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Autore: LazySoul    29/10/2013    17 recensioni
Hermione Jean Granger non aveva mai scommesso nulla in vita sua.
Cosa accadrebbe se fosse costretta a scommettere se stessa?
E se si ritrovasse nelle mani di Draco Malfoy per un mese intero? Come potrebbe resistere al suo fascino da bello e dannato?
Dal testo:
«Malfoy non fare il bambino viziato!», esclamai, mentre allontanavo la sua mano dal mio volto che per tutto quel tempo era stata sul mio mento.
«Sfortunatamente è proprio ciò che sono. Allora scommetti che riesco a zittirti senza l’uso della magia?», mormorò con un sorrisino strafottente.
Mi torturai con le mani una ciocca di capelli, prima di annuire appena: «D’accordo, Malfoy»
«Cosa vuoi scommettere?», chiese.
«C-cosa voglio...?»
«Sì, Granger, cosa vuoi scommettere?», ripeté, ghignando.
«I-io... non lo so!», ammisi, sconvolta.
Era la conversazione più stramba e ridicola che avessi mai sostenuto.
Lo vidi sbuffare: «Ci sono varie cose che si possono scommettere, soldi, oggetti, te stessa...»
«M-me stessa?», domandai leggermente terrorizzata.
«Non hai mai scommesso nulla in vita tua, Granger?»
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger, Un po' tutti | Coppie: Draco/Hermione, Harry/Ginny
Note: Lemon, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mai Scommettere col Nemico'
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26. ISLAND




«Dobbiamo dirlo alla McGranitt», dissi con voce ferma e, afferrando con decisione il braccio della Parkinson, cominciai a dirigermi verso l'ufficio della professoressa di Trasfigurazione, trascinandomela dietro per un certo tratto.

«Che cosa?!», esclamò la ragazza dopo pochi secondi, liberandosi dalla mia presa e facendo un paio di passi indietro, come se volesse mantenere le distanze.

Alzai un sopracciglio, stupita dalla sua reazione fulminea ed osservando con attenzione il suo volto.

Aveva i lineamenti del viso tesi, chiaro sintomo di nervosismo, la pelle era più pallida del solito e le pupille degli occhi erano leggermente dilatate da quella che sembrava paura.

Assottigliai lo sguardo, facendo due più due e capendo all'istante che la Parkinson mi stava nascondendo qualcosa di fondamentale.

Che mi avesse mentito?

No, quando aveva parlato di quello che sarebbe successo dopo mezzanotte sembrava sincera e terrorizzata quanto me, ma allora perché non voleva che la McGranitt venisse informata?

In pochi secondi il volto della Serpeverde tornò impassibile, ma si vedeva sulla fronte una piccola ruga di preoccupazione.

Qualcosa non quadrava, ma cosa?

«Che cos'è che non mi hai detto?» le chiesi, scandendo chiaramente le parole e facendole capire quanto fosse scarsa la mia pazienza e che non ero in vena di scherzi.

I suoi occhi si assottigliarono: «Ti ho detto tutto ciò che dovevi sapere».

Quelle parole mi fecero chiaramente capire che stava nascondendo qualcosa e il mio sguardo interrogativo e spazientito le fece affilare ancora di più lo sguardo: «Il fatto che non ci uccideremo a vicenda nelle prossime ore non significa che siamo diventate amiche del cuore e che io sia costretta a parlarti di cose private!» esclamò spazientita.

«E invece dovresti, dato che queste "cose private" ci impediscono di fare ciò che dobbiamo...»

«E perché mai dovremmo avvisare la McGranitt?!»

«Per dirle che siamo in pericolo! Se no come facciamo a prepararci per affrontare le "sagome scure"?!»

Avevo ragione, lo sapevo io e lo sapeva pure lei, eppure ero certa che non sarebbe servito a potarla a confessare dov'era il problema.

Perché era lì, racchiuso da qualche parte, il pezzo del puzzle che avrebbe cambiato del tutto le carte in tavola e che lei non voleva assolutamente dire.

«Non posso, Granger», distolse lo sguardo mentre parlava e capii che la conversazione era ormai ad un'impasse.

Avrei voluto continuare all'infinito a chiederle spiegazioni, magari assumendo il mio tipico atteggiamento e la mia posa con le mani sui fianchi che precedeva una lunga sgridata, ma sapevo che non sarebbe servito a nulla.

L'ultima mia carta da giocare era quella della ragazza comprensiva e non quella aggressiva.

Abbandonai quindi la mia posa rigida e sospirai, allungando una mano e facendo per appoggiarla sulla sua spalla, prima di bloccarmi, certa che non avrebbe gradito.

«Troveremo una soluzione insieme, Parkinson. Se me ne parli possiamo unire le forze e pensare a come risolvere tutto».

Per un istante, uno soltanto, vidi una scintilla di speranza e fiducia nei suoi occhi.

Ebbi giusto il tempo di scorgerla perché subito dopo quella luce era morta.

«Non ho bisogno del tuo aiuto, Granger», il suo sguardo furioso mi stupì e non potei fare a meno di provare compassione per lei.

La Parkinson non mi era mai sembrata così sola e bisognosa d'aiuto, nemmeno durante il nostro incontro avvenuto cinque mattine prima mi era sembrata così impaurita e delusa.

Sì, la Serpeverde era profondamente delusa della sua vita, glielo leggevo in faccia.

Capivo però il suo bisogno di non cedere e lasciar vedere il fianco ferito, perché erano cinque giorni che mi comportavo allo stesso modo con chiunque mi chiedesse di Malfoy e dove fosse finito.

Erano cinque giorni che fingevo la mia solita indifferenza al mondo intero, ma dentro ero sempre più fragile ed insicura.

«Ne hai parlato almeno con un'amica?», le chiesi, sperando che almeno lei avesse trovato il coraggio di dirlo a qualcuno, mentre io mi ero semplicemente barricata nella mia fortezza senza lasciar entrare nessuno al suo interno.

Ero diventata un'isola, alla faccia di Donne (*), c'ero riuscita.

E malgrado avessi odiato la Parkinson per anni, in quel momento trovandomi nella sua stessa situazione
di isolamento autoimposto non potevo non sentirmi in un qualche modo vicina a lei.

Avrei voluto che mi parlasse dei suoi problemi, forse per avere la scusa perfetta per scaricare sulle sue spalle anche i miei. Uno scambio equo, insomma.

La leggevo nei suoi occhi, la stessa scintilla di autoconservazione che c'era nei miei, la stessa luce di dolore e preoccupazione.

Mi chiesi se anche lei, come me, fosse preoccupata per Malfoy.

Eppure cinque mattine prima mi aveva sputato addosso tutto l'odio che provava nei confronti del biondo, era possibile che ne fosse lo stesso innamorata?

Oppure stava soffrendo per qualcun altro?

Sul suo volto comparve un'espressione di scherno: «Se anche fosse, sono comunque fatti miei, Granger».

Anche lei era un'isola, proprio come me e, se da una parte ero triste per lei, dall'altra non potevo fare a meno di sentirmi meno sola e felice di aver trovato una mia "simile".

«Abbiamo abbassato la bacchetta di guerra da dieci minuti e già ho voglia di schiantarti, Granger, non tirare la corda».

Ghignai a quella parole, felice che fosse riuscita a riportare la conversazione su argomenti meno pungenti e dolorosi.

«Il sentimento è reciproco, Parkinson, ma rimango comunque dell'idea che dovremmo informare la McGranitt dell'accaduto».

«Io invece penso che non parlerai a nessuno di quello che ti ho detto fino a quando non lo deciderò io».
Aggrottai profondamente le sopracciglia, scandagliando la sua espressione impassibile: «E perché mai dovrei fidarmi, Parkinson?»

Sul viso della Serpeverde comparve un ghigno: «Per lo stesso motivo per cui io mi sono fidata di te, parlandotene; perché non abbiamo nessun'altro».

Le sue parole mi colpirono in pieno viso come un pugno e, prima che potessi ribattere, mi aveva già liquidata con un veloce cenno del capo e se ne era andata.



***



Passai l'intero pomeriggio in Biblioteca a sfogliare libri dopo libri su incantesimi di difesa e attacco.

Se non potevo informare nessuno tanto valeva che mi preparassi almeno io ad una possibile guerra.

Avevo passato l'ora di pranzo e le due successive di lezione in uno stato di continua agitazione e tormento, tanto che Harry mi aveva più volte chiesto che cos'avessi e io, ogni volta, ero stata ad un passo dal confessargli tutto quello che mi aveva detto la Parkinson, per poi invece mordermi a sangue l'interno guancia e mentire.

Odiavo non dire la verità, soprattutto ai miei amici, ma dovevo fidarmi di quella ragazza, anche se non avevo mai avuto un bel rapporto con lei ero certa che non mi avesse mentito e quella sera sarebbe davvero successo qualcosa di orribile.

E se le "sagome scure" fossero stati Mangiamorte? O Dissennatori?

Per non rischiare avevo mandato una lettera veloce ai miei genitori, chiedendo loro di andare a stare dalla prozia Claire in campagna per un po' di tempo, fino a quanto non avessi detto loro di tornare a casa.

Non avrei potuto sopportare il pensiero che i miei genitori fossero in pericolo a causa mia e la prozia Claire era l'unica soluzione che mi era venuta in mente, anche perché in realtà non era affatto imparentata con noi, ma era stata la maestra delle elementari di mia madre. Con lei i miei genitori ed io avevamo sempre avuto un rapporto stretto, soprattutto quando viveva nella casa accanto alla nostra nella periferia di Londra, tanto che io da piccola ero davvero convinta che fosse la zia di mia madre.

Sperai che avessero seguito il mio consiglio, certa che se fosse accaduto quello che temevo sarebbe successo, avrebbero rischiato la vita.

Afferrai uno dei tanti volumi davanti a me lo sfogliai interamente, segnando velocemente su una pergamena tutti gli incantesimi che sarebbero potuti risultare utili.

Ma dopo poco ero di nuovo distratta, dato che alla preoccupazione per la mia scuola e la mia famiglia, si aggiungeva quella per il mio migliore amico che, subito dopo l'ultima ora di lezione era scomparso, letteralmente, nel nulla.

Avevo giusto avuto il tempo di vederlo bere da una piccola boccettina con all'interno un liquido color oro fuso e l'istante dopo era fuggito fuori dal castello.

Mi chiesi se fosse riuscito a recuperare quel prezioso ricordo di Lumacorno e perché per farlo era dovuto correre fuori dalla scuola, se l'ufficio del professore si trovava all'interno, ma avevo preferito non indagare troppo sulla faccenda, certa che la Felix Felicis stesse svolgendo il suo effetto, portando tutta la fortuna possibile al mio amico.

Chiusi il volume, allontanandolo di qualche centimetro e, alzando il volto, scrutai i tavoli accanto a me, notando come fossero quasi tutti vuoti, tranne uno occupato dalla Greengrass e la Bullstrode ed un altro dove alcuni ragazzini di Corvonero stavano consultando un enorme libro polveroso.

Ancora una volta durante quella giornata, che sembrava sfuggirmi dalle dita, mi sentii sola come un'isola in mezzo ad un mare sconosciuto.

Sfogliai ancora poche pagine, prima che la sedia accanto alla mia si spostasse.

Alzai lo sguardo, incontrando gli occhi scuri e i capelli rosso fuoco della mia migliore amica.

«Ciao, Ginny», la salutai, prima di chiudere il polveroso volume e di voltarmi appena verso di lei, pronta a dedicarle tutte le attenzioni di cui avesse avuto bisogno.

«Ciao, Hermione, hai visto Harry? È tutto il pomeriggio che lo cerco».

«Aveva una missione importante da compiere», dissi, rimanendo sul vago, prima di sorridere: «A proposito di Harry, come va?»

La mia domanda la fece arrossire e nei suoi occhi comparve una scintilla piena di amore e speranza: «Oh, Hermione, va davvero tutto bene. Anzi, troppo direi! Sono così felice ultimamente ed Harry è così dolce e attento quando vuole... dovrei andare da Zabini e ringraziarlo, se non fosse stato per lui forse starei ancora a fare i miei tira e molla con Dean per far ingelosire Harry... ma questo te l'ho già detto un miliardo di volte negli ultimi cinque giorni», disse allegra, dedicandomi uno dei suoi bellissimi sorrisi: «Studi?»

Racimolai quel poco di felicità che mi era rimasta e la dedicai tutta a lei, nascondendo il mio dolore, il mio nervosismo e tutti i sentimenti negativi ne negli ultimi giorni mi stavano a poco a poco spegnendo.

Le sorrisi: «Che cosa potrei fare se no in Biblioteca?», le feci notare, facendole l'occhiolino e sforzandomi di essere la solita Hermione Granger e di non lasciar trapelare la preoccupazione.

Seppi di aver fallito nel momento esatto in cui incontrai lo sguardo contrariato di Ginny, ma finsi indifferenza di fronte alla sua muta domanda di spiegazioni e mi alzai.

Con un veloce incantesimo feci lievitare i libri e li spedii ognuno al proprio posto, prima di voltarmi nuovamente verso Ginny: «Facciamo un giro? Così tu mi racconti come è andata la giornata».

Vidi la mia amica annuire, anche se ancora sembrava chiedersi cosa mi tormentasse.

"Mi dispiace, Ginny, ma non posso dirti nulla", pensai, pronta a riempirla di domande così da evitare di diventare il soggetto della conversazione.



***



Passai l'ora di cena a chiacchierare animatamente con Ginny; entrambe ci chiedevamo dove fosse finito Harry, che non si vedeva da quel pomeriggio.

Non capivo il motivo della sua assenza, dubitavo che per recuperare un semplice pensiero ci volesse così tanto tempo e sperai che non fosse incappato in qualche problema.

Considerai l'ipotesi che si trovasse da qualche parte con il Preside, dato che quella sera il posto a tavola di Silente era vuoto e, senza sapere perché, mi resi conto che il pensiero di Harry da qualche parte con il Preside non mi tranquillizzava affatto.

Durante cena mi capitò spesso di incrociare lo sguardo della Parkinson dall'altra parte della Sala Grande, allo stesso modo in cui mi ritrovai a riprendere Ron un centinaio di volte per il modo incivile in cui si ingozzava di ali di pollo.

Era una serata così normale che il pensiero che presto sarebbe scoppiata una guerra sembrava assurdo, eppure era terribilmente reale.

Avrei voluto alzarmi in piedi e dire a tutti di fuggire, ma ancora una volta incontrai gli occhi scuri della Parkinson e mi cucii mentalmente le labbra.

Dopo cena, come ogni sera, subito dopo aver salutato Ginny, raggiunsi la piccola saletta dei Prefetti, incontrando Dean Thomas, Hannah Abbott e Zacharias Smith, Antony Goldstein e Lisa Turpin, Pansy Parkinson e Blaise Zabini (il momentaneo sostituto di Malfoy).

Salutai tutti, lanciando un veloce sguardo alla Serpeverde che mi ricambiò con la sua solita occhiata di odio represso.

Capii subito il messaggio: fingere indifferenza.

Diversamente dal solito ci fu una veloce riunione dove Goldstein appese al muro le coppie del mese per quanto riguardava le ronde e fu con una smorfia di pura sofferenza che vidi il mio nome accoppiato a quello di Malfoy. Lanciai una veloce occhiata a Zabini, notando quanto anche a lui la nostra momentaneamente forzata passeggiata al chiaro di luna non andasse a genio.

Fino all'inizio dell'anno ero stata accoppiata con la Abbott, ma da quando era nata quella stupida scommessa tra me e Malfoy, il Serpeverde aveva sempre chiesto alla Abbott di fare cambio di compagni di ronda ed io mi ero ritrovata a dover controllare il castello da cima a fondo con lui. Ed ora mi ritrovavo costretta a fare la ronda fino a Natale con Malfoy.

Sospirai, ignorando le spine che si erano conficcate nel mio cuore, mentre mi chiedevo quando quello stupido furetto sarebbe tornato.

Mi mancava, era inutile mentire o prendersi in giro, lo rivolevo con me per litigare, fare pace e poi litigare di nuovo.

Dopo pochi istanti ogni coppia di Prefetti se ne era andata e io ero rimasta da sola con Zabini che, con fare scocciato mi fissava.

«Ti sei pietrificata, Granger?»

Feci una smorfia, disturbata dal fatto che avesse interrotto i miei pensieri, prima di uscire dalla saletta spoglia al cui interno vi erano solo alcune foto dei precedenti Prefetti, un tavolo e alcune sedie.

«Andiamo, Zabini».

La ronda iniziò nel migliore dei modi: in perfetto silenzio, ma poco dopo cominciai a sentirmi a disagio e quando scoccarono  le undici di sera sentii un brivido freddo scivolarmi lungo la schiena.

Dovevo trovare la Parkinson per chiederle il "permesso" di dire cosa stava per succedere, ma sarebbe potuta essere ovunque nel castello.

Lanciai una veloce occhiata a Zabini e vidi che mi stava fissando.

«Lo so che lo sai», mi disse semplicemente, colpendomi alla sprovvista.

«La Parkinson te l'ha detto?», gli chiesi stupita, sbarrando gli occhi.

Lui annuì soltanto, prima di dire: «Silente dovrebbe essere tornato ormai, Pansy mi ha detto che gli avrebbe parlato il prima possibile».

«Bene», riuscii semplicemente a dire, sperando che andasse tutto per il meglio.

«Controllo il sesto e tu il settimo piano, va bene?»

Io annuii, anche se dal tono della sua voce sapevo che stava per succedere qualcosa.

Realizzai che sicuramente anche lui doveva sapere qual era il pezzo del puzzle che la Parkinson mi aveva tenuto nascosto e mi chiesi se me ne avrebbe parlato se gliel'avessi chiesto, certa che la risposta sarebbe stata no.

Quando ci separammo sentii la strana sensazione che quella sera non ci saremmo più incontrati e lessi quel pensiero anche nei suoi occhi quando mi disse: «Buona fortuna».



***



Salii le scale fino ad arrivare al settimo piano.

Appena mossi i primi passi mi resi conto che c'era qualcosa che non andava.

Mi appiatti all'istante contro il muro, scivolando senza far rumore fino ad una delle armature, nascondendomi dietro ad essa, mentre mi guardavo intorno.

Quella situazione mi ricordò in modo impressionante quella mattina, quando avevo seguito Nott proprio fino a quel piano e lo avevo visto entrare nella Stanza delle Necessità.

Sentii chiaramente il rumore di passi affrettati in avvicinamento e trattenni il respiro, chiedendomi chi sarebbe potuto essere. Sapevo perfettamente che in molti non rispettavano le regole di Hogwarts, io ero una delle prima che, con Harry e Ron, le avevo infrante nel corso degli anni e, anche se non mi vantavo certo di questo, potevo dire almeno di averlo fatto per buoni motivi.

I passi si avvicinarono ancora e io strinsi maggiormente la bacchetta nella mano destra.

Quando vidi passare davanti all'armatura una figura alta coperta da un mantello nero e con il cappuccio sollevato non persi tempo e appena mi superò di qualche passo le andai dietro, puntando la mia bacchetta contro la sua schiena.

«Non ti muovere», dissi, con una voce arrocchiata dall'ansia che non sembrava neanche mia.

Ero pronta a tutto, quel Mangiamorte non mi sarebbe sfuggito.




 


(*) John Donne è un poeta inglese del XVII secolo e la sua opera più importante è "No man is an island" (Nessun uomo è un'isola), dove afferma che l'uomo non è un'isola ma è parte di un continente, una metafora per dire che l'uomo fa parte dell'umanità e non deve quindi sentirsi solo, ma deve gioire se nasce un bambino e rattristirsi se un uomo muore.

 
  
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