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Autore: fourty_seven    31/10/2013    1 recensioni
In un futuro molto lontano, su una Terra diversa da come la conosciamo oggi, un ragazzo, che vive in una enorme baraccopoli, sorta attorno ad una città, lotta contro il suo mondo per cambiare il proprio destino
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Mi fiondo nel cortile, allargando il buco nel muro già esistente. Ci scontriamo a mezz’aria; riesco ad afferrare il suo collo, cosa non molto difficile data la sua lunghezza, lo stringo e lo getto a terra, cercando di soffocarlo. Ma lui riesce a liberarsi, beccandomi il braccio, con cui lo trattengo, poi mi rifila un calcio nello stomaco. Barcollo indietro, lui ne approfitta per colpirmi altre due volte, e l’ultimo colpo sul muso mi getta a terra. Mentre sono a terra si rialza e cerca di attaccarmi di nuovo, ma sono più svelto di lui. Con un ruggito mi rialzo e sto per colpirlo, quando una voce ferma entrambi. Mi volto a guardare chi ha parlato; lui è in ombra, ma la voce è inconfondibile. Per evitare ulteriori problemi, ubbidisco all’ordine e ritorno normale, ma il mio avversario rimane trasformato,  così riesco a vedere quello che realmente è, e per poco non mi metto a ridere. Ad occhio direi che è alto attorno ai tre metri, di cui la metà è solo collo; un lungo e sottile collo, che tiene piegato verso il basso, sulla cui sommità spunta un piccola testa rotonda; gli occhi sono quasi sproporzionati rispetto alla testa, mentre il becco, con cui mi ha attaccato, è così lungo che mi chiedo come faccia a non staccarsi dalla testa. Il resto del corpo è formato da un ovale, da cui fuoriescono due lunghe zampe, con almeno tre articolazioni ciascuna. In sostanza è un enorme e strano uccello, e anche piuttosto ridicolo. Ritorna umano e comincia a camminare verso di me, quando mi passa di fianco, mi sussurra: “La prossima volta ti ucciderò”, poi rientra nell’edificio. Sinceramente non sono molto propenso a prendere sul serio le sue parole, ma è abbastanza certo che in un vero scontro, per quanto lui possa essere ridicolo, avrebbe la meglio su di me, e anche piuttosto facilmente. Ritorno anch’io dentro e trovo solo Erik, gli altri se ne sono andati con Monica. Mi strappo definitivamente la maglietta, ridotta a brandelli e mi incammino con Erik, verso le nostre stanza. “Coraggio, di quello che devi”, “Hai fatto un casino, Jack. Tutte e due, tu e quello stupido di John, avete complicato le cose proteggendola in quel modo! L’avete resa molto interessante agli occhi degli altri; in più voi due, te soprattutto, avete attirato troppa attenzione delle persone sbagliate. Un comportamento così protettivo nei confronti di una preda è anormale per i nostri standard; potrebbero cominciare a dubitare di voi, e se i dubbi dovessero aumentare troppo, verrete eliminati; soprattutto te sei a rischio, hai già dato prova di scarsa obbedienza, un’altra azione fuori dalle regole e verrai ucciso”; ha ragione, chi comanda ci considera bestie e pretende la dovuta ubbidienza, un comportamento troppo umano non è gradito. Erik arriva alla sua stanza, mi saluta ed entra; io proseguo dritto e incontro John. Mi fermo, “Dove l’hanno portata?” chiedo, “Per adesso è in isolamento; ci dovrà rimanere più o meno un mese, così mi hanno detto; abbiamo abbastanza tempo per agire, giusto?”, non gli rispondo, perché non sono sicuro della risposta. Proseguo per la mia strada e arrivo alla mia camera. Entro, mi tolgo anche i pantaloni, che non sono messi molto meglio della maglietta, e mi butto sul letto; vengo preso da un’incredibile sonnolenza, così chiudo gli occhi...
E vengo svegliato da un rumore alla porta. Mi alzo e apro, mi trovo davanti Tom; prima mi guarda in modo strano, poi con aria di sufficienza e mi dice: “Vestiti, che è ora di andare”, poi se ne va, probabilmente a mangiare. Prendo degli altri abiti, che ci vengono forniti in grande quantità, e raggiungo gli altri in mensa. Finita la colazione, anche se in realtà sarebbe più logico chiamarla cena, visto che è il tramonto, andiamo al mezzo e inizia un’altra nottata; seguita da altre tutte uguali, in cui né trovo Franky, né, per fortuna, troviamo altre persone fuori dopo il coprifuoco.
Dopo circa una settimana veniamo mandati in una zona periferica, vicina ai confini estremi dalla città; lo si capisce facilmente dagli edifici, semplici baracche di legno, marce o distrutte, e, soprattutto, dalle centinaia di cadaveri, che popolano le strade, e che aggiungono tanfo di carogna all’abituale puzza di questo posto. “Che schifo” commenta Michael, “Troppo lontani dalla Città per poter sopravvivere, troppo lontani dal confine per poter essere divorati dalle bestie; che destino spregevole e miserevole, marcire per strada” dice Erik; “E noi qui cosa dobbiamo fare, ci pensa già la natura a decimarli, siamo completamente inutili!” dice John. Questa frase provoca in me una strana reazione; mi guardo attorno e vedo, vedo veramente da cosa sono circondato, e vengo preso da una profonda tristezza e da un’enorme rabbia, verso chi permette tutto questo. Mentre involontarie lacrime mi scendono dagli occhi, mi avvio verso il centro della piazza, in cui ci siamo fermati, scavalcando corpi di tutte le età, morti per la fame e per la sete, perché i canali di scolo, così come la polla in mezzo alla piazza stessa, sono completamente secchi, segno che da questo posto deve mancare l’acqua da mesi. Quando arrivo sopra la polla, mi trasformo e con gli artigli comincio a scavare allargando la buca già esistente. Sento gli altri parlare tra di loro, soprattutto John sembra essere sorpreso dal mio comportamento, tuttavia dopo poco vengo affiancato da un'altra persona; Erik, anche lui trasformato, comincia a lavorare affianco a me. ro sicuro che avrebbe capito subito le mie intenzioni. Poi, non so se perché anche loro hanno compreso, anche gli altri iniziano a scavare con me. Continuiamo per ore, fino a che la buca diviene così profonda da non poter più continuare a scavare. Allora ci fermiamo, “Così dovrebbe bastare” dice John, io annuisco; poi guardo verso l’alto, fuori dalla buca, dove sono rimasti Tom, Erik e Michael. Poi io comincio ad arrampicarmi lungo la parete della buca, mentre Michael scende verso di me; poi cominciamo ad adagiare i corpi sul fondo della buca, passandoceli l’uno con l’altro. Mi passano tra le mani uomini, donne, giovani o già anziani; all’improvviso sento Erik dire: “Fate attenzione con questo”, vedo Tom scendere ulteriormente nella buca e porgere qualcosa a Michael, che la afferra con estrema delicatezza, per qualche istante rimane fermo a guardare, poi mi cala il corpo con le sue molte code, facendo molta attenzione; lo prendo con una sola zampa, è molto più piccolo di tutti gli altri corpi, e lo osservo: è una bambina, piccolissima, pallida, non sembra morta, ma che semplicemente stia riposando; però il particolare che più mi colpisce è ciò che indossa: un vestito, con i bordi ricamati, che prima doveva essere stato candido come la neve, ma ora è sporco di polvere e escrementi. La passo a John, lui la afferra e con estrema cura la pone sugli altri corpi, poi ritorna umano, per qualche minuto rimane fermo a contemplarla, poi si inginocchia e comincia a sistemarla meglio: le scosta i capelli dal viso e gli raccoglie sotto la testa, le posiziona le manine congiunte in grembo e cerca di pulire il vestito; poi si sposta di qualche passo e guarda verso l’alto. Tom capisce le sue intenzioni e fa cadere un po’ di terra, che John sistema attorno alla piccola, formando una tomba separata per lei, per evitare che la lordura del mondo circostante deturpi ulteriormente la sua candida purezza. Poi si ritrasforma e riprendiamo. Continuiamo fino a riempire quasi completamente la buca, poi la ricopriamo. Al termine mi guardo attorno: le strade ora sono vuote; certo ci sono altre migliaia, altri milioni di cadaveri in altre strade, in altre zone, ma almeno qui abbiamo dato a più persone possibili, ciò che è il più possibile vicino ad una sepoltura. Ritorniamo tutti normali e sulle nostre facce si può leggere il dolore, quel dolore che in tutti questi anni abbiamo imparato a ignorare per poter continuare a sopravvivere, e che ora sta cercando prepotentemente di emergere. All’improvviso sento un rumore alle mie spalle, niente più di un fruscio, che però nel silenzio risuona come il rombo di un tuono. Mi volto e vedo una cosa incredibile. Da una baracca sono uscite due figure, piccole, che si muovono rimanendo una attaccata all’altra, avanzando faticosamente verso di noi; sono due bambini, un bambino ed una bambina, che avanzano tenendosi la mano per sorreggersi a vicenda, perché dall’aspetto si capisce che non mangiano da giorni; entrambi hanno nella mano libera un fiore secco. John si avvicina a loro, che non si mostrano per nulla spaventati, delicatamente li prende in braccio e li porta vicino al cumulo, dove loro depositano i fiori. Poi, sempre in braccio a John, con delle voci debolissime, cominciano a cantare; all’inizio cantano solo loro, poi a poco a poco dalle case attorno escono altre persone, che si uniscono alla triste melodia. E infine anche noi ci uniamo al canto, riuscendo finalmente a liberare il nostro dolore, troppo a lungo trattenuto.
  
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