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Autore: SignorinAnarchia    03/11/2013    0 recensioni
Tre uragani che s'incontrano, si scontrano, in un appartamento in uno di quei quartieri "periferici, ma non troppo", di Roma. Tre uragani che hanno nomi e fattezze di donna. Tre ragazze che sembrano grandi ma son piccole e che si scopriranno incredibilmente fragili e paurosamente capaci di ribellarsi.
Viste e raccontate dagli occhi delle persone intorno a loro, il loro motto è "lasciare un segno, sempre, nel bene e nel male".
C'è Anita, con le sue curve mozzafiato e i suoi capelli che sono onde morbide; c'è Giada detta Skiz, cresciuta a pane e Sex Pistols, con i suoi tic e il suo nervosismo; c'è Francesca che ha il faccino pulito ma sa correre come un fulmine dalla polizia.
Diverse, agli antipodi, ma scopriranno che non riescono più a fare a meno l'una dell'altra.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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1.

 
Anita
 
Questa casa è fredda. Dico mentre lui si riveste. Fredda.
Lui si gira, mi guarda, abbottonandosi i jeans Calvin Klein. Alza un sopracciglio, sorride malizioso. Com’è che si chiamava?
“Non l’ho scaldata abbastanza?” mi fa. Adesso s’infila la maglietta e copre gli addominali scolpiti, forse la sua unica parte bella. Sorrido svogliata, ma lui tanto sa già che deve andarsene via subito, immediatamente. E che le battutine sono inutili.
Mi alzo seminuda, apro le persiane e mi lascio accecare dalla luce di questo pomeriggio estivo. Trovo una sigaretta che ho rubato a Giada e la fumo con gusto, a lui mancano solo le scarpe.
“Hey tesò” dice in coattese. “’TTTaapposto, se?”
“Prego?” lo guardo un po’ male. Lui sorride e mi da un buffetto leggero sulla guancia.
“Che figa che sei. Lunedì vado a Ostia co’ ‘npo’ de amici, te và de venì? Famo  er bagno.”
Sbuffo via fumo e noia. “Ci faccio una pensata” lo liquido. “Mo’ vai però, eh? Devo andare a lavoro.”
Lui indugia, perde tempo, forse ho alzato un po’ la voce ma sono nervosa e il sesso e la sigaretta non mi stanno aiutando. Si offende, mi lancia contro qualche insulto sibilato, mi guarda come un cane randagio che sa che pure se lo accarezzi comunque non te lo porti a casa. E se ne va, finalmente, mentre butto via ‘sto mozzicone. Come fa quella a fumarsi queste maledette sigarette spacca polmoni, io non lo so.
Apro la porta e sbircio in corridoio, cauta come una gatta, dopo che lui ha sbattuto la porta. Come cazzo si chiamava? Decido di non pensarci e metto un piedino coraggioso oltre la linea di confine. Risatine proveniente dalla zona divano. Mi fiondo in bagno come una scheggia e metto un po’ di musica dal cellulare. Rihanna canta Diamonds, io mi infilo sotto la doccia e lavo via l’odore di quel tizio dal mio corpo. Mi sento ancora eccitata, nonostante tutto, e la cosa mi fa innervosire ancora di più. Mi do un paio di schiaffi da sola, sospiro, insapono ogni minuscola parte del mio corpo.
 
Mi rivesto bene, con cura, di rosso, asciugo i capelli quanto basta. Tanto è caldo, si asciugano da soli. Un velo di crema. Un po’ di trucco qua e là. ed eccomi, saluto Skiz che parla al telefono con non si sa chi, parla sempre al telefono con qualcuno. E ride, ride sempre, mai uno che la faccia piangere. Però con noi tiene sempre il muso.
Non è felice questa ragazza. Nasconde occhi bui sotto risate cafone. Non siamo felici, noi tre. Sarà ‘sta casa maledetta.
Lei ricambia con un sorriso un po’ storto, una sbuffata di fumo, un pollice alzato con occhiolino.
 
Sto a passo svelto, le cuffie nelle orecchie, quando il portinaio mi ferma. Lo guardo dall’alto delle mie Louboutin farlocche, con un sopracciglio perplesso.
“Una lettera, signorì.”
Improvvisamente sento un calore allo stomaco. Odio le sorprese. Non so mai come reagire. Forzo un sorrisetto. Gli sfilo la busta dalla zampa e me la ficco in borsa, neanche dico grazie e son già via, con la mia falcata troppo elegante per questo quartiere, lascio nuvolette rosa di profumo dietro di me, i capelli che ondeggiano e i ragazzi ai biliardini che fischiano. I vecchi smettono per un attimo di giocare a briscola fuori dai bar e mi guardano dalla testa ai piedi.
Prendo il tram.
Scendo in metropolitana, è agosto, è praticamente deserta. Una famiglia giapponese controlla le indicazioni e cerca di capire quale sia la prossima fermata. Io mi siedo, mi scompongo, sento che nella borsetta c’è un peso gigante.
Papà.
Prendo la busta. L’indirizzo è quello della casa a Milano. La apro con violenza, straccio la busta e la getto a terra, inizio a singhiozzare. I giapponesi mi guardano sospettosi, mentre mi prendo i capelli tra le mani.
Bastardo bastardo bastardo bastardo
E io non sono nient’altro che la figlia di un bastardo figlio di puttana.
Con mano tremante mi asciugo le lacrime e prendo la lettera. Leggo parole di scuse, parole melense, parole, parole, parole, parole. E indovinate un po’? ancora parole.
La rabbia sostituisce il pianto, ora. è una routine. Lui sa che non risponderò, si consolerà tra le braccia di qualche troietta della mia stessa età, o al bancone di qualche bar chic, non voglio saperlo, non voglio saperne.
Sistemo il mascara, butto quei fogli di promesse stupide sui binari. E che un treno ad alta velocità se li porti via. Ai fogli, a lui, ai baristi in papillon e alle sue puttane.

 
Francesca
 
Samu butta a terra la bomboletta, si sfila la mascherina dal muso imbronciato. E anche questo vagone porta in giro per l’Italia il suo segno colorato. Il sole è alto, altissimo, ci brucia la pelle e le sigarette diventano più pesanti, più soffocanti.
Si siede, gambe incrociate, vicino a me. Gli passo lo spinello. Rimaniamo così, fermi, in questa stazione di provincia deserta, fermi come questo treno, fermi come l’aria e tutto il resto. Il silenzio diventa assordante.
Perché Samu non parla, e ti trascina nel suo silenzio. Samuel non parla con le parole, parla con gli occhi, con le mani. Non parla da un po’, quando l’ho conosciuto aveva una bella voce calda, anche un po’ da sbruffone. Da quando ha deciso di non parlare più, cerco di riformulare nella mia mente tutte le sue frasi, a volte leggo un libro, o una frase per strada, e il mio cervello legge con la sua voce. È come un allenamento. Per non dimenticare.
Adesso guarda il suo disegno a spray. È una ragazza e mi somiglia, poi ha scritto in grande il suo nome da writer. È soddisfatto. Poi mi guarda e cerca un parere.
“E’ molto bello.” Sorrido. “Sembro io.”
Sorride e annuisce. Ha le mani rovinate, piene di calli, non mi accarezza perché ha paura di farmi male. Ha delle piccole rughe intorno agli occhi. Da quando non parla sorride di più. Ha la faccia da cucciolo abbandonato. Ce l’aveva anche prima, ma adesso, con tutte quelle parole negli occhi…
Decide che è ora di andare via e andiamo, prendiamo tutto, zainoni da scalatori di montagna, ci stiracchiamo. Torniamo a cercare un po’ di vita e un po’ di casino.
Le stazioni morte sono casa nostra, ritorneremo a dipingere vagoni, ma adesso abbiamo altro da fare. Ho del fumo da vendere e me lo tengo al sicuro nel reggiseno, e un po’ nel calzino sinistro.
Lui mi prende per mano, e lo sento pensare, pensa a quello che penso io. Pensiamo a questo silenzio, che ci sta facendo impazzire.
Che non siamo più gli stessi, ce lo si può leggere in faccia. Ma c’è dell’altro. c’è stato qualcosa che lo ha reso così, qualcosa che mi ha incatenata di conseguenza a lui. Nessuno lo sa, nessuno, noi eravamo Francesca e Samuele, belli e distrutti, lui coi suoi dreadlocks biondi e io col mio faccino da ragazzina per bene, e sorridevamo un sacco con mille denti e avevamo le guance rosee e piene di vita. C’erano le canne e le birre e tantissime risate e gli amici e fare l’amore nei cessi dei bar e scavalcavamo transenne e lui mi accarezzava i capelli e lui amava i miei capelli.
Quando siamo venuti dalla provincia a Roma, le nostre vite si sono capovolte. E adesso non siamo più belli, siamo distrutti e basta. Io l’ho tradito, ma anche lui. Io con una scopata, lui con una siringa. Il mio amante è quello di una sera. La sua amante ha un nome, una popolarità da prostituta, è facile, troppo, facile da possedere. Ma poi è lei che ha posseduto lui. Me lo ha portato via,ma non ha ancora vinto. La guerra è iniziata da un mese. E ho come l’impressione che durerà ancora a lungo. E ogni notte, ho paura di addormentarmi, perché sogno il mio uomo morire, e ogni sogno è sempre più reale.
E ogni notte passata con lui, la passo con la mia mano sul suo torace, per sentire il suo respiro, perché ho paura che smetta di fare anche quello.
Come lui fa sciopero di parole, io faccio sciopero di sogni.
Perché quella puttana gli sta avvelenando le vene, e mi sta avvelenando i sogni, tutti i miei sogni di una vita migliore.
 

  
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