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Autore: SignorinAnarchia    27/10/2013    0 recensioni
Tre uragani che s'incontrano, si scontrano, in un appartamento in uno di quei quartieri "periferici, ma non troppo", di Roma. Tre uragani che hanno nomi e fattezze di donna. Tre ragazze che sembrano grandi ma son piccole e che si scopriranno incredibilmente fragili e paurosamente capaci di ribellarsi.
Viste e raccontate dagli occhi delle persone intorno a loro, il loro motto è "lasciare un segno, sempre, nel bene e nel male".
C'è Anita, con le sue curve mozzafiato e i suoi capelli che sono onde morbide; c'è Giada detta Skiz, cresciuta a pane e Sex Pistols, con i suoi tic e il suo nervosismo; c'è Francesca che ha il faccino pulito ma sa correre come un fulmine dalla polizia.
Diverse, agli antipodi, ma scopriranno che non riescono più a fare a meno l'una dell'altra.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Vivevano in un appartamentino in uno di quei quartieri periferici ma non troppo, a Roma. Mi ricordavano una versione sgangherata delle Piccole Donne della Alcott. Ma non erano sorelle, né amiche, tra loro zero legami. Per questo mi piaceva osservarle, perché diverse, tre universi totalmente incongruenti e distanti anni luce che condividevano lo stesso tetto, mangiavano allo stesso tavolo – solo in rare occasioni, però - , usavano lo stesso gabinetto e si scambiavano assorbenti come le figurine dei calciatori.
Scoppiavano litigi furiosi e risate che erano terremoti, là dentro. Scoppiavano con un niente. Volavano bicchieri e telecomandi, volavano baci abbracci e sorrisi. C’erano i pranzi silenziosi, i pranzi con nessuna seduta a tavola, i pranzi in cui c’era una totale smania di raccontarsi tutto, di aprirsi e di confrontarsi.
Mi piaceva creare, quando ancora non le conoscevo, una loro ipotetica personalità basandomi solo sul modo in cui camminavano, sul modo con cui mi chiedevano se per caso fosse passato Tizio o Caio a cercarle, sul modo con cui spulciavano tra la posta cercando qualcosa di interessante che non fossero bollette. Una lettera da qualcuno lontano.
Eppure, per quanto decisamente poco semplici erano nella mia immaginazione, nella realtà si son rivelate ancora più complesse e piene di sfumature. E io ero solo uno stupido portinaio sulla soglia dei trent’anni che faceva settimane enigmistiche e veniva sfruttato dalle vecchiette.
Più di tutte presi in simpatia la punk, perché nonostante l’impatto esteriore parlava bene ed aveva modi gentili e occhi folli e intelligentissimi. Però esteticamente lasciava un po’ a desiderare, si grattava continuamente la testa, credevo avesse i pidocchi ma scoprii che era solo un bizzarro tic nervoso. È che non sono un grande fan dei maschiacci.
Avrei voluto farmi quella biondona pazzesca che faceva la commessa in uno di quei negozi con luci accecanti e musiche assordanti, quella sì che era femmina. Usciva coi tacchi alti e un rossetto rosato, mai un capello fuori posto, col fisico morbido ma assolutamente in forma. Aveva i fianchi larghi come una che è nata per diventare madre. Era la nipote della vecchia padrona dell’appartamento, e forse cercava coinquiline non per questioni economiche ma per questioni di noia.
Poi invece finii a letto con quella che vendeva il fumo nel parchetto poco distante, e fu così che le conobbi meglio.
 
Si chiamava Francesca e aveva i capelli di un rosso castano bellissimi, sembravano quei fili di rame che i rom rubano dai cavi delle ferrovie. Sempre sciolti o legati male con elastici slargati che non li contenevano più.
“Hai un elastico? Te lo ridò. Senti ma all’appartamento mio c’è qualcuno?”, fu la prima cosa che mi disse. Ho sempre portato i capelli lunghi fino alle spalle, talvolta li legavo, soprattutto quel giorno, che era pieno luglio romano ed erano le tre del pomeriggio. Sacrificai la mia nuca già sudata ricoprendola di miei capelli, quando li sciolsi e le porsi il mio elastico. Lei ne avrebbe avuto più bisogno.
“Tranquilla non ho i pidocchi. E se mi dici qual è l’appartamento tuo, magari ti do una mano.”
A quel punto aveva cominciato a cercare nelle tasche di Mary Poppins qualcosa, poi nello zaino, poi nella tasca più esterna del gigantesco trolley. “Ecco, un attimo” le si formarono delle strane rughette mentre aguzzava gli occhi cercando di leggere una scritta in geroglifico su un foglietto pescato da chissàddove. “Anita. Cerco Anita Non-riesco-a-leggere-il-cognome. Non so, una bionda tutta curve, hai presente?”
Come no! “Ah sì… quella che vive con la punk…” avevo detto con un mezzo sorriso. Sembrò accigliarsi. Avrebbe dovuto, presumibilmente, vivere in un condominio che aveva un portinaio capelluto probabilmente di estrema sinistra e con gli occhi azzurro-psicopatico. Sotto lo stesso tetto con una biondona superfiga e, udite udite, una punk del nuovo millennio. Deve costare poco vivere in quell’appartamento, pensai, visti questi due soggetti che andranno ad abitarci. Grazie, mi risposi da solo nella mia mente, paga tutto la bionda. “No, non c’è nessuno, credo. Ho attaccato a lavorare poco fa. Non so.”
“Piano?”
“Eh? Sì, sali piano, la gente riposa.”
“No,dico, che piano è?”
“Ah. Terzo. Non c’è l’ascensore.”
“Galante, il ragazzo. Aiutami con la valigia almeno. Eccheccazzo.”
 
Mi aveva offerto un caffè e uno spinello. Non avevo rifiutato e nel frattempo mi guardavo intorno. Però non sapeva dove fossero le cose per fare il caffè e quindi lo feci io, anche se in effetti anche per me era la prima volta lì dentro. Faceva schifo. Ma tanto non lo bevemmo. 
La casa era un casino, e Francesca si guardava intorno curiosa come una bambina. Scoprii che aveva le lentiggini e gli occhi neri. Io guardavo una foto di una band con altissime creste e chiodi di pelle, attaccata al frigo. C’era una scarpa nera scamosciata con tacco altissimo abbandonata sotto il tavolo, un grosso reggiseno sul divano. Immaginai Anita toglierselo senza sfilarsi la maglia –ah, le magie delle donne! - , stanca, sul divano, la sera, ritornata meravigliosamente scalza dopo una giornata sui trampoli. C’era una sciarpa in fantasia tartan sulla maniglia di una porta. Mozziconi di sigarette ovunque. Bottiglie di Tennent’s o Ceres vuote. Il vino dell’eurospin.
“Bel porcile, eh.” Dissi.
Lei annuì fumando, l’odore d’erba bruciata che ci si attaccava addosso come colla. C’era un biglietto “x Francesca” sul tavolo ma non lo lesse, non lo vide, oppure lo evitò. Comunque nulla di che, c’era scritto solo che poteva fare il cazzo che gli pareva e che s’era beccata la camera piccola in fondo al corridoio e qualche smile con la linguaccia che le augurava una buona permanenza. “Anita – e dalla ‘A’ di Anita, cerchiata, a mo’ di A anarchica, si capiva perfettamente chi fosse l’artefice del biglietto – torna alle diciassette, io non lo so.”
Era improvvisamente diventata silenziosa e cercavo di rompere il ghiaccio in tutti i modi. Cosa farai? Studi ancora? Lavori? Hai il ragazzo?
Si  era sciolta i capelli e rispondeva a monosillabi, il minimo indispensabile. Mi aveva chiesto di portarla a cena fuori che voleva vedere un po’ meglio la città.
 
Fu così che entrai nelle loro vite, da semplice spettatore. Questo succedeva un anno fa, sono cresciute, nel frattempo. E io sono diventato ancora più un ragazzino, un Peter Pan con tre Wendy. O forse loro erano delle eterne Peter Pan, io Wendy, nella loro meravigliosa e caotica Isola-che-non-c’è mentale.
  
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