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Autore: Ormhaxan    28/10/2013    3 recensioni
Los Angeles, 2011. Candice Roberts è una ragazza di 22 anni di buona famiglia e amante dei Beatles. Per tutta la vita è vissuta nel lusso più sfrenato della sua immensa villa di Beverly Hills; viziata da tutti, ha sempre ottenuto ciò che voleva con il minimo sforzo. La sua vita cambierà drasticamente quando l'impero di suo padre subirà un crollo, e lei dovrà lasciare la sua vita da ricca borghese, la sua università prestigiosa, per iniziarne una totalmente nuova.
Logan 'Storm' O'Connell è un ragazzo di 23 anni di origini irlandesi, un fotografo in erba amante dell'arte e dei Rolling Stones. Figlio di una cameriera rimasta vedova ha sempre provato repulsione verso i ricchi e le loro vite fatte di agi e lussi.
Prudence e Kurt sono i migliori amici di lui, due ragazzi legati da un'amicizia tormentata, ma Prue è anche la coinquilina di lei.
E poi c'è Emily, presidentessa del club di arte moderna, ragazza dall'aria severa derisa e scansata da molti che nasconde un animo sensibile e segreti troppo dolorosi da rivelare.
Cosa accadrà quando le vite all'apparenza così diverse e distanti di questi ragazzi si scontreranno?
[ATTENZIONE: Linguaggio esplicito]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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Storm

 


Tabacco, erba, filtro, leccata, rollata. Mi porto la canna alla bocca, estraggo lo zippo dalla tasca dei miei malridotti jeans. Strofino il pollice sulla superficie scanalata, striscio, ed ecco l’esplosione giallastra simile ad un fuoco d’artificio, la fiammella dai variegati colori che si sprigiona e illumina la stanza semibuia come un faro illumina la notte. Avvicino lo zippo alla cartina, e quando questa prende fuoco aspiro, riempiendomi i polmoni di quel fumo grigiastro che ributto fuori sotto forma di nuvolette qualche istante dopo. Lo guardo diradarsi nell’aria fino a scomparire, e socchiusi gli occhi caccio la testa all’indietro, inumidendomi le labbra e assaporando il retrogusto dolciastro che impregna le pareti della mia bocca.

In sottofondo la voce di Mick Jagger canta una della canzoni più belle e più controverse della sua band, i Rolling Stones: Brown Sugar. Primo singolo del loro nono album registrato in studio, Sticky Fingers, e scritta dallo stesso Jagger con la collaborazione dei uno dei miei miti, Keith Richards. La canzone parla di sesso, perdita della verginità, sadomasochismo e, ultima ma non ultima, della droga, dell’eroina. E’ una canzone che fa disdegnare i molti, ma a me.. oh, a me muove qualcosa dentro. Tocca le corde della mia anima, proprio come la musica dovrebbe fare.

Sia chiaro, io non ho mai fatto uso di quella merda, l’eroina, ma nei miei ventitré anni di vita non ho disdegnato cannabis, hashish, funghi allucinogeni e, in alcuni occasioni, LSD. Ho anche sniffato, due o tre volte, ma questo è tutto. La polverina bianca, denominata anche neve, mi provoca uno strano effetto, un’euforia malsana che non so controllare e che, puntualmente, sfocia in cazzate allucinanti. No, meglio una sana canna rollata con gli amici, il retrogusto dolciastro che ti lascia in bocca, il senso di beatitudine che annebbia il tuo sguardo e la tua mente. La cannabis mi aiuta ad aprire la mente, e nei momenti di blocco totale l’LSD mi catapulta in mondi sconosciuti, nella tana del coniglio bianco, dove il brucaliffo e lo stregatto astratto mi accolgono a braccia aperte come due amici di vecchia data.


Ah, Brown Sugar, how come you taste so good?” mi ritrovo a cantare insieme al vecchio Mick, mentre prendo l’ennesimo tiro dalla canna mantenendo gli occhi chiusi. Non sarà eroina, ma quell’erba è così buona.
“Storm, cazzo, smettila di fare l’egoista e passa anche agli altri!” la protesta di uno dei miei migliori amici, Kurt, mi arriva ovattata, lontana mille miglia.
Apro gli occhi con fare stanco, guardando il mio amico con la coda dell’occhio: sotto l’effetto della droga quel fottuto biondino è ancor più simile a Kurt Cobain, il suo mito e re indiscusso del movimento nato negli anni ’90 a Seattle chiamato Grunge. Kurt, proprio come Cobain, ha i capelli biondi e lungi fino alle spalle, gli occhi chiari e la pelle lattiginosa. Come Cobain è uno spirito tormentato e veste con camicie di flanella troppo grandi per lui. Come Cobain ama la musica, l’arte, la poesia. E’ il mio migliore amico, il fratello che non ho mai avuto, e insieme abbiamo fatto le migliori cazzate della nostra vita.
“Tieni, stronzo” mi allungo in avanti, tendo il braccio e gli passo la canna “E vedi di non finirtela, intesi? Per stasera temo sia l’ultima”
Do un’occhiata al tavolino, al guscio di noce di cocco essiccato utilizzato per miscelare il tabacco e la canapa ormai vuoto, al sacchetto di plastica trasparente altrettanto vuoto e tristemente mi accerto della veridicità delle mie parole: è finita, ce la siamo fumata tutta.

Mi lascio cadere a peso morto all’indietro, ritrovandomi steso sul divano più incosciente che cosciente, e passandomi una mano tra i miei capelli sbuffo. Devo ancora abituarmi ad averli corti, e spesso mi ritrovo a pensare di aver fatto una cazzata a tagliarmeli. Mi mancano i miei capelli, le onde castane che mi accarezzavano la schiena e si scompigliavano al vento. Mi manca il senso di protezione che mi davano, come se qualche ciocca in più potesse nascondermi dal resto del mondo. La mia nuca adesso è scoperta, e mi provoca uno strano senso di vulnerabilità, mentre ciuffi scarmigliati ricadono senza un verso preciso sulla mia fronte, solleticandomi gli occhi.
In sottofondo i Rolling Stones hanno lasciato il posto ad una voce femminile che identifico essere quella di Joan Jett, cantante e chitarrista, ex chitarra solista delle Runaways. La canzone, se le mie orecchie non mi ingannano, è la celeberrima cover di “I love Rock n’ Roll” eseguita nella sua versione più cattiva e selvaggia.

“ I love rock n' roll, so put another dime in the jukebox, baby.” canticchio, prima di scolarmi un generoso sorso di vodka che qualcuno mi ha passato.
Apro gli occhi e noto con mio grande piacere che il tavolino è stato adibito a cubo da discoteca. Su di esso, Molly Simpson, vestiti succinti e caschetto biondo, ha iniziato a ballare con mosse degne di una spogliarellista. E’ uno spettacolino trash, eppure quel culo che si muove sinuosamente fa risvegliare il mio amico chiuso nei pantaloni. Non scopo da più di due settimane, e l’astinenza si sta facendo sentire. Quando Molly mi guarda le faccio segno con una mano di avvicinarsi e lei, da brava cagnolina in calore, scende dal tavolino e si avvicina con passo sinuoso. Molly ha da sempre una passione per me, e anche se sa perfettamente che da me non avrà mai nulla al di fuori di qualche saltuaria scopata, continua a esaudire tutte le mie richieste.

“Storm!” pronuncia il mio nome con tono civettuolo e si siede a cavalcioni su di me.
“Ciao, Molly” saluto a mia volta, sbiascicando le parole. Gioco distrattamente con una ciocca dei suoi capelli, e passo un pollice sulle sue labbra carnose rese ancor più marcate dal rossetto rosso.
Senza aggiungere altro – lei sa perfettamente cosa voglio – serro una mano dietro la sua nuca e la bacio con irruenza, ficcandole la lingua in bocca. Fregandomene delle persone accanto a noi, dei loro possibili sguardi, inizio a spogliarla. Le sue mani sottili vanno subito al cavallo dei miei jeans, aprono la zip e in men che non si dica mi sta facendo un lavoretto di mano. Scopiamo su quello sgangherato divano: lei rimane seduta a cavalcioni su di me ed io, seduto sul divano con la testa reclinata all’indietro, le artiglio i fianchi e le do il ritmo giusto.

Quando tutto finisce me la tolgo di dosso, mi risistemo e mi avvio verso una delle camere da letto di quello sgangherato appartamento all’ultimo piano di un palazzo altrettanto sgangherato e mal ridotto a nord del Sunset Bouleverd. Trovo un materasso libero nella terza stanza che controllo, e a peso morto mi ci butto sopra, addormentandomi all’istante.

Mi risveglio che è l’ora di pranzo, e per un momento sono colto dal panico. Fosse stato un qualsiasi giorno della settimana mi sarei perso le lezioni in università, invece è domenica il che significa che sono in ritardo per il pranzo domenicale con mia madre. Nella stanza ci sono come minimo altre cinque persone; tutti dormono ancora, chi vestito e chi no, e faccio una faticaccia ad uscire da lì senza fare rumore. Una volta uscito da quella casa in cui sembra sia scoppiata la terza guerra mondiale prendo il primo tram utile e me ne torno nella mia, di casa. Più che casa la mia è un monolocale all’ultimo piano di un palazzo senza ascensore situato in una delle traverse del Sunset. Il monolocale è collegato ad una scala che conduce ad una specie di soffitta che ho allestito come mio atelier.

Mi reputo un fotografo, un aspirante fotografo, e per vivere lavoro come fattorino in un ristorante cinese. Esatto, il mio capo è un cinese emigrato in America quindici anni fa. E’ un buon diavolo il mio capo, Mr. Chen, e mi paga anche bene. Lavoro per lui tre sere a settimana, e all’occorrenza mi paga anche straordinari per lavare i piatti nelle sarete di pienone. Durante la mattina, invece, studio alla UCLA, Università della California di Los Angeles, alla facoltà delle Arti e dell’Architettura. Oltre ad essere un fotografo sono un grande appassionato della pittura, in particolare dell’Espressionismo Astratto americano degli anni ’50, e un grande estimatore di Jackson Pollock e Franz Kline.

Arrivato a casa mi fiondo in doccia, nella speranza di togliermi dalla pelle quella sensazione di sesso occasionale e ore piccole, mi lavo i denti e mi vesto con le prime cose che mi capitano sott’occhio. Prendo le chiavi della mia macchina – un rudere scassato, unico mezzo di trasporto che posso permettermi al momento – ed esco di casa con la speranza di non rimanere imbottigliato nel traffico per la prossima ora.
Mia madre abita a Van Nuys, un distretto a nord ovest di Los Angeles situato nella San Fernando Valley, e per anni ha lavorato come cameriera nelle case delle famiglie ricche e agiate di Los Angeles. Mio padre è morto quando avevo nove anni e da quel momento è stata mia madre l’unica ad occuparsi di me, a fare doppi turni e spaccarsi la schiena per darmi un’istruzione e un futuro migliore del suo. Devo tutto a mia madre, alla mia eroina, e spesso mi domando cosa avrei fatto senza di lei.

La porta d’ingresso della piccola villetta a schiera si apre non appena mi immetto nel vialetto di casa. Parcheggio la macchina davanti all’entrata del garage, e quando scendo dalla macchina mi ritrovo faccia a faccia con mia madre, una donna dal fisico robusto, appena entrata nei sessanta, che mi aspetta sotto il patio anteriore.

“Logan O’Connell, è mezz’ora che ti aspetto: si può sapere dove sei stato?” chiede, mani ai fianchi e viso corrucciato.
“Scusa, mamma, ma sono rimasto incolonnato nel traffico” la scusa del traffico funziona sempre, ma non sono sicuro che questa volta se la sia bevuta. Le do un bacio sulla guancia e le porgo un mazzo di margherite bianche che ho comprato il giorno prima da venditore di fiori un ambulante.
“Per questa volta ti sei salvato con i fiori” mi avverte, odorando le margherite “Ma la prossima volta non scappi, intesi?” mi da uno scappellotto e continua “Entra. Se aspettiamo ancora un po’ il pranzo si fredda.”

Ogni domenica mia madre apparecchia il tavolo in salone, imbandendo la tavola con svariate prelibatezze. Il pranzo domenicale è l’unico pasto decente che riesco a rimediare durante la settimana, e ne approfitto per mangiare più che posso. Se mi va bene, mia madre mi darà gli avanzi del pranzo per la cena e il giorno successivo. Attorno al tavolo parliamo del più e del meno, ridiamo e scherziamo, e il tempo passa velocemente.
Sono in attesa del dolce, della squisita torta di mele che solo mia madre sa fare, quando il mio sguardo cade sul quotidiano lasciato sul tavolino e sulla sua prima pagina. Lo apro e inizio a leggere: sulla prima pagina c’è il faccione di uno degli imprenditori più ricchi della città, James Roberts, e sopra di questa un titolo gigante scritto in grassetto.



“L’impero Robers va in fallimento. Botiques chiuse in mezzo mondo e famiglia sul lastrico.”



A quanto sembra il suo socio lo ha lasciato con un buco di milioni di dollari e il povero diavolo è stato costretto a vendere tutti i suoi beni pur di pagare i creditori e salvare la botique di New York e due di Los Angeles. Al lato c’è un’altra foto dell’uomo con la sua famiglia: alla sua destra c’è una donna che leggo essere sua moglie, una donna alta, magra, di dieci anni più giovane di lui. E’ di origini francesi ed è un ex modella. Alla sua sinistra, invece, c’è una ragazza che il giornale indica come sua figlia. Si chiama Candice, ed è l’unica figlia dell’imprenditore. E’ magra come la madre, più bassa di lei e sembra spensierata, felice. Sorrido, infastidito: ha il classico portamento da ragazzina viziata e sono sicuro che, in tutta la sua vita, non ha dovuto lavorare neanche un giorno, né faticare per ottenere qualcosa. Ho sempre odiato quelli come lei, quelli come loro, e una parte di me è felice delle loro disgrazie.
“Il Karma, alla fine, fotte tutti!” mi trovo ad esclamare, prima di rimettere il giornale al suo posto, sul tavolino.
In quell’esatto istante mia madre ritorna in salotto con la torta fumante, e ben presto dimentico quell’articolo, James Roberts, il suo fallimento, sua moglie e la sua figlioletta viziata, Candice.



*


Angolo Autrice: Salve, gente. Confesso che inizialmente questo secondo capitolo avrebbe dovuto essere dal POV di Candice, un seguito del prologo, ma all'ultimo ho deciso di anticipare il terzo (scritto dal POV di Logan) e posticipare quello di Candice. Come avete visto Logan è completamente diverso da lei, conduce una vita sregolata e agli antipodi rispetto a quella di Candy. Per quanto riguarda il titolo della storia, invece, è preso dal libro di poesie di Jim Morrison, cantante dei Doors, Tempesta Elettrica. Inoltre, se non l'avete notato da soli, Storm (ovvero il soprannome di Logan) in inglese significa proprio Tempesta. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e, se vi va, vi invito a lasciarmi una vostra recensione. Spero di non aver commesso errori, nel caso siete liberissimi di farmeli notare. Un grazie va a chi ha recensito lo scorso capitolo e a quelli che hanno insierito la storia tra le preferite\seguite. Al prossimo capitolo! ;)
  
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