Libri > Il Signore degli Anelli e altri
Segui la storia  |       
Autore: kenjina    26/10/2013    3 recensioni
- Betulla sequel -
«Vedo che anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro, piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle, con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.

(tratto dal secondo capitolo)
Genere: Avventura, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

E rieccoci dopo una lunga settimana!

Tenetevi pronti per questo nuovo capitolo... sarà scoppiettante. E torna la cara Brethil.

(A proposito di lei, sto seriamente prendendo in considerazione di scrivere un prequel sulla sua vita da Raminga, prima del tradimento e dell’incontro con Boromir. Vedremo, quando finirò questa, se l’ispirazione continuerà a bussare alla mia porta!)

Un abbraccio e buona lettura!
Marta

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

14.

20 Settembre 3019 T. E.

 

 

Si svegliò con incredibile energia, quella placida mattina di domenica. Dopo la snervante giornata precedente, quel giorno avrebbe potuto rilassarsi senza la preoccupazione di dover partecipare a pranzi pomposi e dare il braccio ad avvenenti Nani che, di punto in bianco, avevano deciso di farle dire addio alla poca lucidità di cui disponeva. Sentì il cuore accelerare i battiti nel ripensare al pomeriggio speso con Thorin: era stato così surreale e gradevole che credette di averlo sognato. Si era sentita per la prima volta in vita sua il soggetto delle attenzioni di qualcuno e ne era rimasta piacevolmente scioccata.

Si affrettò a scuotere la testa, scacciando via qualsiasi frivolo pensiero e tornando con i piedi per terra. Non aveva niente su cui fantasticare, poiché la realtà era ben lontana dai suoi sogni. Thorin stava solo cercando di dimostrare la sua gratitudine e quelli che lui le aveva mostrato erano il frutto degli insegnamenti di corte che probabilmente sua madre gli aveva inculcato fin da piccolo.

Nient’altro.

Rabbrividì quando toccò il pavimento freddo con le punte dei piedi nudi e, silenziosamente, si diresse verso il bagno per sciacquarsi la faccia e prepararsi per la mattinata. Káel russava ancora profondamente, e sapeva che non si sarebbe svegliato prima di mezzodì, dopo la nottata brava che aveva trascorso con Fili e Kili. Sorrise nel ripensare alla serata che aveva trascorso in allegria e spensieratezza, dopo la silenziosa e calmante passeggiata in compagnia di Thorin. Si era vista circondata da quegli inaspettati amici di bevute e, sebbene non avesse ingurgitato litri di birra da farla barcollare, si era ritrovata a ridere e a scherzare senza inibizioni. Persino l’impassibile Thorin si era lasciato andare ai canti e ad alcuni divertenti aneddoti sui nipoti e su Dwalin, e le era parso che il suo viso fosse ringiovanito di parecchi anni, nel vederlo così sorridente e lieto. Che fosse realmente quello il vero aspetto del Re di Erebor?

Scosse nuovamente il capo. Doveva imporsi una calmata e smettere di pensare a lui. Non era appropriato e se ne convinse quando l’acqua fredda che si versò sul viso la svegliò di colpo, lavando via ogni pensiero. Si vestì velocemente e tastò la consistenza delle trecce, che avevano resistito alla notte dal giorno precedente. Quando uscì di casa fu sorpresa di vedere già qualche Uomo sbrigare le proprie faccende, nonostante fosse presto. Camminò verso la forgia, dove avrebbe terminato i regali per Fili e Kili durante il suo giorno libero. Non si era mai sentita così serena nel pensare a due estranei alla sua famiglia, e sapere che anche Káel e Káir avessero stretto amicizia con loro non poteva che renderla ancora più felice.

Come immaginava, le fucine erano deserte e si diresse verso la sua postazione. Aprì il baule che conteneva i due pugnali quasi completati: le mancava solo di impreziosire i manici con delle piccole pietre preziose e finire di intagliare le rune sulle lame. Così si mise all’opera, estremamente concentrata sul suo operato e rilassata come solo poteva esserlo mentre lavorava.

Ma Trán non era sola e avrebbe dovuto immaginarlo. Lui stesso, del resto, aveva affermato che preferiva passare la maggior parte del suo tempo tra il calore della fucina, piuttosto che in qualunque altro luogo. Così si fermò appena il suono ritmico di un martello che batteva il metallo le giunse alle orecchie. Sentì distintamente il cuore battere all’unisono con quei colpi, poiché immaginò di chi si trattasse e si diede della stupida per non aver prima controllato le altre aree e accertarsi che fosse davvero l’unica presente. Non seppe bene cosa fare, se ignorare il fatto che non fosse sola o se avvicinarsi alla fonte del rumore. E prima ancora che potesse rendersene conto, stava già camminando verso l’ala riservata al Re. Aprì lentamente la pesante porta in legno, stando attenta che i cardini non cigolassero, e sbirciò all’interno. Lo trovò quasi subito, sudato e concentrato fino a corrugare la fronte nello sforzo.

Ed era vergognosamente a petto nudo.

Trán represse a stento un’esclamazione di sorpresa, tappandosi la bocca con entrambe le mani. Non era molto distante da lei, ma anche se lo fosse stato i suoi occhi avrebbero comunque potuto ammirare quel petto statuario e ricoperto dalla peluria scura, i lineamenti dei muscoli delle braccia, che si tendevano ad ogni movimento, e la pelle lucida per l’affaticamento. Si morsicò un labbro quando sentì il rossore salirle al viso e quel fastidioso formicolio di piacere, come ogni volta che lui si facesse troppo vicino, o la osservasse con quei suoi penetranti occhi azzurri.

Fu quando non udì più il ritmico martellare sull’incudine, che si accorse dello sguardo di lui verso la porta. Era sicura che non potesse vederla, poiché era in penombra, ma sentì ugualmente l’effetto di quell’occhiata indagatrice e ora guardinga. Richiuse velocemente la porta, ed altrettanto velocemente corse verso la sua postazione. Si poggiò con la schiena contro il legno dell’ingresso, cercando di riprendere fiato e sperando che lui non l’avesse seguita. Capì che il suo desiderio non fu esaudito quando sentì mancare il sostegno della porta dalle sue spalle e Thorin se la ritrovò addosso prima ancora di realizzare chi fosse.

«Tu–» mormorò, mentre quella si allontanava di qualche passo e abbassava il capo, sforzandosi di non guardarlo neppure in viso. «Cosa stavi facendo? E cosa fai qui di domenica?»

Trán strinse le labbra e i pugni, imponendosi di mantenere la calma e non far tremare la voce. «Risponderò al–alle tue domande se... se ti rivesti. Per favore.» Si rese conto troppo tardi che quelle ultime due parole parvero più una supplica.

Il Nano sembrò ricordarsi solo in quel momento di essere mezzo nudo di fronte a lei e sbiancò. Per sua fortuna lei non sembrò accorgersene, poiché mantenne ostinatamente lo sguardo sulle punte dei piedi, in quel momento di gran lunga più interessanti dello spettacolo che aveva di fronte. Si allontanò per recuperare la maglia da lavoro e quando tornò la vide seduta su uno sgabello, con una mano sul cuore, nel vano tentativo di riprendersi dallo spavento – o da qualsiasi cosa l’avesse turbata. Si schiarì la voce, per avvisarla della sua presenza, e lei scattò in piedi.

«Ti chiedo scusa se... ecco, se stavo spiando.» iniziò, incespicando ad ogni parola. «Sì, insomma, non volevo... cioè, volevo vedere chi fosse, perché... credevo di–di...»

«Trán. Non è successo niente.»

La Nana alzò gli occhi su di lui, che nel frattempo le si era avvicinato silenziosamente e ora sorrideva quasi divertito del suo imbarazzo.

Ricordava male, o quella era la prima volta in cui la chiamava per nome senza alcun tipo di formalità?

«Anche io credevo di essere solo, altrimenti avrei indossato qualcosa di più... consono.»

Trán riuscì a trovare il coraggio di scherzare. «Direi che avresti indossato qualcosa, che fosse consono o meno.»

Lui rise piano. «Ad ogni modo, sto ancora aspettando la tua risposta... posso chiederti cosa stai facendo?»

Sperava che evitasse di domandarglielo, ma si rendeva perfettamente conto che fosse una fantasia vana. Non sapeva come avrebbe potuto prendere il fatto che stesse forgiando due pugnali per i nipoti; ebbe la spiacevole sensazione che lui non avrebbe approvato. «Ecco, stavo... terminando un lavoro.»

«Di domenica mattina?» Thorin si avvicinò al suo piano, osservando le due armi e prendendone una tra le mani, rigirandosela mentre la studiava con il tatto e lo sguardo. «Non mi sembrano armi dei Rohirrim.» disse, quasi più a se stesso che a lei. «E sono estremamente belli.» ammise dopo qualche istante di silenzio. Colse un paio di rune appena incise sul metallo e la guardò negli occhi, incuriosito. «Fi– come?»

«Fili.» mormorò lei, senza pensarci.

«E suppongo che questo sia per Kili.»

Trán deglutì a fatica, mentre annuiva, perché non aveva percepito niente in quel tono affermativo. Non disappunto, né apprezzamento.

«Stai forgiando due pugnali per i miei nipoti?» Ad un altro cenno affermativo, l’espressione di Thorin si ammorbidì. «Devi amarli davvero tanto, allora.»

«Io... credo di sì. Insomma, hanno il mio pieno rispetto e gli sono riconoscente per l’amicizia che mi stanno offrendo; non mi era mai successo prima. Anche se ho notato una certa coalizione con mio fratello per deridermi.»

«Sei un facile bersaglio.»

«Oh, felice di saperlo.»

Thorin si ritrovò a sorridere, poggiando i pugnali e alzandole il mento con un dito, per incontrare il suo sguardo. «Sono fortunati ad avere un’amica come te, giacché a quanto pare la tua amicizia è cosa rara.» Indugiò un po’ troppo l’attenzione su quelle labbra carnose e leggermente aperte per la sorpresa, ma si allontanò, scacciando il desiderio di fare un’idiozia e distruggere tutto ciò che avevano costruito insieme con tanta fatica.

«Noi cosa siamo?»

Quella semplice domanda ebbe il potere di fermare i suoi passi. Si voltò un poco, senza guardarla. «Noi?»

Trán annuì, inumidendosi le labbra. «Sì... anche noi siamo amici, in fondo?»

«Tu lo vorresti?» domandò il Nano, dopo una breve esitazione.

«Questa non è una risposta, spero te ne renda conto.» mormorò, incrociando le braccia al petto.

«Trán, è ciò che vorresti – la mia amicizia?» replicò lui, avvicinandosi nuovamente di un passo.

La risposta che si diede mentalmente la colpì come un’onda sulla roccia.

No, lei non voleva la sua amicizia.

Almeno, non solo quella.

E l’aveva inconsciamente desiderato dal primo momento in cui l’aveva visto, quando ancora non sapeva chi fosse e del ruolo che ricoprisse. Ma c’erano così tanti motivi per farle rimangiare ogni speranza e desiderio, che era assurdo anche solo pensarlo. Lui era la nobiltà per eccellenza, un sovrano, e come tale aveva dei doveri nei confronti del suo popolo: come per esempio, scegliere la degna moglie che avrebbe potuto dargli degli altrettanto degni eredi, e lei non aveva né il primo né il secondo requisito. Non era di sangue reale, neanche lontanamente, e men che meno il popolo avrebbe accettato il suo albero genealogico, che avrebbe macchiato la pura linea di Durin con i rimasugli del suo sangue Elfico. E poi, sposare Thorin avrebbe significato anche diventare la sua Regina e non sarebbe stata in grado di fare neanche quello. Lei era solo un semplice fabbro con la lingua troppo lunga e i sogni spezzati dal suo pessimismo.

No, lei non voleva unicamente la sua amicizia, ma si sarebbe imposta di accettare solo quella che lui le avrebbe dato – se così avesse deciso. «Sì, la vorrei tanto. Ma non so quanto tu abbia in considerazione il mio rispetto.»

Thorin aveva notato la sua esitazione prima di parlare, ma nascose l’amarezza e scosse il capo. «Credi che se non ti rispettassi, avrei perso il mio tempo con te, ieri? Credi che sarei qui, ora?»

«Credo che entrambi ci siamo feriti a vicenda e nonostante la tua cortesia temo che tu possa ancora serbare rancore.»

Sciocca ragazzina.

Se solo avesse saputo cosa si stava combattendo dentro di lui in quel momento, in quei giorni, per causa sua! Lui rispettava la sua animosità, che tanto lo aveva mandato in bestia in passato, e anche le sue origini, perché ciò che aveva dovuto sopportare l’avevano forgiata nella donna che era diventata; la rispettava, perché nonostante tutto, lei continuava a portare fieramente il nome della sua famiglia.

Quella Nana non solo aveva il suo rispetto, ma stava rubando anche il suo cuore senza che lui potesse fare niente per impedirglielo. Suo malgrado, Thorin, Re Sotto la Montagna, si era addentrato in un luogo che non aveva mai calpestato, troppo occupato a riprendersi Erebor, a riportarla ai vecchi fasti e a difenderla con il suo stesso sangue, più interessato a fondere il metallo per creare armi piuttosto che darsi pena per le poche donne che avevano incrociato la sua strada.

Le prese le mani tra le sue, stringendogliele con gentilezza. «Sei testarda, fin troppo sincera e più dura del mithril che lavoriamo. E, sebbene il nostro passato non sia stato dei migliori, hai la mia stima, Trán dei Colli Ferrosi. L’hai sempre avuta.» aggiunse, abbassando la voce il tanto da farla rabbrividire. Si portò le mani alle labbra, baciandole entrambe con leggerezza e mantenendo fermo lo sguardo su quello di lei, che sorrise e arrossì contemporaneamente. «Ti prometto che tra qualche anno rideremo dei nostri litigi, poiché hai anche la mia amicizia.»

Il sorriso luminoso che si formò sulle labbra della ragazza raggiunse anche i suoi occhi chiari, e dopo tanto tempo sentì finalmente che le cose andassero per il verso giusto, anche se non bene.

Ma prima che potesse fare o dire qualcosa, quel momento idilliaco giunto inaspettato venne interrotto da un altrettanto inatteso e penetrante suono, che vibrò tra le mura della fucina e li fece rabbrividire. Era potente, proveniente da lontano, anche se pareva giungesse da pochi piedi di distanza, e risuonò per tre volte. Così corsero fuori, Thorin che la teneva saldamente per una mano, nella speranza di capire cosa stesse succedendo. Raggiunsero quasi senza fiato la Cittadella, dove un numeroso gruppo di soldati si affacciava per osservare in direzione di Osgiliath, e rimasero anche senza parole. Trán si ritrovò a stringergli con più forza la mano, e lui ricambiò per infonderle coraggio.

Thorin scorse Aragorn ed Éomer mentre passavano accanto all’Albero Bianco e si scambiarono un’occhiata preoccupata. La situazione era peggiore di quanto credessero.

 

 

 

L’esercito si era accampato a metà strada tra i Campi del Pelennor e il fiume Erui, che avrebbero raggiunto in un’altra giornata di viaggio. Avrebbero attraversato il guado del fiume, per proseguire lungo la strada che portava a Sud, verso Pelargir, da cui si sarebbero spostati sulla sponda orientale dell’Anduin per raggiungere il passaggio sul Poros e unirsi alle esigue difese già presenti sul campo. Nonostante le poche possibilità di riuscita di quella spedizione suicida, il morale tra i soldati era ancora alto. Il pericolo della battaglia era lontano, per il momento, e non vi era bisogno di incupire gli animi con silenzi e facce torve; quindi cantavano, di quando in quando, ridevano e chiacchieravano sia durante gli spostamenti, che durante le soste.

Brethil non conosceva la geografia di quella parte di Gondor, sebbene avesse studiato a lungo le mappe che Boromir, a suo tempo, le aveva mostrato; così Imrahil aveva raccontato loro la storia di quelle terre solitamente tranquille nell’entroterra; e raccontò di Dol Amroth, la sua patria sul mare, che tanto amava e difendeva. Legolas sentì più volte l’impulso di rivolgere lo sguardo verso Sud, verso quella distesa immensa di acqua che tanto bramava; se si fosse concentrato avrebbe anche potuto percepire il profumo della salsedine portata dal vento e la musicalità dei gabbiani; sperò vivamente di non riuscire a scorgerlo in lontananza, perché altrimenti il suo desiderio di raggiungerlo si sarebbe fatto insostenibile.

L’accampamento si stava velocemente svegliando ed era quieto, tranne per qualche soldato che, dopo la veloce colazione, approfittava del tempo prima della partenza per allenarsi e faceva cozzare la propria lama contro quella di qualcun altro. Tra questi, anche Brethil, Elladan ed Elrohir avevano deciso di spendere la mezzora prima dell’inizio della nuova giornata così, giacché avevano un conto in sospeso e nessuno dei tre l’aveva dimenticato.

Gimli, ricordandosi della disputa, si sedette comodamente su una pietra, gambe incrociate e la lunga pipa tra le labbra. «E mi raccomando, ragazza: non andarci piano.»

«E tu non spendere fiato in ovvietà, messer Gimli.» replicò lei, estraendo Celeboglinn e impugnandola saldamente con entrambe le mani. I gemelli fecero altrettanto, sorridendo e mettendosi in posizione di attacco.

«Allora, thêl, qual è la posta in gioco?»

«L’onore è più che sufficiente.»

«Mi sta bene. Dimostra di non aver dimenticato le nostre lezioni, e nessuno lo perderà.» fece Elrohir.

Il fratello proseguì. «Ma se dovessimo sconfiggerti, ti sottoporremmo ad allenamenti intensivi.»

Brethil sorrise. «I vostri allenamenti sono sempre intensivi.»

«Allora? Volete iniziare o no?» esclamò Gimli, già sull’orlo di perdere la pazienza.

Legolas gli si sedette accanto, incuriosito. «Non credi che sia una sfida impari?»

«Ripetilo a voce più alta e ti ritroverai la lingua tagliata di netto, Elfo.» replicò il Nano. «Non che la cosa mi dispiacerebbe, sia chiaro.»

L’altro sorrise. «Oh, ma io intendevo per i figli di Elrond, non certo per Brethil.»

I due amici si scambiarono un’occhiata e risero, godendosi lo spettacolo – perché quando Brethil e i gemelli di Rivendell duellavano, era assicurato. E infatti ecco alcuni soldati che, attirati da quel combattimento a tre, e soprattutto stupiti nel riconoscere la Prima Guardia tra essi – si avvicinarono per curiosare e puntare qualche scommessa – nessuno, ovviamente, spese un soldo sulla donna; nessuno, tranne Imrahil, che contava di farsi un bel gruzzolo di monete entro la fine della giornata. Eppure tutti dovettero ricredersi appena videro la Dúnadan tenere abilmente testa ai due Mezz’Elfi, che non stavano facendo niente per favorirla, e anzi, le avrebbero lasciato numerosi lividi come ricordo di quella serata. In quella che pareva più una danza, piuttosto che un combattimento, c’era eleganza, forza e determinazione; e i due fratelli furono piacevolmente sorpresi di vedere che la loro allieva prediletta non avesse perso lo smalto, nonostante la loro lunga assenza.

Brethil parò entrambe le lame dei due, e facendo perno sul piede sinistro si diede la spinta necessaria per farli arretrare e contemporaneamente muovere Celeboglinn, affinché le bloccasse verso il terreno; con un rapido calcio al polso disarmò Elrohir, che si allontanò di un passo per lasciare che il fratello completasse l’opera. Così, rimasti solo in due, Brethil ed Elladan aumentarono l’intensità dello scontro. Le loro leggere ma taglienti spade sembravano musica ogni volta che cozzavano l’una contro l’altra e brillavano sotto la luce infuocata dell’alba. Proseguirono ad attaccare e difendere con la medesima energia, e se l’uno arretrava di poco, l’altra lo seguiva qualche minuto dopo. Vi era una sottile linea di differenza tra i due, poiché anni di allenamenti insieme li avevano forgiati; ma Brethil non si fece intimorire dalla sua inesperienza, comparata a millenni di vita, così come non si era arresa di fronte alla tenacia e alla prestanza fisica del Nano Fili. Aveva già disarmato Elrohir, avrebbe ripetuto la mossa anche con Elladan.

Ma non ci furono vinti, né vincitori in quel duello, poiché vennero interrotti da un’eco lontana che riconobbero subito. Il Corno di Gondor risuonò tre volte e Brethil credette di non avere più i polmoni, poiché non riuscì a respirare. Ricordava ancora la potenza di quello strumento di musica e di guerra, suonato per la vittoria o per la richiesta di soccorso. Ed era più che sicura che quella volta fosse l’ultimo motivo il caso più plausibile.

Scambiò una rapida occhiata con Imrahil, confuso e preoccupato quanto lei: perché se Boromir suonava il Corno di Gondor, allora Osgiliath doveva avere grossi problemi. E la consapevolezza che non avrebbe potuto scoprire niente, né correre al galoppo per andare a sincerarsi della situazione, la fece cadere nello sconforto. Perché Boromir chiedeva aiuto? Erano forse sotto attacco? Osgiliath non aveva una difesa adeguata, con i lavori dei Nani in corso!

«Thêl, uuma dela, mellonamin

«Come faccio a non preoccuparmi?» mormorò lei, che ora rivolgeva lo sguardo verso il fiume, verso Nord, dove sapeva ci fosse la città distrutta. Strinse con forza la mano di Elladan sulla sua spalla, per cercare conforto, e ringraziò i Valar che lui ed Elrohir fossero con lei, per infonderle la calma e la forza che solo loro sapevano darle.

Imrahil tentò di sedare gli animi turbati. «Per quanto possiamo saperne, Re Éomer potrebbe essere giunto in città e Boromir potrebbe aver deciso di dargli il benvenuto così. Non allarmiamoci e concentriamoci sul nostro compito, mia signora.»

La donna annuì, ancora poco convinta e con un brutto presentimento. Ordinò all’esercito di mettersi in piedi e di salire a cavallo, per rimettersi presto in viaggio, e proseguirono una decina di minuti più tardi, con i cuori pesanti e ora poca voglia di cantare. 

 

 

Erano tre notti che non riusciva a dormire; trascorreva le lunghe e apparentemente infinite ore di buio a rigirarsi tra le lenzuola, irrequieto. La sua mente non aveva intenzione di trovare riposo, con i pensieri costantemente rivolti verso l’esercito in marcia al Sud. Sarebbe dovuto partire al suo posto, come Sovrintendente e Capitano della Torre Bianca; e invece era lei a capo di quel numeroso gruppo di soldati, lei stava andando a rischiare la vita ancora una volta. Sapeva che non avrebbe avuto il diritto di accusarla, né di impedirle di partire – anche se, se fosse stato presente al momento della decisione, non avrebbe certo mantenuto la lingua in silenzio e né avrebbe accettato la scelta con leggerezza.

Lui, il guerriero migliore di Gondor, dopo il suo Re, era confinato a fare la guardia a dei Nani, piuttosto che andare a combattere per il suo popolo e il suo sovrano. Se solo la notizia fosse giunta con più largo anticipo, avrebbe galoppato più veloce che potesse pur di raggiungere Minas Tirith in tempo e partire con lei. Se le fosse stato accanto avrebbe potuto proteggerla, avrebbe potuto tenerla d’occhio.

Avrebbe potuto rivederla, un’ultima volta.

Boromir si passò stancamente la mano sul viso, sbadigliando rumorosamente e mettendosi a sedere sul grande e vuoto letto. Gli mancava avere la sua presenza minuta accanto, poterla stringere tra le braccia e addormentarsi con il naso ad un palmo tra i suoi capelli neri e disordinati, inspirandone il profumo ad ogni respiro. E sapere che, quando sarebbe rientrato nella Capitale, in cinque giorni, non l’avrebbe trovata ad attenderlo, gli serrò lo stomaco.

Si mise in piedi, afferrando una tunica blu e infilandosela, per uscire dalla sua stanza – una delle poche che avesse ancora un soffitto e fosse priva di spifferi. L’innaturale calma notturna lo avvolse, e camminò lentamente per le strade deserte e disordinate dai lavori; poteva solo udire, di quando in quando, il potente russare di qualche soldato e soprattutto quello dei Nani. Si avvicinò alla cinta muraria, una delle prime parti della città ad essere stata rimessa in sesto; alcune porzioni erano state ricostruite provvisoriamente in legno, in attesa che le pietre venissero lavorate e sagomate a dovere prima di essere posizionate. Vi passeggiò sopra, salutando con un breve cenno del capo le sentinelle che incontrava. Si fermò a guardare la chiara sagoma di Minas Tirith, che sembrava illuminarsi sotto i raggi lunari; e lì rimase finché il cielo non iniziò a tingersi di rosso.

«Mio signore, buon giorno. L’ennesima notte insonne?»

Boromir si voltò verso Dáin, che pareva incredibilmente sveglio nonostante fosse una domenica e avrebbero iniziato a lavorare più tardi del solito.

«Buon giorno a te, sire Dáin.» lo salutò. «Troppe preoccupazioni mi impediscono di dormire, questi giorni. E tu come mai sei già in piedi, se mi è permesso domandarlo?»

Il Nano corrugò la fronte, guardando verso Est. «Ho un brutto presentimento, ragazzo mio. E i Nani hanno fiuto, per certe cose.»

«Ahimè, neppure io sono tranquillo.» L’Uomo sospirò. «Ma temo che sia dovuto alle cattive notizie che sono giunte da qualche giorno, più che per il mio senso di preveggenza alquanto scarso.»

Dáin rimase stranamente in silenzio, aggrappando i tozzi pollici sulla pesante cintura in oro che gli accerchiava la vita robusta. Pareva avere la mente molto lontano da dove si trovava e Boromir iniziò a chiedersi se non dovesse inquietarsi anche per lui. In quei lunghi giorni, in cui aveva avuto la possibilità di conoscerlo, Dáin si era mostrato come un Nano chiacchierone, che amava il suono della sua voce quasi quanto l’oro e le pietre preziose; saperlo impensierito e muto come un pesce, non fece altro che accrescere i suoi timori.

Entrambi si voltarono immediatamente quando le campane d’allarme risvegliarono la città. Corsero verso le guardie, e quando giunsero al termine delle mura sulla parte occidentale, lo videro. L’esercito dell’Est avanzava speditamente verso di loro e più il sole saliva, più esso illuminava nuovi elmi. Boromir rimase impietrito nel constatare l’incredibile numero di soldati che si muoveva all’unisono; e appena si accorsero che fossero stati avvistati, essi iniziarono ad intonare canti di guerra e a battere le armi contro gli scudi. Erano stati silenziosi ed invisibili fino a quel momento; ora dovevano incutere terrore.

«Esterling! Arrivano gli Esterling!» gridò un soldato, continuando a suonare ininterrottamente la campana.

In quei brevi istanti, Boromir si ritrovò chiedersi come fosse possibile che alcuna notizia fosse giunta da Cair Andros. Se qualsiasi esercito, e per giunta così grande, fosse passato anche a parecchie leghe di distanza, le vedette dell’isola sul fiume l’avrebbero avvistato e Osgiliath si sarebbe preparata alla difesa. E invece eccolo lì, comparso dal nulla e pronto alla battaglia.

«Mio signore! Cosa comandi?» chiese un altro, raggiungendolo.

Boromir lasciò da parte la sorpresa e riacquistò il sangue freddo a cui era abituato in simili occasioni. Ora Brethil era lontana, e sebbene il suo cuore fosse tormentato da quella consapevolezza, si impose di occuparsi della sicurezza dei Nani e dei suoi Uomini.

E della sua Osgiliath.

Sarebbe morto prima di rivedere la città di cui era diventato il Signore nuovamente nelle mani nemiche.

«Voglio tutti gli arcieri di cui disponiamo sulla riva opposta, lungo le mura e sulle torri. Non devono assolutamente prendere l’ala orientale della città, né il controllo del fiume.» Poi si rivolse verso Dáin. «E voglio da questa parte dell’Anduin i Nani che non siano in grado di combattere; che si preparino a partire verso Minas Tirith, se la situazione dovesse degenerare.» Il Nano annuì con un cenno del capo, e corse velocemente a dare le prime direttive.

Boromir si diresse sul provvisorio ponte in legno che sostituiva quello in pietra ormai in disuso, e raggiunse la sponda orientale del fiume. Lì i soldati correvano da una parte all’altra, allarmati per l’improvvisa e inaspettata comparsa del nemico; molti erano ancora assonnati, mentre s’infilavano in tutta fretta l’armatura, e si domandò quanto quell’esiguo numero a difesa della città avrebbe potuto resistere ad un attacco. La risposta che si diede non fu confortante e l’unica soluzione che non avrebbe previsto una carneficina sarebbe stata la ritirata, ma non volle pensarci.

Non si sarebbe comportato da codardo, non lui.

Sarebbe rimasto a guardia della sua città finché avesse avuto aria nei polmoni e sangue nelle vene.

I canti di guerra degli Esterling si fecero man mano sempre più chiari e forti; portavano con sé numerosi mûmakil armati di lame affilate lungo le enormi zanne, e che trasportavano decine di Uomini sul dorso. Boromir si sentì cadere in un déjà-vu terribile; il ricordo della guerra appena terminata era nuovamente di fronte ai suoi occhi. Erano tanti, troppi e ben organizzati; mentre loro erano pochi, spauriti e senza difese adeguate. Se la Guerra dell’Anello era stata vinta sul filo della lama, e sacrificando così tanti soldati, cosa ne sarebbe stato di loro e dei loro sforzi per risanare la pace?

Con sommo orrore, un’altra sentinella di guardia sulle mura dell’Osgiliath occidentale suonò nuovamente la campana, e videro l’altra metà dell’esercito di Esterling, che aveva attraversato il fiume su Cair Andros e aveva tutte le intenzioni di accerchiarli e assediarli.

Pareva che, ovunque guardasse, non vi fosse soluzione a quell’imminente scontro; e più cercava di immaginare i possibili scenari che avrebbero potuto vivere, e più tutti finivano in tragedia.

Osservò le espressioni dei suoi Uomini, mentre l’esercito degli Esterling si faceva sempre più vicino e distinto anche ad occhio umano: li vide sorpresi e spaventati. Nessuno di loro si aspettava di tornare alle armi dopo così poco tempo di agognata pace. La rinascita di Osgiliath avrebbe dovuto significare anche la ripresa di Gondor e la forza di quel regno che tanto amavano; ma ancora una volta erano richiamati a difenderlo, e la speranza di un futuro senza più guerre tornò ad essere sbiadita e sciocca.

Così prese uno stendardo e, salita la rovina più alta, lo alzò al cielo, come aveva fatto molte altre volte in passato. Ricordi di battaglie e vittorie si affollarono nella sua mente e con voce possente gridò ai suoi soldati. «Uomini di Gondor e Nani del Nord! Ascoltate il Signore di questa città!»

I guerrieri e i Nani si voltarono verso la sua figura, imponente anche se così in alto e distante.

Boromir li osservò tutti con un lungo sguardo e riprese a parlare con vigore e coraggio. «L’ultima volta che queste terre furono calpestate dal Nemico tutto ci pareva perduto. Vedevamo l’ombra avanzare inesorabilmente e così la speranza di una vittoria affievolirsi, ora dopo ora. Abbiamo dovuto seppellire troppi soldati, amici e parenti e il nostro cuore ancora li piange, e continuerà a farlo finché il giorno della nostra morte giungerà. Ma vincemmo e ci risollevammo. Questo giorno sarà lungo e ancora una volta oscuro. Ma non permetteremo che altri nostri cari muoiano per mano degli invasori che osano interrompere la nostra quiete e la nostra voglia di vivere! Osgiliath sta risorgendo come una fenice dalle sue ceneri e nessuno, nessuno potrà impedirci di vederla rinascere!»

Uomini e Nani si ritrovarono a gridare il suo nome e ad esultare parole di conforto e coraggio.

«Siamo soli, in questo momento. Gli aiuti di Gondor, e così quelli di Rohan, giungeranno quando il Nemico avrà già circondato le nostre mura. Forse sarebbe saggio scappare e lasciare la città in mano nemica; e lo dico a tutti coloro che non possono combattere, o che temono la morte: siete liberi di andare e di mettervi in salvo; così come i nostri cari ospiti Nani non devono stare al nostro fianco, se essi non desiderano essere coinvolti nelle nostre battaglia. Ma io chiedo a voi tutti di restare: resisteremo, attenderemo gli alleati e nel frattempo combatteremo degnamente. E lo faremo per i nostri figli, per la nostra bella terra, per il nostro orgoglioso popolo. Per Gondor!»

«Per Gondor!» replicarono i soldati e i Nani ai suoi piedi, e un moto di orgoglio lo fece fremere.

Forse la vittoria non era così impossibile. Forse c’era ancora speranza, finché essa avesse continuato ad ardere nei loro animi. O forse sarebbero morti davvero quel giorno, ma di una morte gloriosa e degna.

 Portò il Corno di Gondor alle labbra e vi suonò tre volte. Gioia e fiducia giunsero nei cuori di tutta Osgiliath, timore in quelli dei nemici, i cui canti si affievolirono intimiditi.

Quella fu anche una non troppo velata richiesta di aiuto a Minas Tirith e a tutti coloro che avessero udito il suo richiamo. Avevano davvero bisogno di sostegno, in quel momento. Non avrebbero superato la notte se fossero rimasti abbandonati a se stessi. Ma Aragorn questo non lo avrebbe permesso, lo sapeva bene.

Si fidava di lui, del suo Re.

Dáin, che si era riunito a Glóin e Óin, trovò con lo sguardo Rulin e i suoi figli, già con le asce alla mano e gli elmi in testa.

«Mio signore!» fece il carpentiere, chinandosi. «Qualsiasi ordine ci darai, noi saremo onorati di eseguirlo.»

«Cercate di restare vivi, è il mio unico ordine.» replicò il Re. «Occupatevi dei più deboli, devono essere pronti a lasciare la città il prima possibile. Gli Esterling sono anche da questa parte del fiume e ci circonderanno in poche ore. Dovete fare in fretta: il tempo stringe e quelle dannate gambe lunghe sono veloci. Óin, Óri, voi andrete con loro.»

Rulin annuì. «Mizùl! Mukhuh Mahal bakhuz murukhzu.*»

Dáin osservò i due allontanarsi verso i loro compiti e chinò il capo. «Buona fortuna anche a voi, amici miei. E che Mahal vi protegga.» mormorò, dirigendosi dai suoi soldati.

Trascorsero tre ore, e gli Esterling giunsero a poche, pochissime leghe di distanza dalle mura della città. Un buon numero di Nani, incapaci di combattere, aveva già imboccato la via verso Minas Tirith il più veloce possibile, ed erano guidati da Óin, sebbene la maggior parte avessero declinato l’offerta di allontanarsi, per combattere come si confà ad un Nano; Rulin e i suoi figli avevano deciso di rimanere al fianco del proprio Re, per difenderlo con la vita. La devozione di Rulin nei suoi confronti convinse Dáin ad onorarlo a dovere, semmai avessero superato quell’ennesima battaglia insieme e illesi.

Boromir osservò l’esercito ad Est del fiume e riconobbe quello che doveva essere il capitano dell’armata: era un paio di passi più avanti rispetto alla linea dei suoi uomini, e indossava un’armatura lucente e decorata da scaglie dorate.

Azdor, come se si sentisse osservato, alzò il mento, cercando quel paio di occhi che aveva percepito; e lo vide lì, nuovamente sulla torre più alta di quella città distrutta, per scrutare la loro grandezza. Con un ghigno sollevò la lancia e la puntò verso la direzione dell’Uomo di Gondor.

Il Sovrintendente sentì il sangue ribollirgli dalla rabbia e si appuntò mentalmente una nota.

Voleva la sua testa. E sarebbe stata sua.

 

 

*

*Buona fortuna! Che il Martello di Mahal ti protegga.

Ebbene, vi eravate dimenticati degli Esterling? Io no. :P

E la tranquillità a cui vi avevo abituato crolla immediatamente. Mwahaha!

Ne vedrete delle belle... forse. ;)

Grazie a tutti i lettori!

Alla settimana prossima.

Con affetto,

Marta.

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il Signore degli Anelli e altri / Vai alla pagina dell'autore: kenjina