E rieccoci dopo una lunga settimana!
Tenetevi pronti per questo nuovo capitolo...
sarà scoppiettante. E torna la cara Brethil.
(A proposito di lei, sto seriamente prendendo in
considerazione di scrivere un prequel sulla sua vita da Raminga, prima del
tradimento e dell’incontro con Boromir. Vedremo, quando finirò questa, se l’ispirazione
continuerà a bussare alla mia porta!)
Un abbraccio e buona lettura!
Marta
Pietra
- sequel di Betulla -
14.
20 Settembre 3019 T. E.
Si svegliò con incredibile energia, quella placida mattina
di domenica. Dopo la snervante giornata precedente, quel giorno avrebbe potuto
rilassarsi senza la preoccupazione di dover partecipare a pranzi pomposi e dare
il braccio ad avvenenti Nani che, di punto in bianco, avevano deciso di farle
dire addio alla poca lucidità di cui disponeva. Sentì il cuore accelerare i
battiti nel ripensare al pomeriggio speso con Thorin: era stato così surreale e
gradevole che credette di averlo sognato. Si era sentita per la prima volta in
vita sua il soggetto delle attenzioni di qualcuno e ne era rimasta
piacevolmente scioccata.
Si affrettò a scuotere la testa, scacciando via qualsiasi frivolo
pensiero e tornando con i piedi per terra. Non aveva niente su cui
fantasticare, poiché la realtà era ben lontana dai suoi sogni. Thorin stava
solo cercando di dimostrare la sua gratitudine e quelli che lui le aveva
mostrato erano il frutto degli insegnamenti di corte che probabilmente sua
madre gli aveva inculcato fin da piccolo.
Nient’altro.
Rabbrividì quando toccò il pavimento freddo con le punte dei
piedi nudi e, silenziosamente, si diresse verso il bagno per sciacquarsi la
faccia e prepararsi per la mattinata. Káel russava ancora profondamente, e
sapeva che non si sarebbe svegliato prima di mezzodì, dopo la nottata brava che
aveva trascorso con Fili e Kili. Sorrise nel ripensare alla serata che aveva
trascorso in allegria e spensieratezza, dopo la silenziosa e calmante
passeggiata in compagnia di Thorin. Si era vista circondata da quegli
inaspettati amici di bevute e, sebbene non avesse ingurgitato litri di birra da
farla barcollare, si era ritrovata a ridere e a scherzare senza inibizioni.
Persino l’impassibile Thorin si era lasciato andare ai canti e ad alcuni
divertenti aneddoti sui nipoti e su Dwalin, e le era parso che il suo viso
fosse ringiovanito di parecchi anni, nel vederlo così sorridente e lieto. Che
fosse realmente quello il vero aspetto del Re di Erebor?
Scosse nuovamente il capo. Doveva imporsi una calmata e
smettere di pensare a lui. Non era appropriato e se ne convinse quando l’acqua fredda
che si versò sul viso la svegliò di colpo, lavando via ogni pensiero. Si vestì
velocemente e tastò la consistenza delle trecce, che avevano resistito alla
notte dal giorno precedente. Quando uscì di casa fu sorpresa di vedere già
qualche Uomo sbrigare le proprie faccende, nonostante fosse presto. Camminò
verso la forgia, dove avrebbe terminato i regali per Fili e Kili durante il suo
giorno libero. Non si era mai sentita così serena nel pensare a due estranei
alla sua famiglia, e sapere che anche Káel e Káir avessero stretto amicizia con
loro non poteva che renderla ancora più felice.
Come immaginava, le fucine erano deserte e si diresse verso
la sua postazione. Aprì il baule che conteneva i due pugnali quasi completati: le
mancava solo di impreziosire i manici con delle piccole pietre preziose e
finire di intagliare le rune sulle lame. Così si mise all’opera, estremamente
concentrata sul suo operato e rilassata come solo poteva esserlo mentre
lavorava.
Ma Trán non era sola e avrebbe dovuto immaginarlo. Lui
stesso, del resto, aveva affermato che preferiva passare la maggior parte del
suo tempo tra il calore della fucina, piuttosto che in qualunque altro luogo.
Così si fermò appena il suono ritmico di un martello che batteva il metallo le
giunse alle orecchie. Sentì distintamente il cuore battere all’unisono con quei
colpi, poiché immaginò di chi si trattasse e si diede della stupida per non
aver prima controllato le altre aree e accertarsi che fosse davvero l’unica
presente. Non seppe bene cosa fare, se ignorare il fatto che non fosse sola o
se avvicinarsi alla fonte del rumore. E prima ancora che potesse rendersene
conto, stava già camminando verso l’ala riservata al Re. Aprì lentamente la
pesante porta in legno, stando attenta che i cardini non cigolassero, e sbirciò
all’interno. Lo trovò quasi subito, sudato e concentrato fino a corrugare la
fronte nello sforzo.
Ed era vergognosamente a petto nudo.
Trán represse a stento un’esclamazione di sorpresa, tappandosi
la bocca con entrambe le mani. Non era molto distante da lei, ma anche se lo
fosse stato i suoi occhi avrebbero comunque potuto ammirare quel petto
statuario e ricoperto dalla peluria scura, i lineamenti dei muscoli delle
braccia, che si tendevano ad ogni movimento, e la pelle lucida per
l’affaticamento. Si morsicò un labbro quando sentì il rossore salirle al viso e
quel fastidioso formicolio di piacere, come ogni volta che lui si facesse
troppo vicino, o la osservasse con quei suoi penetranti occhi azzurri.
Fu quando non udì più il ritmico martellare sull’incudine,
che si accorse dello sguardo di lui verso la porta. Era sicura che non potesse
vederla, poiché era in penombra, ma sentì ugualmente l’effetto di
quell’occhiata indagatrice e ora guardinga. Richiuse velocemente la porta, ed
altrettanto velocemente corse verso la sua postazione. Si poggiò con la schiena
contro il legno dell’ingresso, cercando di riprendere fiato e sperando che lui
non l’avesse seguita. Capì che il suo desiderio non fu esaudito quando sentì
mancare il sostegno della porta dalle sue spalle e Thorin se la ritrovò addosso
prima ancora di realizzare chi fosse.
«Tu–» mormorò, mentre quella si allontanava di qualche passo
e abbassava il capo, sforzandosi di non guardarlo neppure in viso. «Cosa stavi
facendo? E cosa fai qui di domenica?»
Trán strinse le labbra e i pugni, imponendosi di mantenere
la calma e non far tremare la voce. «Risponderò al–alle tue domande se... se ti
rivesti. Per favore.» Si rese conto
troppo tardi che quelle ultime due parole parvero più una supplica.
Il Nano sembrò ricordarsi solo in quel momento di essere
mezzo nudo di fronte a lei e sbiancò. Per sua fortuna lei non sembrò
accorgersene, poiché mantenne ostinatamente lo sguardo sulle punte dei piedi,
in quel momento di gran lunga più interessanti dello spettacolo che aveva di
fronte. Si allontanò per recuperare la maglia da lavoro e quando tornò la vide
seduta su uno sgabello, con una mano sul cuore, nel vano tentativo di
riprendersi dallo spavento – o da qualsiasi cosa l’avesse turbata. Si schiarì
la voce, per avvisarla della sua presenza, e lei scattò in piedi.
«Ti chiedo scusa se... ecco, se stavo spiando.» iniziò,
incespicando ad ogni parola. «Sì, insomma, non volevo... cioè, volevo vedere
chi fosse, perché... credevo di–di...»
«Trán. Non è
successo niente.»
La Nana alzò gli occhi su di lui, che nel frattempo le si
era avvicinato silenziosamente e ora sorrideva quasi divertito del suo
imbarazzo.
Ricordava male, o quella era la prima volta in cui la
chiamava per nome senza alcun tipo di formalità?
«Anche io credevo di essere solo, altrimenti avrei indossato
qualcosa di più... consono.»
Trán riuscì a trovare il coraggio di scherzare. «Direi che
avresti indossato qualcosa, che fosse
consono o meno.»
Lui rise piano. «Ad ogni modo, sto ancora aspettando la tua
risposta... posso chiederti cosa stai facendo?»
Sperava che evitasse di domandarglielo, ma si rendeva
perfettamente conto che fosse una fantasia vana. Non sapeva come avrebbe potuto
prendere il fatto che stesse forgiando due pugnali per i nipoti; ebbe la
spiacevole sensazione che lui non avrebbe approvato. «Ecco, stavo... terminando
un lavoro.»
«Di domenica mattina?» Thorin si avvicinò al suo piano,
osservando le due armi e prendendone una tra le mani, rigirandosela mentre la
studiava con il tatto e lo sguardo. «Non mi sembrano armi dei Rohirrim.» disse,
quasi più a se stesso che a lei. «E sono estremamente belli.» ammise dopo
qualche istante di silenzio. Colse un paio di rune appena incise sul metallo e
la guardò negli occhi, incuriosito. «Fi–
come?»
«Fili.» mormorò lei, senza pensarci.
«E suppongo che questo sia per Kili.»
Trán deglutì a fatica, mentre annuiva, perché non aveva
percepito niente in quel tono affermativo. Non disappunto, né apprezzamento.
«Stai forgiando due pugnali per i miei nipoti?» Ad un altro
cenno affermativo, l’espressione di Thorin si ammorbidì. «Devi amarli davvero
tanto, allora.»
«Io... credo di sì. Insomma, hanno il mio pieno rispetto e
gli sono riconoscente per l’amicizia che mi stanno offrendo; non mi era mai
successo prima. Anche se ho notato una certa coalizione con mio fratello per
deridermi.»
«Sei un facile bersaglio.»
«Oh, felice di saperlo.»
Thorin si ritrovò a sorridere, poggiando i pugnali e
alzandole il mento con un dito, per incontrare il suo sguardo. «Sono fortunati
ad avere un’amica come te, giacché a quanto pare la tua amicizia è cosa rara.»
Indugiò un po’ troppo l’attenzione su quelle labbra carnose e leggermente
aperte per la sorpresa, ma si allontanò, scacciando il desiderio di fare
un’idiozia e distruggere tutto ciò che avevano costruito insieme con tanta
fatica.
«Noi cosa siamo?»
Quella semplice domanda ebbe il potere di fermare i suoi
passi. Si voltò un poco, senza guardarla. «Noi?»
Trán annuì, inumidendosi le labbra. «Sì... anche noi siamo
amici, in fondo?»
«Tu lo vorresti?» domandò il Nano, dopo una breve
esitazione.
«Questa non è una risposta, spero te ne renda conto.»
mormorò, incrociando le braccia al petto.
«Trán, è ciò che vorresti – la mia amicizia?» replicò lui,
avvicinandosi nuovamente di un passo.
La risposta che si diede mentalmente la colpì come un’onda
sulla roccia.
No, lei non voleva la sua amicizia.
Almeno, non solo quella.
E l’aveva inconsciamente desiderato dal primo momento in cui
l’aveva visto, quando ancora non sapeva chi fosse e del ruolo che ricoprisse.
Ma c’erano così tanti motivi per farle rimangiare ogni speranza e desiderio,
che era assurdo anche solo pensarlo. Lui era la nobiltà per eccellenza, un sovrano, e come tale aveva dei doveri
nei confronti del suo popolo: come per esempio, scegliere la degna moglie che
avrebbe potuto dargli degli altrettanto degni eredi, e lei non aveva né il
primo né il secondo requisito. Non era di sangue reale, neanche lontanamente, e
men che meno il popolo avrebbe accettato il suo albero genealogico, che avrebbe
macchiato la pura linea di Durin con i rimasugli del suo sangue Elfico. E poi,
sposare Thorin avrebbe significato anche diventare la sua Regina e non sarebbe
stata in grado di fare neanche quello. Lei era solo un semplice fabbro con la
lingua troppo lunga e i sogni spezzati dal suo pessimismo.
No, lei non voleva unicamente la sua amicizia, ma si sarebbe
imposta di accettare solo quella che lui le avrebbe dato – se così avesse
deciso. «Sì, la vorrei tanto. Ma non so quanto tu abbia in considerazione il
mio rispetto.»
Thorin aveva notato la sua esitazione prima di parlare, ma nascose
l’amarezza e scosse il capo. «Credi che se non ti rispettassi, avrei perso il
mio tempo con te, ieri? Credi che sarei qui, ora?»
«Credo che entrambi ci siamo feriti a vicenda e nonostante
la tua cortesia temo che tu possa ancora serbare rancore.»
Sciocca ragazzina.
Se solo avesse saputo cosa si stava combattendo dentro di
lui in quel momento, in quei giorni, per causa sua! Lui rispettava la sua
animosità, che tanto lo aveva mandato in bestia in passato, e anche le sue
origini, perché ciò che aveva dovuto sopportare l’avevano forgiata nella donna
che era diventata; la rispettava, perché nonostante tutto, lei continuava a
portare fieramente il nome della sua famiglia.
Quella Nana non solo aveva il suo rispetto, ma stava rubando
anche il suo cuore senza che lui potesse fare niente per impedirglielo. Suo
malgrado, Thorin, Re Sotto la Montagna, si era addentrato in un luogo che non
aveva mai calpestato, troppo occupato a riprendersi Erebor, a riportarla ai
vecchi fasti e a difenderla con il suo stesso sangue, più interessato a fondere
il metallo per creare armi piuttosto che darsi pena per le poche donne che
avevano incrociato la sua strada.
Le prese le mani tra le sue, stringendogliele con
gentilezza. «Sei testarda, fin troppo sincera e più dura del mithril che lavoriamo. E, sebbene il
nostro passato non sia stato dei migliori, hai la mia stima, Trán dei Colli
Ferrosi. L’hai sempre avuta.» aggiunse, abbassando la voce il tanto da farla
rabbrividire. Si portò le mani alle labbra, baciandole entrambe con leggerezza
e mantenendo fermo lo sguardo su quello di lei, che sorrise e arrossì
contemporaneamente. «Ti prometto che tra qualche anno rideremo dei nostri
litigi, poiché hai anche la mia amicizia.»
Il sorriso luminoso che si formò sulle labbra della ragazza
raggiunse anche i suoi occhi chiari, e dopo tanto tempo sentì finalmente che le
cose andassero per il verso giusto, anche se non bene.
Ma prima che potesse fare o dire qualcosa, quel momento
idilliaco giunto inaspettato venne interrotto da un altrettanto inatteso e
penetrante suono, che vibrò tra le mura della fucina e li fece rabbrividire.
Era potente, proveniente da lontano, anche se pareva giungesse da pochi piedi
di distanza, e risuonò per tre volte. Così corsero fuori, Thorin che la teneva
saldamente per una mano, nella speranza di capire cosa stesse succedendo. Raggiunsero
quasi senza fiato la Cittadella, dove un numeroso gruppo di soldati si
affacciava per osservare in direzione di Osgiliath, e rimasero anche senza
parole. Trán si ritrovò a stringergli con più forza la mano, e lui ricambiò per
infonderle coraggio.
Thorin scorse Aragorn ed Éomer mentre passavano accanto
all’Albero Bianco e si scambiarono un’occhiata preoccupata. La situazione era
peggiore di quanto credessero.
L’esercito si era accampato a metà strada tra i Campi del
Pelennor e il fiume Erui, che avrebbero raggiunto in un’altra giornata di
viaggio. Avrebbero attraversato il guado del fiume, per proseguire lungo la
strada che portava a Sud, verso Pelargir, da cui si sarebbero spostati sulla
sponda orientale dell’Anduin per raggiungere il passaggio sul Poros e unirsi
alle esigue difese già presenti sul campo. Nonostante le poche possibilità di
riuscita di quella spedizione suicida, il morale tra i soldati era ancora alto.
Il pericolo della battaglia era lontano, per il momento, e non vi era bisogno
di incupire gli animi con silenzi e facce torve; quindi cantavano, di quando in
quando, ridevano e chiacchieravano sia durante gli spostamenti, che durante le
soste.
Brethil non conosceva la geografia di quella parte di
Gondor, sebbene avesse studiato a lungo le mappe che Boromir, a suo tempo, le
aveva mostrato; così Imrahil aveva raccontato loro la storia di quelle terre
solitamente tranquille nell’entroterra; e raccontò di Dol Amroth, la sua patria
sul mare, che tanto amava e difendeva. Legolas sentì più volte l’impulso di
rivolgere lo sguardo verso Sud, verso quella distesa immensa di acqua che tanto
bramava; se si fosse concentrato avrebbe anche potuto percepire il profumo
della salsedine portata dal vento e la musicalità dei gabbiani; sperò vivamente
di non riuscire a scorgerlo in lontananza, perché altrimenti il suo desiderio
di raggiungerlo si sarebbe fatto insostenibile.
L’accampamento si stava velocemente svegliando ed era
quieto, tranne per qualche soldato che, dopo la veloce colazione, approfittava del
tempo prima della partenza per allenarsi e faceva cozzare la propria lama
contro quella di qualcun altro. Tra questi, anche Brethil, Elladan ed Elrohir
avevano deciso di spendere la mezzora prima dell’inizio della nuova giornata così,
giacché avevano un conto in sospeso e nessuno dei tre l’aveva dimenticato.
Gimli, ricordandosi della disputa, si sedette comodamente su
una pietra, gambe incrociate e la lunga pipa tra le labbra. «E mi raccomando,
ragazza: non andarci piano.»
«E tu non spendere fiato in ovvietà, messer Gimli.» replicò
lei, estraendo Celeboglinn e
impugnandola saldamente con entrambe le mani. I gemelli fecero altrettanto,
sorridendo e mettendosi in posizione di attacco.
«Allora, thêl,
qual è la posta in gioco?»
«L’onore è più che sufficiente.»
«Mi sta bene. Dimostra di non aver dimenticato le nostre
lezioni, e nessuno lo perderà.» fece Elrohir.
Il fratello proseguì. «Ma se dovessimo sconfiggerti, ti
sottoporremmo ad allenamenti intensivi.»
Brethil sorrise. «I vostri allenamenti sono sempre
intensivi.»
«Allora? Volete iniziare o no?» esclamò Gimli, già sull’orlo
di perdere la pazienza.
Legolas gli si sedette accanto, incuriosito. «Non credi che
sia una sfida impari?»
«Ripetilo a voce più alta e ti ritroverai la lingua tagliata
di netto, Elfo.» replicò il Nano. «Non che la cosa mi dispiacerebbe, sia
chiaro.»
L’altro sorrise. «Oh, ma io intendevo per i figli di Elrond,
non certo per Brethil.»
I due amici si scambiarono un’occhiata e risero, godendosi
lo spettacolo – perché quando Brethil e i gemelli di Rivendell duellavano, era
assicurato. E infatti ecco alcuni soldati che, attirati da quel combattimento a
tre, e soprattutto stupiti nel riconoscere la Prima Guardia tra essi – si
avvicinarono per curiosare e puntare qualche scommessa – nessuno, ovviamente,
spese un soldo sulla donna; nessuno, tranne Imrahil, che contava di farsi un
bel gruzzolo di monete entro la fine della giornata. Eppure tutti dovettero
ricredersi appena videro la Dúnadan tenere abilmente testa ai due Mezz’Elfi,
che non stavano facendo niente per favorirla, e anzi, le avrebbero lasciato
numerosi lividi come ricordo di quella serata. In quella che pareva più una
danza, piuttosto che un combattimento, c’era eleganza, forza e determinazione;
e i due fratelli furono piacevolmente sorpresi di vedere che la loro allieva
prediletta non avesse perso lo smalto, nonostante la loro lunga assenza.
Brethil parò entrambe le lame dei due, e facendo perno sul
piede sinistro si diede la spinta necessaria per farli arretrare e
contemporaneamente muovere Celeboglinn, affinché le bloccasse verso il terreno;
con un rapido calcio al polso disarmò Elrohir, che si allontanò di un passo per
lasciare che il fratello completasse l’opera. Così, rimasti solo in due,
Brethil ed Elladan aumentarono l’intensità dello scontro. Le loro leggere ma
taglienti spade sembravano musica ogni volta che cozzavano l’una contro l’altra
e brillavano sotto la luce infuocata dell’alba. Proseguirono ad attaccare e
difendere con la medesima energia, e se l’uno arretrava di poco, l’altra lo
seguiva qualche minuto dopo. Vi era una sottile linea di differenza tra i due,
poiché anni di allenamenti insieme li avevano forgiati; ma Brethil non si fece
intimorire dalla sua inesperienza, comparata a millenni di vita, così come non
si era arresa di fronte alla tenacia e alla prestanza fisica del Nano Fili.
Aveva già disarmato Elrohir, avrebbe ripetuto la mossa anche con Elladan.
Ma non ci furono vinti, né vincitori in quel duello, poiché
vennero interrotti da un’eco lontana che riconobbero subito. Il Corno di Gondor
risuonò tre volte e Brethil credette di non avere più i polmoni, poiché non
riuscì a respirare. Ricordava ancora la potenza di quello strumento di musica e
di guerra, suonato per la vittoria o per la richiesta di soccorso. Ed era più
che sicura che quella volta fosse l’ultimo motivo il caso più plausibile.
Scambiò una rapida occhiata con Imrahil, confuso e
preoccupato quanto lei: perché se Boromir suonava il Corno di Gondor, allora
Osgiliath doveva avere grossi problemi. E la consapevolezza che non avrebbe
potuto scoprire niente, né correre al galoppo per andare a sincerarsi della
situazione, la fece cadere nello sconforto. Perché Boromir chiedeva aiuto?
Erano forse sotto attacco? Osgiliath non aveva una difesa adeguata, con i
lavori dei Nani in corso!
«Thêl, uuma dela, mellonamin.»
«Come faccio a non preoccuparmi?» mormorò lei, che ora
rivolgeva lo sguardo verso il fiume, verso Nord, dove sapeva ci fosse la città
distrutta. Strinse con forza la mano di Elladan sulla sua spalla, per cercare
conforto, e ringraziò i Valar che lui ed Elrohir fossero con lei, per
infonderle la calma e la forza che solo loro sapevano darle.
Imrahil tentò di sedare gli animi turbati. «Per quanto
possiamo saperne, Re Éomer potrebbe essere giunto in città e Boromir potrebbe
aver deciso di dargli il benvenuto così. Non allarmiamoci e concentriamoci sul
nostro compito, mia signora.»
La donna annuì, ancora poco convinta e con un brutto
presentimento. Ordinò all’esercito di mettersi in piedi e di salire a cavallo,
per rimettersi presto in viaggio, e proseguirono una decina di minuti più
tardi, con i cuori pesanti e ora poca voglia di cantare.
Erano tre notti che non riusciva a dormire; trascorreva le
lunghe e apparentemente infinite ore di buio a rigirarsi tra le lenzuola, irrequieto.
La sua mente non aveva intenzione di trovare riposo, con i pensieri
costantemente rivolti verso l’esercito in marcia al Sud. Sarebbe dovuto partire
al suo posto, come Sovrintendente e Capitano della Torre Bianca; e invece era lei a capo di quel numeroso gruppo di
soldati, lei stava andando a
rischiare la vita ancora una volta. Sapeva che non avrebbe avuto il diritto di
accusarla, né di impedirle di partire – anche se, se fosse stato presente al
momento della decisione, non avrebbe certo mantenuto la lingua in silenzio e né
avrebbe accettato la scelta con leggerezza.
Lui, il guerriero migliore di Gondor, dopo il suo Re, era
confinato a fare la guardia a dei Nani, piuttosto che andare a combattere per
il suo popolo e il suo sovrano. Se solo la notizia fosse giunta con più largo
anticipo, avrebbe galoppato più veloce che potesse pur di raggiungere Minas
Tirith in tempo e partire con lei. Se le fosse stato accanto avrebbe potuto
proteggerla, avrebbe potuto tenerla d’occhio.
Avrebbe potuto rivederla, un’ultima volta.
Boromir si passò stancamente la mano sul viso, sbadigliando
rumorosamente e mettendosi a sedere sul grande e vuoto letto. Gli mancava avere
la sua presenza minuta accanto, poterla stringere tra le braccia e addormentarsi
con il naso ad un palmo tra i suoi capelli neri e disordinati, inspirandone il
profumo ad ogni respiro. E sapere che, quando sarebbe rientrato nella Capitale,
in cinque giorni, non l’avrebbe trovata ad attenderlo, gli serrò lo stomaco.
Si mise in piedi, afferrando una tunica blu e infilandosela,
per uscire dalla sua stanza – una delle poche che avesse ancora un soffitto e
fosse priva di spifferi. L’innaturale calma notturna lo avvolse, e camminò
lentamente per le strade deserte e disordinate dai lavori; poteva solo udire,
di quando in quando, il potente russare di qualche soldato e soprattutto quello
dei Nani. Si avvicinò alla cinta muraria, una delle prime parti della città ad
essere stata rimessa in sesto; alcune porzioni erano state ricostruite
provvisoriamente in legno, in attesa che le pietre venissero lavorate e
sagomate a dovere prima di essere posizionate. Vi passeggiò sopra, salutando
con un breve cenno del capo le sentinelle che incontrava. Si fermò a guardare
la chiara sagoma di Minas Tirith, che sembrava illuminarsi sotto i raggi
lunari; e lì rimase finché il cielo non iniziò a tingersi di rosso.
«Mio signore, buon giorno. L’ennesima notte insonne?»
Boromir si voltò verso Dáin, che pareva incredibilmente
sveglio nonostante fosse una domenica e avrebbero iniziato a lavorare più tardi
del solito.
«Buon giorno a te, sire Dáin.» lo salutò. «Troppe
preoccupazioni mi impediscono di dormire, questi giorni. E tu come mai sei già
in piedi, se mi è permesso domandarlo?»
Il Nano corrugò la fronte, guardando verso Est. «Ho un
brutto presentimento, ragazzo mio. E i Nani hanno fiuto, per certe cose.»
«Ahimè, neppure io sono tranquillo.» L’Uomo sospirò. «Ma
temo che sia dovuto alle cattive notizie che sono giunte da qualche giorno, più
che per il mio senso di preveggenza alquanto scarso.»
Dáin rimase stranamente in silenzio, aggrappando i tozzi
pollici sulla pesante cintura in oro che gli accerchiava la vita robusta.
Pareva avere la mente molto lontano da dove si trovava e Boromir iniziò a
chiedersi se non dovesse inquietarsi anche per lui. In quei lunghi giorni, in
cui aveva avuto la possibilità di conoscerlo, Dáin si era mostrato come un Nano
chiacchierone, che amava il suono della sua voce quasi quanto l’oro e le pietre
preziose; saperlo impensierito e muto come un pesce, non fece altro che
accrescere i suoi timori.
Entrambi si voltarono immediatamente quando le campane
d’allarme risvegliarono la città. Corsero verso le guardie, e quando giunsero
al termine delle mura sulla parte occidentale, lo videro. L’esercito dell’Est
avanzava speditamente verso di loro e più il sole saliva, più esso illuminava
nuovi elmi. Boromir rimase impietrito nel constatare l’incredibile numero di
soldati che si muoveva all’unisono; e appena si accorsero che fossero stati
avvistati, essi iniziarono ad intonare canti di guerra e a battere le armi
contro gli scudi. Erano stati silenziosi ed invisibili fino a quel momento; ora
dovevano incutere terrore.
«Esterling! Arrivano gli Esterling!» gridò un soldato,
continuando a suonare ininterrottamente la campana.
In quei brevi istanti, Boromir si ritrovò chiedersi come
fosse possibile che alcuna notizia fosse giunta da Cair Andros. Se qualsiasi
esercito, e per giunta così grande, fosse passato anche a parecchie leghe di
distanza, le vedette dell’isola sul fiume l’avrebbero avvistato e Osgiliath si
sarebbe preparata alla difesa. E invece eccolo lì, comparso dal nulla e pronto
alla battaglia.
«Mio signore! Cosa comandi?» chiese un altro,
raggiungendolo.
Boromir lasciò da parte la sorpresa e riacquistò il sangue
freddo a cui era abituato in simili occasioni. Ora Brethil era lontana, e
sebbene il suo cuore fosse tormentato da quella consapevolezza, si impose di
occuparsi della sicurezza dei Nani e dei suoi Uomini.
E della sua
Osgiliath.
Sarebbe morto prima di rivedere la città di cui era
diventato il Signore nuovamente nelle mani nemiche.
«Voglio tutti gli arcieri di cui disponiamo sulla riva
opposta, lungo le mura e sulle torri. Non devono assolutamente prendere l’ala
orientale della città, né il controllo del fiume.» Poi si rivolse verso Dáin. «E
voglio da questa parte dell’Anduin i Nani che non siano in grado di combattere;
che si preparino a partire verso Minas Tirith, se la situazione dovesse
degenerare.» Il Nano annuì con un cenno del capo, e corse velocemente a dare le
prime direttive.
Boromir si diresse sul provvisorio ponte in legno che
sostituiva quello in pietra ormai in disuso, e raggiunse la sponda orientale
del fiume. Lì i soldati correvano da una parte all’altra, allarmati per
l’improvvisa e inaspettata comparsa del nemico; molti erano ancora assonnati,
mentre s’infilavano in tutta fretta l’armatura, e si domandò quanto
quell’esiguo numero a difesa della città avrebbe potuto resistere ad un attacco.
La risposta che si diede non fu confortante e l’unica soluzione che non avrebbe
previsto una carneficina sarebbe stata la ritirata, ma non volle pensarci.
Non si sarebbe comportato da codardo, non lui.
Sarebbe rimasto a guardia della sua città finché avesse
avuto aria nei polmoni e sangue nelle vene.
I canti di guerra degli Esterling si fecero man mano sempre
più chiari e forti; portavano con sé numerosi mûmakil armati di lame affilate
lungo le enormi zanne, e che trasportavano decine di Uomini sul dorso. Boromir
si sentì cadere in un déjà-vu terribile; il ricordo della guerra appena
terminata era nuovamente di fronte ai suoi occhi. Erano tanti, troppi e ben
organizzati; mentre loro erano pochi, spauriti e senza difese adeguate. Se la
Guerra dell’Anello era stata vinta sul filo della lama, e sacrificando così
tanti soldati, cosa ne sarebbe stato di loro e dei loro sforzi per risanare la
pace?
Con sommo orrore, un’altra sentinella di guardia sulle mura
dell’Osgiliath occidentale suonò nuovamente la campana, e videro l’altra metà
dell’esercito di Esterling, che aveva attraversato il fiume su Cair Andros e
aveva tutte le intenzioni di accerchiarli e assediarli.
Pareva che, ovunque guardasse, non vi fosse soluzione a
quell’imminente scontro; e più cercava di immaginare i possibili scenari che
avrebbero potuto vivere, e più tutti finivano in tragedia.
Osservò le espressioni dei suoi Uomini, mentre l’esercito
degli Esterling si faceva sempre più vicino e distinto anche ad occhio umano:
li vide sorpresi e spaventati. Nessuno di loro si aspettava di tornare alle
armi dopo così poco tempo di agognata pace. La rinascita di Osgiliath avrebbe
dovuto significare anche la ripresa di Gondor e la forza di quel regno che
tanto amavano; ma ancora una volta erano richiamati a difenderlo, e la speranza
di un futuro senza più guerre tornò ad essere sbiadita e sciocca.
Così prese uno stendardo e, salita la rovina più alta, lo
alzò al cielo, come aveva fatto molte altre volte in passato. Ricordi di
battaglie e vittorie si affollarono nella sua mente e con voce possente gridò
ai suoi soldati. «Uomini di Gondor e Nani del Nord! Ascoltate il Signore di
questa città!»
I guerrieri e i Nani si voltarono verso la sua figura,
imponente anche se così in alto e distante.
Boromir li osservò tutti con un lungo sguardo e riprese a
parlare con vigore e coraggio. «L’ultima volta che queste terre furono
calpestate dal Nemico tutto ci pareva perduto. Vedevamo l’ombra avanzare
inesorabilmente e così la speranza di una vittoria affievolirsi, ora dopo ora.
Abbiamo dovuto seppellire troppi soldati, amici e parenti e il nostro cuore
ancora li piange, e continuerà a farlo finché il giorno della nostra morte
giungerà. Ma vincemmo e ci risollevammo. Questo giorno sarà lungo e ancora una
volta oscuro. Ma non permetteremo che altri nostri cari muoiano per mano degli
invasori che osano interrompere la nostra quiete e la nostra voglia di vivere!
Osgiliath sta risorgendo come una fenice dalle sue ceneri e nessuno, nessuno potrà impedirci di vederla
rinascere!»
Uomini e Nani si ritrovarono a gridare il suo nome e ad
esultare parole di conforto e coraggio.
«Siamo soli, in questo momento. Gli aiuti di Gondor, e così
quelli di Rohan, giungeranno quando il Nemico avrà già circondato le nostre
mura. Forse sarebbe saggio scappare e lasciare la città in mano nemica; e lo
dico a tutti coloro che non possono combattere, o che temono la morte: siete
liberi di andare e di mettervi in salvo; così come i nostri cari ospiti Nani
non devono stare al nostro fianco, se essi non desiderano essere coinvolti
nelle nostre battaglia. Ma io chiedo a voi tutti di restare: resisteremo,
attenderemo gli alleati e nel frattempo combatteremo degnamente. E lo faremo per
i nostri figli, per la nostra bella terra, per il nostro orgoglioso popolo. Per
Gondor!»
«Per Gondor!»
replicarono i soldati e i Nani ai suoi piedi, e un moto di orgoglio lo fece
fremere.
Forse la vittoria non era così impossibile. Forse c’era
ancora speranza, finché essa avesse continuato ad ardere nei loro animi. O
forse sarebbero morti davvero quel giorno, ma di una morte gloriosa e degna.
Portò il Corno di
Gondor alle labbra e vi suonò tre volte. Gioia e fiducia giunsero nei cuori di
tutta Osgiliath, timore in quelli dei nemici, i cui canti si affievolirono
intimiditi.
Quella fu anche una non troppo velata richiesta di aiuto a
Minas Tirith e a tutti coloro che avessero udito il suo richiamo. Avevano
davvero bisogno di sostegno, in quel momento. Non avrebbero superato la notte
se fossero rimasti abbandonati a se stessi. Ma Aragorn questo non lo avrebbe
permesso, lo sapeva bene.
Si fidava di lui, del suo Re.
Dáin, che si era riunito a Glóin e Óin, trovò con lo sguardo
Rulin e i suoi figli, già con le asce alla mano e gli elmi in testa.
«Mio signore!» fece il carpentiere, chinandosi. «Qualsiasi
ordine ci darai, noi saremo onorati di eseguirlo.»
«Cercate di restare vivi, è il mio unico ordine.» replicò il
Re. «Occupatevi dei più deboli, devono essere pronti a lasciare la città il
prima possibile. Gli Esterling sono anche da questa parte del fiume e ci
circonderanno in poche ore. Dovete fare in fretta: il tempo stringe e quelle
dannate gambe lunghe sono veloci. Óin, Óri, voi
andrete con loro.»
Rulin annuì. «Mizùl! Mukhuh Mahal bakhuz murukhzu.*»
Dáin osservò i due allontanarsi verso i loro compiti e chinò
il capo. «Buona fortuna anche a voi, amici miei. E che Mahal vi protegga.»
mormorò, dirigendosi dai suoi soldati.
Trascorsero tre ore, e gli Esterling giunsero a poche,
pochissime leghe di distanza dalle mura della città. Un buon numero di Nani,
incapaci di combattere, aveva già imboccato la via verso Minas Tirith il più
veloce possibile, ed erano guidati da Óin, sebbene la maggior parte avessero
declinato l’offerta di allontanarsi, per combattere come si confà ad un Nano; Rulin
e i suoi figli avevano deciso di rimanere al fianco del proprio Re, per
difenderlo con la vita. La devozione di Rulin nei suoi confronti convinse Dáin
ad onorarlo a dovere, semmai avessero superato quell’ennesima battaglia insieme
e illesi.
Boromir osservò l’esercito ad Est del fiume e riconobbe
quello che doveva essere il capitano dell’armata: era un paio di passi più
avanti rispetto alla linea dei suoi uomini, e indossava un’armatura lucente e
decorata da scaglie dorate.
Azdor, come se si sentisse osservato, alzò il mento,
cercando quel paio di occhi che aveva percepito; e lo vide lì, nuovamente sulla
torre più alta di quella città distrutta, per scrutare la loro grandezza. Con
un ghigno sollevò la lancia e la puntò verso la direzione dell’Uomo di Gondor.
Il Sovrintendente sentì il sangue ribollirgli dalla rabbia e
si appuntò mentalmente una nota.
Voleva la sua testa. E sarebbe stata sua.
*
*Buona fortuna! Che il Martello di Mahal ti protegga.
Ebbene, vi eravate dimenticati degli Esterling? Io
no. :P
E la tranquillità a cui vi avevo abituato crolla
immediatamente. Mwahaha!
Ne vedrete delle belle... forse. ;)
Grazie a tutti i lettori!
Alla settimana prossima.
Con affetto,
Marta.