non dire sciocchezze » affermò, con una velata nota d’insicurezza nella voce che in realtà voleva apparire decisa. « Io amo solo te, Ben. »
London si ritrovò a pensare che, in quel momento, il confine tra verità e bugia fosse talmente sottile da risultare insignificante, trascurabile.
Il gemello scosse la testa con un sorriso mesto, poi la baciò, lasciando che le circostanze facessero il resto.

 













   
 
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