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Autore: RainingStars    03/11/2013    1 recensioni
Non c'è battaglia più spietata di quando il vincitore diventa vinto, e il vinto vincitore.
Ma come si stabilisce chi ha ottenuto la vittoria? Chi trova l'antidoto al dolore?
Trionfa chi smette di contare i corpi nemici sparsi al suolo e inizia a riedificare la speranza, o chi si versa veleno sulle ferite per riaccendere l'odio?
***
Ambientata subito dopo la 10x02 “Tradimento" e incentrata su come Beast Boy e Terra affrontano loro stessi e le scelte a cui ormai sono vincolati.
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Fatemi sapere cosa ne pensate, sono bene accetti tutti i pareri e i consigli!
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Beast Boy, Terra
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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BB-Terra La stanza era avvolta dall’oscurità, impercettibilmente rischiarata da centinaia di tremolanti puntini fluorescenti che galleggiavano sul soffitto; il silenzio governava dal suo trono ovattato, avversato solo da qualche sospiro sovvertitore. Sentiva il freddo del metallo fra le zampe e il calore delle lacrime, rimaste imprigionate nel pelo che gli ricopriva il muso canino, le membra intorpidite e la mente sfiancata dalla pellicola che continuava ad essere proiettata, ancora e ancora, all’interno delle palpebre serrate.
“Ti fidi di me?”
“Più’ di chiunque altro”
Una risata, un abbraccio, dello zucchero filato, le luci della ruota panoramica.
Due stelle tornano a brillare, sente il suo odore inebriargli i sensi, le labbra così pericolosamente vicine, a un sospiro di distanza.
Pronti a respirare insieme come un unico polmone.
Quella voce metallica gli risuona nelle orecchie, gli occhi increduli.
Rabbia primitiva, il rame in bocca.
Un’esplosione, confusione e diniego.
Specchi rotti, schegge nella carne.
 Dolore di una lotta disperata.
Verità violentata.
“Sei sola”
Tenebre.
Uno spasmo viscerale lo riportò alla realtà, con uno scatto si ritrovò seduto,  gli occhi sbarrati e sudore freddo a imperlagli le sottili labbra ora nuovamente umane. Arrivò carponi alla fine del letto, poi si sporse in avanti il più possibile, quasi fino a cadere giù, per raggiungere il cofanetto a forma di cuore, che era stato sbalzato a terra dal brusco movimento. Se lo poggiò in grembo e sollevò il coperchio, guardandosi nello specchio al suo interno: Occhiaie scure gli contornavano gli occhi arrossati dal pianto che gli rimandavano lo stesso sguardo, vacuo e spento. Si portò una mano al volto tastandosi una guancia, giusto per assicurarsi di non essere solo l’ennesima ombra fluttuante in quella stanza dei rimpianti.
 Si alzò lentamente, come se ogni arto fosse di piombo, e si trascinò cercando di non inciampare nel buio fino ad un basso cassettone, su cui era stato ritratto il deserto. Tese le dita verso uno dei quattro cassetti, ma la mano rimase penzoloni a mezz’aria. Sopra alla cassettiera posava una cornice, una semplice  e sottile cornice nera, ma, attraverso lo strato di polvere alzatasi durante il combattimento della notte precedente che la ricopriva, si potevano intravedere due macchie di colore: giallo e verde. La prese con mano tremante e spazzò via lo sporco. Un singulto lo costrinse a distogliere lo sguardo dalle facce sorridenti e immobili custodite dalla cornice. Respirò a fondo, serrando gli occhi, il più stretti possibile.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Arricciò il labbro superiore, digrignando i canini appuntiti.
Come se funzionasse, ripetersi parole vuote.
Infatti, sono un veleno dal dolce sapore, ingannevoli.
Sospirò profondamente e rimise la foto al suo posto;  aprì il primo cassetto, dentro c’erano pochi abiti: qualche tuta, un jeans scolorito, un paio di top e due felponi.
Vi passò sopra i polpastrelli con esagerata delicatezza, come se, anche loro, potessero spezzarsi ; sollevò una delle felpe: era giallo senape, esageratamente larga e scolorita qua e là in prossimità delle cuciture.
Se la avvicinò al volto, inspirandone il profumo.
Come in una stramaledetta commedia per femminucce.
Un fruscio lo distolse dal prezioso capo d’abbigliamento che teneva fra le mani, facendolo voltare:
La figura in piedi nel corridoio, dietro alla cui solita impassibilità si nascondevano rabbia e dolore, attese sulla porta, in segno di rispetto, finché non le fu fatto cenno di entrare.
Si mosse cauta nella stanza, con pennellate di disagio e disgusto negli occhi, senza però mai abbandonare la propria compostezza, fino a raggiungere il letto, dove si sedette stando ben attenta a mantenere la maggior distanza possibile dal cofanetto a forma di cuore.
E lì rimase, seduta, immobile, senza proferir parola, ad osservarlo.
Passarono secondi, attimi, minuti.
Ma mai si girò a guardarla.
Mai, fino a quando non ebbe raggruppato col cucchiaino il resto di se.
Devo ricostruire.
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Azzurro e oro le arricchivano il volto dall’espressione corrucciata che la osservava di rimando dallo specchio: opaco e macchiato, segnato da crepe in un angolo e scheggiato qua e là. Un mano affusolata si levò e andò ad accarezzare, delicata, la chiazza violacea che spiccava su uno zigomo dalla pelle cerea. I suoi delicati lineamenti si contorsero in una smorfia di dolore. Ma non erano certo i lividi a far sussultare i suoi nervi, perché, quelli, sarebbero presto svaniti, mentre le parole, loro sarebbero rimaste seppellite dentro di lei e sarebbero tornate a riecheggiarle nella mente; a tormentarla, ad alimentare il fuoco che le bruciava carne e ragione. Appoggiò le mani sul mobiletto metallico, con incastonato un vecchio rubinetto, posto sotto allo specchio e respirò a fondo cercando di schiarirsi la mente, offuscata dai troppi avvenimenti, irrotti  nella sua vita come tante piccole calamità.
Chiuse gli occhi, svuotò i polmoni e lasciò il timone alla sua mente.
Fiducia insanguinata.
Scappa, ma il suo dovere riflesso in uno specchio le schiaccia il petto.
Fugge, bastano delle foto per dimenticare, basta una giostra per non pensare.
 Basta una promessa per respirare insieme.
Ma dalla realtà non si fugge.
E’ inerme.
Quale fiducia devo spezzare?
Verità rigettata.
Specchi, specchi.
Riflessi, rilessi.
Non bastano parole a rimediare?
Schegge di una promessa in frantumi.
“Sei sola”
Tenebre.
Ora, una calma malsana la pervadeva. Attraversò la stanza fino ad arrivare al tavolo, anch’esso metallico, pieno di carte e ordigni e congegni di vario tipo. Afferrò nel palmo della mano un piccolo oggetto rotondo e giallo, con in cima una spessa  e bassa antenna.  Passò il pollice sulla “T” impressa in bianco sul nero dello sportellino e soppesò il comunicatore passandoselo da una mano all’altra più volte. Non era il suo: serviva per monitorare i suoi cari, vecchi compagni; quello era del suo vero e fedele ed  unico amico. Osservò ancora il piccolo trasmettitore poi, scrollando le spalle e incurvando le labbra in un ghigno, lo frantumò nel proprio pugno, non lasciando altro se non pezzi di plastica e circuiti rotti.
Rilassò le dita e lasciò cadere i frantumi sul tavolo. Rimase qualche secondo ad osservarli, lo sguardo vacuo ed una crescente compiacenza alimentata dall’disprezzo nascosta dietro alle iridi ghiacciate.
Con calma ritornò davanti al rubinetto e accese l’acqua, mettendo le mani sotto al getto gelato per lavare via il poco sangue che fuoriusciva da un taglio sulla mano. Prese il frammento di vetro un tempo appartenuto allo schermo del comunicatore e lo tirò via, senza battere ciglio.
Osservò il sangue gocciolare nel lavello e poi sparire giù per lo scarico.
Tanti, i ricordi che le turbinavano nella mente, ma non permise a se stessa di cogliere la loro malinconia.
Sei padrona della tua mente, decidi tu.
Sei padrona della tua mente, decidi tu.
Sei padrona della tua mente, decidi tu.
Rilassò i muscoli e riaprì gli occhi, che nemmeno sapeva di aver serrato.
Come se non fosse vero, che la verità non si cambia.
Infatti, la verità si manipola, inconsciamente.
Sfilò il fermaglio a forma di farfalla e lasciò che una ciocca di capelli le ricadesse sul volto, coprendole un occhio.
Più somigliante al maestro, più vicina alla disumanità, più simile a ciò che voglio essere.
Si asciugò le mani su di un asciugamanino bianco slavato e rimase ad osservare la stanza vuota, vuota come al solito. Vuota come il suo letto, che il suo mentore lasciava il prima possibile, compiaciuto mentre attraversava la camera e si chiudeva la porta alle spalle, senza mai rivolgerle lo sguardo.  
Sparpagliò se stessa  come le carte in un casinò.
Eppure, si sentiva comunque meno sola di quando era amata.
Devo sterminare
  
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