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Autore: Gravirei    31/10/2013    7 recensioni
Dalla storia: "Cominciò come una normale giornata di sole a Dressrosa." Ma come può, per uno come Doflamingo, una giornata essere normale? Questa in particolare si evolverà in un modo del tutto inaspettato, come un fulmine a ciel sereno. Ed ecco che il nostro fenicottero preferito si ritroverà ad affrontare, dopo cinque anni, un passato a cui aveva cercato di scappare. Imparerà che dalle proprie responsabilità non si può scappare?
Genere: Angst, Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Donquijote Doflamingo, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Era passata una settimana ormai da quel disastroso incontro di Marineford.
Una settimana.
Una lunga, lunghissima settimana. Lunghissima, certo, ma fortunatamente (e inspiegabilmente) tranquilla.
 
Dopo essere tornato a casa, Doflamingo aveva immediatamente provveduto a sgridare Hachi per tutto quello che aveva combinato durante l’assemblea e per i danni all’ufficio di Sengoku, dei quali era venuto a sapere tramite una telefonata “a titolo informativo”.
(certo, nessuno sapeva che era colpa di quel minuscolo uragano, né c’erano prove che la indicassero come colpevole, ma il principe di Dressrosa aveva la certezza matematica che fosse stata lei).
Beh, forse sgridare era la parola sbagliata.
Aveva balbettato un’incoerente sequela di «non ho parole» e «non posso crederci», con l’aggiunta di qualche «che figuraccia», un paio di «comportamento oltraggioso» qua e là e, finalmente, un «fila in camera tua».
Comando, questo, a cui Hachi aveva prontamente obbedito, grata se non altro che in casa non ci fosse la presenza di un battipanni a minacciare il benestare del suo povero sederino.
O comunque approfittandosi della confusione estrema che sembrava essersi impossessata di suo padre nell’esatto momento in cui erano entrati in casa, visto che non aveva nemmeno cercato di gettarla da una finestra.
Aveva minacciato di farlo ripetutamente durante il viaggio di ritorno, eh. Senza nemmeno aprire prima la finestra in questione, tra l’altro.
Ma la minaccia era andata a vuoto, come al solito.
E, dopo averla vista svanire nel nulla nella sua cameretta, si era limitato a annegare la sua frustrazione in cinque o sei frappè al cioccolato e un paio di fette di torta al ribes dall’irrisorio contenuto di milleduecento kilocalorie l’una, da brava casalinga disperata.
Com’era possibile, com’era possibile che uno stramaledetto gnomo di cinque anni alto come un ciuffo d’erba cipollina fosse così incontrollabile da rovinargli la vita?
 
La crisi depressiva che lo aveva colpito, comunque, lo lasciò nel giro di un paio di giorni.
Anche perché Hachi, in quei giorni, se n’era rimasta buona buonina, tranquilla, rilassata ed obbediente; insomma, irriconoscibile.
Un’altra persona, al suo posto, si sarebbe insospettita. Si sarebbe chiesta: «Ehi, come mai una mocciosa che fino a tre giorni fa era praticamente una selvaggia adesso è perfettamente calma ed educata?»
Ma Doflamingo preferì non farsi domande. Con Hachi intorno aveva imparato a prendere i pochi momenti di quiete che gli concedeva ogni tanto come una benedizione.
E le benedizioni si ricevono in silenzio.
Sperava semplicemente che potesse durare a lungo, anche perché in quel modo il suo umore era decisamente migliorato. Aveva persino avuto qualche slancio di generosità improvviso.
Questo era preoccupante.
“Spero che non sia una malattia. Non vorrei dover andare dal dottore.”
Ma a quanto pare, quando la pace arrivava a casa Doflamingo, era perché aveva sbagliato strada.
E si sa, quando qualcuno giunge in un posto dove non voleva arrivare, se ne va il più in fretta possibile.
 
Era la sera di una giornata di fine ottobre non meglio identificata.
E lui, sovrano di Dressrosa, se ne stava spaparanzato sulla sua poltrona preferita, a sonnecchiare pacificamente.
Di colpo, però, aprì gli occhi.
Alzò lievemente la testa, l’aria leggermente confusa di chi è stato bruscamente interrotto nel bel mezzo di una pennichella.
Si guardò attorno.
Nulla.
Strano.
Era convinto di aver sentito qualcosa colpirlo alla testa.
“Mah, magari me lo sono immaginato”. E con una scrollatina di spalle, se ne tornò a dormire.
Anzi, no. A dire la verità, quello che fece fu semplicemente richiudere gli occhi.
Appena lo fece, un urlo potente -per  quanto si possa considerare potente la vocetta di una bambina alta suppergiù quanto un paio di cupcakes- gli penetrò nelle orecchie.
Ed ecco che, accompagnata da un sonoro «Kiiii!», un’ombra nera si avventò su di lui come una leonessa affamata su una povera gazzella indifesa in quel d’Africa nera.
Pur essendo decisamente poco religioso, un «MIO DIO, CHE COS’È??» fu d’obbligo in quel caso.
Scattò in piedi e prese a dimenarsi manco lo avesse morso una tarantola, urlando come un ossesso. Si portò le mani al viso e prese a strattonare con forza quella cosa per levarsela di dosso.
Ma niente.
Quell’apparizione demoniaca non lo mollava.
Sembrava un incubo: lo aveva artigliato sulle guance, aveva affondato quelle unghiacce immonde nella sua carne e gli strillava forte nelle orecchie qualcosa in una lingua incomprensibile.
Forse era giunta la sua ora.
Non riusciva neanche a pensare con quella creatura infernale aggrappata alla faccia che urlava come una posseduta: «Papà! Papà!» e-
No, un momento.
Con uno sforzo notevole (e facendosi un gran male tra l’altro) riuscì finalmente a staccarsela di dosso.
E incontrò un paio di enormi occhi azzurri sgranati.
“Ora ho la conferma che questa cosa non è umana. Forse dovrei chiamare l’esorcista.”
E, mentre la fissava con la stessa aria con cui una mucca guarderebbe una locomotiva a vapore, quella gli fece: «Allora, ti ho fatto paura? Dov’è il mio dolcetto?»
Fu mentre cercava di interpretare quella frase apparentemente priva di senso che notò come si era conciata.
«Come…cosa…cosa dovresti essere? La brutta copia di un pipistrello?»
Hachi sgranò gli occhi a dismisura.
«Come hai fatto a indovinare?»
Ah, e chi lo sa.
Forse per quella mantellina frastagliata a mo’ di ali di pipistrello.
O per quel cappuccio che aveva in testa con orecchie enormi e muso da pipistrello.
O per il modo in cui gli era piombata addosso dal soffitto.
Molto da pipistrello.
Ma che diamine, quella bambina pensava davvero che fosse così idiota?
A quel punto forse avrebbe dovuto innervosirsi.
Ma no. Dopotutto aveva fatto così fatica a ristabilire il suo karma. Meglio prenderla con calma.
«Posso sapere il motivo di questa buffonata?»
«Halloween!»
Ah, ma certo.
Halloween.
Quella stupida festa in cui orde di bambini urlanti vestiti da mostri si riversavano per le strade del paese e infastidivano la brava gente bussando alle porte e suonando campanelli in cerca di qualche dolce, pena il lancio di uova o frutta marcia.
Nel suo ambiente questo si chiamava estorsione.
La bambina lo guardava, speranzosa. «Allora? Quando andiamo a fare dolcetto o scherzetto?»
Doflamingo scoppiò a ridere. «Noi non andiamo a fare proprio niente!»
La mollò a terra e si buttò nuovamente sulla sua amata poltrona.
Ma ovviamente nel vocabolario di Hachi la parola “no” non esisteva.
Si arrampicò un po’ a fatica sul bracciolo e si mise a fissarlo insistentemente.
«Perché?»
«Perché è una festa stupida.»
«Perché?»
«Perché solo la plebaglia va a bussare alle porte degli altri per fare dell’accattonaggio, di certo non io.»
«Perché?»
«Perché io sono il principe di Dressrosa, sono adulto e queste cose le fanno solo i mocciosi.»
«Perché?»
Eh no, adesso basta.
Volse lo sguardo verso di lei, irritato da morire da quella sequela di domande inutili.
«La vuoi smettere? Ti ho detto che non ci andremo, chiaro?»
Le puntò un indice a pochi centimetri dal naso.
«E quando Donquijote Doflamingo dice no, rimane no.»
 
«Odio Halloween.»
Impossibile. Lui, il principe di Dressrosa, l’élite per eccellenza ridotto a fare il comune mortale, accompagnando una bambina pestifera, la sua tra l’altro, in giro per il paese.
Che orrore.
Chissà cosa avrebbero detto i suoi genitori se lo avessero visto.
Eccolo lì, schiacciato in mezzo ad una folla di mocciosi sporchi e urlanti, pieni di borse colme di dolciumi e uova marce.
“Promemoria per me: emanare un editto per regolamentare le nascite.”
Hachi non si curava minimamente del suo disgusto. Saltellava allegramente al suo fianco, in mano una zucca vuota da riempire di dolci e ciarlava allegramente.
«Ti piace il mio costumino?» Fece una giravolta. «L’ho fatto tutto da sola, con le mie manine!»
Ah. Ecco perché se n’era stata tanto buona durante la settimana.
Era impegnata a fare la brava sartina.
«La stoffa nera l’ho trovata in un baule in camera tua. Er in buone condizioni! Poi ho preso un paio di forbicione grosse grosse dal cassetto della cucina, mi sono fatta dare ago e filo da una delle signorine che girano sempre per casa vestite da donnacce -è stata molto gentile, sai? E-»
«Aspetta, aspetta», la interruppe Doflamingo, cercando di fermare quella sfilza di informazioni inutili. «Hai trovato della stoffa nera nel mio baule? Io non compro roba sfusa!»
«Oh? Sfusa? Come il formaggio? A me piace tanto tanto il formaggio sfuso! No, comunque ho ritagliato la mia mantellina da una grossa giacca!»
L’uomo si congelò all’istante.
“Oddio. La mia giacca di sartoria. Ma io la strangolo. La strozzo!”
Niente da fare. Troppi testimoni.
Riprese a camminare.
“Però, devo ammettere che Dressrosa si offre al suo meglio durante le festività insulse come questa.”
Ed era vero.
Alle case erano appese ghirlande gialle e arancioni; alle finestre si intravedevano tante zucche intagliate che, sorridendo, illuminavano le strade. Il porto poi era meraviglioso. Tanti lumini, messi in acqua grazie a barchette di legno, illuminavano il mare, facendolo sembrare una distesa di punti di luce.
Erano in giro ormai da un paio d’ore e a piedi avevano percorso quasi tutto il paese.
“Beh, prima finiamo prima me ne tornerò a casa. E finalmente questa buffonata avrà fine.”
E meno male, perché i suoi poveri piedi ormai lo stavano implorando di farla finita.
Le scarpe nuove ti uccidono, eh.
Si voltò verso la bambina, che aveva lasciato un po’ indietro.
«Su, muoviamoci, mancano solo due ca-»
Rimase un po’ interdetto.
Mmh. Doveva essere sembrato piuttosto stupido alla gente che stava lì attorno.
Parlare da solo è sintomo di disturbo mentale, il più delle volte.
Ecco, bene. Non ci era stato attento a sufficienza.
E ora si ritrovava a dover cercare una nana in mezzo ad una foresta di nani.
 
Hachi non era una bambina stupida.
Beh, no, non è vero. Lo era, lo era eccome.
Però era sveglia.
Si era accorta subito che suo padre non era affatto interessato ad accompagnarla a fare dolcetto o scherzetto, e non era affatto divertente obbligarlo in quel modo.
Quanto può essere divertente fare qualcosa che ti piace con qualcuno a cui invece non piace per nulla?
Esatto.
Zero assoluto.
Così, al primo momento di distrazione, ne aveva approfittato e aveva cambiato strada.
Senza nemmeno avvertirlo. Perché avrebbe dovuto? Sarebbe tornata prima che se ne potesse accorgere.
Almeno, lo sperava.
Attraversò un vicolo stretto e poco illuminato, ritrovandosi davanti una strada che conduceva fuori dal paese. Era un sentiero di terra, nulla di così interessante in sé. Si inoltrava nel buio e non si capiva bene dove arrivasse.
Oh, la curiosità, che cattiva consigliera!
Dietro di lei stava il centro, sicuro e pieno di lucine.
Davanti a lei, l’ignoto.
La bambina strinse forte a sé la zucca piena di dolci che aveva in braccio.
«Forza, zuccotto bello. Andiamo.»
E avanzò nel buio della notte.
 
Una leggera nebbiolina, quella tipica del mese di Novembre, aleggiava attorno agli alberi, tristi e spogli. Sembrava quasi che la natura si fosse vestita per Halloween anch’essa.
Una casa, fatta di legno, troneggiava nel bel mezzo di nulla, circondata da una staccionata rotta.
Forse un tempo era stata una bella casa. Due piani, delle finestre grandi, un giardino.
Non un suono si udiva. Non una luce accesa.
Nulla.
“Non posso credere che sia davvero venuta qui.”
Davanti quello scenario da film dell’orrore di seconda categoria, Doflamingo storse il naso.
“Questa è l’ultima volta che la porto in giro senza guinzaglio.”
Aveva passato una bella mezz’ora a cercarla, perdendo tempo a chiedere informazioni a persone a caso, che però non facevano altro che guardarlo stranite e scuotere la testa.
Nessuno l’aveva vista.
Abbastanza normale. Come se in un banco di sardine lui ne cercasse una in particolare. La risposta era sempre la stessa: «No Signore, non l’abbiamo vista. D’altronde, qui è pieno di bambini.»
E come dare torto a quei poveracci?
Dopo l’ennesima risposta negativa, quando ormai era sull’orlo di una crisi di nervi, si era forzato a fermarsi e aveva fatto un bel respiro profondo.
“Va bene, va bene. Calma. Ragioniamo, Doflamingo. Se fossi una marmocchia rompiscatole e stupida a cui piace da morire Halloween, dove andrei?”
E si era dato una bella manata.
Da anni si parlava di quella catapecchia di legno, alla periferia estrema di Dressrosa. Comprata da chissà chi, abitata una sola volta, mai più ristrutturata.
Si sa quanto la gente ami inventarsi storie su queste cose.
Si vociferava addirittura che fosse infestata da un fantasma.
Giorni prima, aveva sentito una delle sue cameriere riferire ad un’altra che, a quanto pare, molte persone del paese avevano visto un bambino, tutto vestito di bianco e macchiato di sangue, aggirarsi attorno a quella casa. Lì prima viveva una famiglia, che durante la notte tra il 31 Ottobre e il 1 Novembre era stata massacrata in modo brutale, scuoiata e disossata come dei maiali da macello.
Solo il cadavere del figlio più grande mancava all’appello.
Ma non lo avevano più ritrovato. 
Bah.
Tanto lui negli spettri mica ci credeva.

Così amava ripetersi.
Entrò nella casetta, aprendo piano la porta, che scricchiolò rumorosamente.
“Che cliché terribile.”
Dentro era tutto buio. Si intravedeva a malapena una rampa di scale che saliva, presumibilmente alla soffitta. Per il resto, solo polvere, ragni e topi.
«Hachi?», la chiamò. La sua voce rimbalzò sulle pareti come un eco, ma nessuno gli rispose.
Rise, nervoso.
«Guarda che lo so che ci sei. È inutile che fai la stupida. Senti, sono stanco e voglio tornare a casa. Muoviti, andiamo.»
Certo, non la sopportava, ma aveva degli obblighi legali verso di lei. E di certo non la stava cercando perché era preoccupato o qualche altra stronzata del genere.
Ma per favore.
Senza quello gnomo irritante probabilmente la sua vita sarebbe migliorata di colpo.
Solo che…se le fosse successo qualcosa…
…sarebbe stato di certo il primo sospettato. Già sentiva la gente: «Sì agente, quell’uomo lo abbiamo visto! Si vedeva lontano un miglio che odiava a morte quella bambina!»
Grazie ma no grazie.
Sentì come uno scalpiccio provenire dal piano superiore, che fece cadere della polvere dal soffitto.
L’uomo sbuffò. «Molto spaventoso, davvero. Ora vieni fuori, andiamo.»
Ancora silenzio. Cominciava a diventare davvero opprimente.
Iniziò a sentirsi a disagio.
Forse si era semplicemente sbagliato e non era lì.
Fece un passo indietro.
“Forse è meglio andarsene.”
E fu in quel momento che qualcosa piombò su di lui dal soffitto.
 
Quell’apparizione demoniaca non lo mollava.
Sembrava un incubo: lo aveva artigliato sulle guance, aveva affondato quelle unghiacce immonde nella sua carne e gli strillava forte nelle orecchie qualcosa in una lingua incomprensibile.
Forse era giunta la sua ora.
Non riusciva neanche a pensare con quella creatura infernale aggrappata alla faccia che urlava come una posseduta: «Papà! Papà!» e-
No, aspetta. Aspetta.
Déjà-vu.
«Hachi!», urlò, levandosela dalla faccia.
La bambina ululò: «Sono la terribile bambina volante! Tremate, sciocchi mortali! Aprirò le vostre teste e mi prenderò i vostri cervelli a meno che non mi diate tutte le vostre scarpe destre!»
Doflamingo tirò un sospiro di sollievo. «Santa miseria, credevo che fossi cascata in qualche buco!»
Il sollievo però fu immediatamente sostituito da un moto d’ira.
«Dico, ma sei scema? Tralasciando il fatto che mi hai quasi fatto morire d’infarto, hai idea di quanto tempo ho perso a cercarti in giro? Mi hanno preso tutti per scemo! Se lo fai un’altra volta giuro che ti appendo al soffitto, ma in una gabbia fatta di agalmatolite! E col cavolo che ci esci!»
Se la issò su una spalla come un sacco di patate.
«Sei in un mare di guai. Mi hai sentito? Guai grossi!»
E continuò a borbottare di punizioni e minacce varie fino a casa, dove spedì a letto la bambina, dopo averle promesso un castigo di proporzioni galattiche.
 
Oh, Doflamingo, se solo non fossi stato così arrabbiato!
Ma d’altronde non sei mai stato un grande osservatore, vero?
Forse, per un secondo, ti sei chiesto dove fosse finita la zucca piena di dolci di tua figlia, ma hai accantonato in fretta la domanda.
Forse ti è sembrato strano che lei non facesse i capricci per andare a riprenderla, ma ti sei semplicemente detto che forse aveva capito di aver esagerato.
 
Forse, forse…
 
Però forse Don, se tu fossi stato un pochino più attento, avresti visto una figuretta, con accanto ai piedi uno zuccotto zeppo di ben di Dio, salutare Hachidori dalla finestra della soffitta, e lei rispondere al saluto sorridendo.
Una figura che di umano aveva poco o niente.
Una figura con la testa coperta di pelo bianco, due occhi segnati del nero più nero e un bisturi imbrattato di sangue in mano.

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Angolo dell'autrice: potre inventarmi le scuse più assurde per giustificare la mia lunghissima assenza da EFP. Ma non lo farò perchè...perchè no, non ne ho voglia xP. La verità è che la scuola mi ha tenuta decisamente impegnata e che ho avuto un nuovo arrivo in famiglia (un cane fantastico :3). Ma non mi sono affatto dimenticata di voi! Vi ringrazio per tutte le vostre recensioni, a cui mi metterò a rispondere il prima possibile (detesto chi non risponde alle recensioni, sembra che non gliene freghi nulla, mentre a me fanno molto piacere!) ed eccovi un bell'episodio su Halloween, tutto per voi! Spero vi piaccia!
...e spero che abbiate capito chi era il fantasma.
Oh, beh. Alla prossima (speriamo presto)!
Love you all!
Gravirei
P.S. Il prossimo capitolo avrà due ospiti che abbiamo già incontrato...ma le risate sono comunque assicurate!...spero.
  
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