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Autore: Blam_    27/10/2013    2 recensioni
Mi chiedo che senso ha?
Non la vita. La vita non ha nessun senso. Già il parto è una cosa inutile: devi soffrire per regalare al mondo una vita che probabilmente non avrà nessun senso.
Prima dovevi sopravvivere per vivere, ora se sei vivo esisti.
La vita è un peso.
Ma che senso ha?
Si può essere indipendentemente liberi?
Genere: Avventura, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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Mia cugina mi perdonò silenziosamente e finse di non aver notato il contorno che avevo depositato nel loro pranzo. Pur di non lacerare il filo che ci teneva uniti, inghiottì il risentimento e non si vendicò né mi prese a schiaffi

Nonostante  quei piccoli e brutti ricordi che avevo di quel luogo, rimpiansi di non esserci andato ma a me serviva un tetto che non avrebbe ceduto al minimo alito celeste o nelle prime nevicate di inizio inverno.  
Grazie agli aiuti extra offerti dalla zeta e alle conoscenze di mia madre, in meno di tre mesi nel terzo piano c'era acqua corrente più o meno tiepida, corrente elettrica per il frigorifero e una piccola bombola a gas portatile e temporanea per il forno. Era tutto improvvisato per non creare ulteriore disagio agli altri abitanti di quella sottospecie di condominio che già si lamentavano del continuo via vai degli operai con gli scarponi inzaccherati di calce che sporcavano le scale di ogni piano. 
Non potemmo nemmeno chiamare gli imbianchini per le stanze perchè  a maga Magò  dava fastidio l'odore della vernice sostenendo che le causava forti mal di testa. 
Grazie alla zeta, ci arrangiammo dipingendo noi le pareti. In ogni stanza ci fu un'esplosione di colori, unicorni e scheletri che ballavano il cha-cha-cha con uno smoking, in tutte tranne che ne la mia. Dovevo essere io a personalizzare quello che sarebbe diventato il mio rifugio. 
Avevo sempre desiderato una stanza tutta mia.
Quando eravamo impegnati nel nostro vagabondare da un paese ad un villaggio, io e la mamma dormivamo sempre in Motel scadenti ,dove i materassi erano pieni di sex toys abbandonati e preservativi usati nel water, o abitavamo tende e capanne indigene. Il tutto era finalizzato solo a darci un riparo per la notte in cui io cercavo di isolarmi dai nomi che sputava mia madre nel sonno per non passare l'ennesima notte in bianco.
Volevo una mia tana dove poter dormire senza ripararmi dagli spiriti che la mia coinquilina evocava nel sonno; volevo riempirla di tesori che avrei trovato durante gli anni, dalla collezione di denti da latte a quella delle zanne di una tigre delle nevi; volevo un letto con un materasso coperto da lenzuola con qualche omino strano e sopratutto sgombro da pulci o tanga macchiati; volevo poter entrare in un ambiente conosciuto durante i miei attacchi riflessivi, stendermi sul pavimento e respirare quell'aria familiare che hanno tutte le case vissute. 
Non che odiassi la vita del viaggiatore: scoprire luoghi sperduti in Canada o tesori nascosti in Africa mi affascinava ma succedeva sempre tutto troppo velocemente. Appena scadeva il nostro permesso di soggiorno o mia madre decretava che "ormai avevano visto tutto", sceglievamo la prossima meta e andavamo alla ricerca di un mezzo economico o gratis per raggiungerla. Era una vita troppo frenetica. A volte avevo attacchi di asma e altre volte non riuscivo ad andare in bagno per settimane. Viaggiare mi piaceva anzi lo amavo ma avevo anche bisogno di sedermi un attimo su una poltrona, magari una con un poggia piedi in pelle rossa, ed esercitarmi nella lettura leggendo i vecchi libri di mia madre che prendevo in prestito dalla libreria di mia nonna ogni volta che tornavo a casa in quella breve settimana. 
 Dipinsi da solo la mia tana.
La coprì di Blu.


Il 14 settembre iniziai il mio primo giorno in una scuola dove mi bollarono come l'asociale di turno. 
Quelle pareti sempre ammuffite color deserto, quei banchi pieni di scritte e gomme da masticare, il capobranco, i gruppetti di ragazzine ipocrite....odiavo tutto questo. Era una prigione sotto mentite spoglie, un buco dove i genitori lasciavano i propri figlio per non pagare una badante. In quella marmaglia erano tutti dei rincretiniti che avevano il potere di acefalizzare tutto ciò che avevano intorno. Anche coloro che avevano un minimo di capacità le sopprimevano per non farle risucchiare da quella massa di zombie sempre in cerca di cervelli freschi da mangiare. Così mi isolai.
Il primo anno fu terribile. Mi evitavano dicendo che ero strano e antipatico ma sopratutto  sostenevano  che non ero in possesso delle mie facoltà mentali essendo figlio di una pazza psicotica che si divertiva ad andare in giro per il globo facendo riti satanici e non so che altro. Una volta una ragazzina mi chiese se potevo insegnarle la danza della pioggia: le diedi uno schiaffo.
Avevo una brutta fama e il mio abbigliamento non contribuiva a darmi un'aria da ragazzo normale: indossavo sempre abiti troppo colorati o neri. Le mie maglie non avevano mai un tema preciso; potevano avere il logo di uno scheletro che si impiccava o essere semplicemente a tinta unita. I miei pantaloni erano sempre Jeans fuori moda e larghi. 
Ho e avevo la mania vestirmi con roba usata e vecchia, a volte rovistavo furtivamente nell'armadio di mio nonno per rubargli una giacca in velluto o una salopette da minatore. Ero anche molto fortunato perchè sono sempre stato più altro per un ragazzino della mia età e quindi il bottino che conquistavo con della sana pirateria d'armadi nelle mie mani fruttava; giravo comunque con le maniche delle giacche di velluto marrone rivoltate più e più volte ,tanto che diventavano pesanti e camminavo gobbo.
Il mio abbigliamento influiva anche sul mio aspetto oltre che sulla mia reputazione: avevo dei capelli mossi ma ricci, rossissimi che mi hanno sempre dato un'aria da femminuccia eccentrica. Avevo l'insana abitudine di lasciarli lunghi finchè non iniziavano a coprirmi gli occhi quando camminavo o ad entrarmi in bocca quando parlavo. A quel punto prendevo una forbice, mi facevo una bellissima coda di cavallo bassa e li tagliavo. E poi Giuly mi fece conoscere il barbiere.
Non cambiò niente. La mia reputazione da bastardo handicappato continuava ad esistere, le persone mi parlavano dietro anche quando starnutivo. Per loro ero un mistero, una sottospecie di mutante in visita nella loro realtà, mi ascoltavano parlare solo alle interrogazioni che, tra parentesi, facevano pena.
Non avevo una vera e propria vita sociale, interagivo con me stesso e i membri della zeta che però crescevano e non avevano più interesse per inventare nuovi giochi o pianificare malefici scherzi. Quella realtà a cui avevo fatto appena in tempo ad aggrapparmi lentamente scivolava tra le dita.
Nonostante però la mia pessima fama, il mio abbigliamento da hippie-punkabestia e il mio orrendo odore di ormoni febbricitanti maschili non allontanò quella ragazzina che tempo addietro avevo schiaffeggiato: mi invitava tutti gli anni al suo compleanno e quando mi vedeva per strada mi salutava sempre. Ricambiavo il saluto ma finiva lì. La reputavo come una di quelle tante ragazzine che si soffermavano sulle apparenze e si disperavano teatralmente su una piccola cotta andata in fumo o che meditavano sul grande dramma di avere un'unghia spezzata. 
Anche io non ero un padre eterno, a volte mi lasciavo alla corrente ormonale di turno e diventavo improvvisamente bipolare, ma non mi facevo tante pippe mentali come tutti: cercavo di ragionare. 
Credo di non essere mai stato depresso in quel periodo di transito, considerando che ero la prima vittima delle piccole gang di bulletti a ricreazione e l'oggetto di scherno preferito dalle oche che avevano esaurito le lacrime da dramma apocalittico e non sapevano come intrattenere il publico. 
La mia vita era bella. Avevo viaggiato più di tutti loro messi in sieme, il mio bagaglio culturale a 13 anni era pari a quello di un professore universitario e respiravo ancora. Non avevo nemici, nessuno mi odiava. Quelli che mi schernivano avevano bisogno solo di un passatempo su cui sfogare la loro oppressione e io magnanimo acconsentivo. Potevo benissimo rispondere sia con il fuoco che con il potere delle parole. Ero alto e i miei muscoli ben definiti grazie alle corse della domenica e agli incontri di pugilato con zio Diego,Perchè avrei dovuto essere intimorito da due nani con l'acne?
 e il mio orrendo odore di ormoni febbricitanti maschili non allontanò quella ragazzina che tempo addietro avevo schiaffeggiato: mi invitava tutti gli anni al suo compleanno e quando mi vedeva per strada mi salutava sempre. Ricambiavo il saluto ma finiva lì. La reputavo come una di quelle tante ragazzine che si soffermavano sulle apparenze e si disperavano teatralmente su una piccola cotta andata in fumo o che meditavano sul grande dramma di avere un'unghia spezzata. 

Anche io non ero un padre eterno, a volte mi lasciavo alla corrente ormonale di turno e diventavo improvvisamente bipolare, ma non mi facevo tante pippe mentali come tutti: cercavo di ragionare. 
Credo di non essere mai stato depresso in quel periodo di transito, considerando che ero la prima vittima delle piccole gang di bulletti a ricreazione e l'oggetto di scherno preferito dalle oche che avevano esaurito le lacrime da dramma apocalittico e non sapevano come intrattenere il pubblico. 
La mia vita era bella. Avevo viaggiato più di tutti loro messi insieme, il mio bagaglio culturale a 13 anni era pari a quello di un professore universitario e respiravo ancora. Non avevo nemici, nessuno mi odiava. Quelli che mi schernivano avevano bisogno solo di un passatempo su cui sfogare la loro oppressione e io magnanimo acconsentivo. Potevo benissimo rispondere sia con il fuoco che con il potere delle parole. Ero alto e i miei muscoli ben definiti grazie alle corse della domenica e agli incontri di pugilato con zio Diego,Perchè avrei dovuto essere intimorito da due nani con l'acne?

  
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