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Autore: Ivola    04/11/2013    4 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Ho fatto presto, molto strano.
Devo essere sintetica perché ho pochissimo tempo a disposizione.
Allora. Sono felicissima che Blur abbia raggiunto le 60.000 parole su Word e tra pochissimo le 700 visualizzazioni del prologo. Sul serio, per me è elettrizzante, mi dà una carica assurda.
Questo è un capitolo molto malinconico, e il carillon alla fine lo dimostra (tra parentesi, me lo sono immaginata un po' come questo), oltre alla debolezza sempre più evidente di Klaus. 
Di fondamentale importanza: la frase che dice Ben a circa a metà capitolo è ungherese, perché è la lingua di sua madre e lui l'ha imparata quando era piccolo. Ovviamente, mi verrebbe da dire, ma forse per chi legge non è tanto ovvio (?), il significato delle parole è un altro... e se volete, cercatevelo sul traduttore. Libera scelta, io vi lascio con questa dolce suspance.
Quel flashback in corsivo lo dovevo pur mettere da qualche parte, perdonatemi
Se volete linciarmi un po' su facebook, comunque, mi trovate QUI, solo vi prego di identificarvi in qualche modo perché non accetto persone a caso senza sapere prima chi sono c:
Che altro? Oh, giusto, che sbadata! Vi consiglio vivamente di leggere queste due fanfiction, sempre nel fandom di HG:
Die on the front page, just like the stars || radioactive {73rd Hunger Games; Lyosha&Ariel - D8}
I'm frozen to the bones || yingsu {74th Hunger Games; Roel - D2}
Meritano davvero, e poi ci tengo a ringraziare le due autrici per tutto l'entusiasmo delle loro parole. Grazie mille ♥
Detto questo, devo scappare.
Buona lettura ♥

Ps: forse l'html è un po' impallato, ma ciò è causato dal fatto che devo ancora abituarmi al nuovo layout di efp.

Il titolo del capitolo viene dall'omonima "Northern lights" dei 30 Seconds to Mars.
E finalmente partiamo con i titoli dei Mars, che, insieme ai Muse, sono tra le colonne portanti di questa storia! Quindi ascoltateli, bao (tralasciando il fatto che non sono neanche potuta andare al concerto, a differenza di quella battona di AriiiC_...)

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ




















 

Ad Anna.
Non ci sono parole per descrivere quanto ti voglia bene ♥





 















Blur

(Tied to a Railroad)






013. Thirteenth Chapter – Northern lights.




Tirava un vento particolarmente gelido, fuori. Klaus se n’era accorto perché dagli infissi delle finestre penetrava il classico freddo del tardo inverno, sebbene stesse rintanato nel tepore soffuso della casa.
London dormiva. L’aveva lasciata lì, tranquilla e supina sul letto matrimoniale. Non voleva che lo vedesse in quello stato, non voleva che sospettasse qualcosa.
Klaus fissò la boccetta con la fronte corrugata.
“Morfamina”, c’era scritto. Direttamente da Capitol City.
Rimase immobile per dei minuti interminabili, seduto al tavolo della cucina, di fronte a quella boccetta di vetro. Conosceva bene gli effetti della morfamina, li aveva visti su molta gente, specialmente nelle sue brevi visite nella capitale.
Dicevano che fosse un antidolorifico, un antidolorifico per tutto. Scacciava i problemi, aiutava a pensare positivo, a vedere il mondo a colori e non in bianco e nero o sfocato, come stava capitando a lui. Creava dipendenza, folle e disperata.
Accanto alla boccetta c’era una siringa di medie dimensioni, ancora avvolta in un involucro di plastica. Klaus fissò anche quella, quasi aspettando che potesse muoversi da un momento all’altro.
Non aveva paura degli aghi, come non aveva paura del dolore fisico. Perché c’era qualcosa che faceva molto più male, come l’essere al mondo senza un motivo preciso, il sentirsi inutile e fuori posto. Klaus non era mai stato un ragazzo che si disprezzava o sottovalutava, al contrario si era sempre ritenuto superiore a molti altri. Era sempre stato più furbo, più carismatico, più sfacciato.
Ma a quel punto aveva cominciato a domandarsi a che cosa potesse servire, e anche quale fosse il proprio ruolo all’interno di quel piccolo mondo che si era creato intorno a lui. Forse era diventato un misero burattino senza burattinaio, un involucro che aveva imparato a trascinarsi autonomamente solo per inerzia.
Scartò la siringa dalla confezione, soppesandola poi tra le mani e osservando di sfuggita il lungo ago sottile, lo stesso che gli avrebbe iniettato la morfamina nelle vene entro pochi istanti. Non aveva ancora deciso, ma il suo istinto gli diceva di provare, perché il suo cervello desiderava ardentemente un po’ di riposo e il suo sangue quasi implorava di essere contaminato.
La luce del lampadario gli creava strani bagliori sul viso stanco, mentre una mano correva ad aprire la boccetta. La stappò, e quella emise un rumore sordo.
Rimase fermo per qualche altro secondo, poi immerse l’ago nel liquido e tirò la coda della siringa, stando a guardare come la morfamina saliva pian piano nello stretto cilindro.
Strinse la siringa tra le dita, combattuto dal disprezzo verso la propria debolezza.
Non posso farlo, pensò, disgustato da se stesso, prima che una London in vestaglia entrasse in cucina con il volto assonnato.

« Che fai ancora sveglio? » borbottò la ragazza, aprendo il frigorifero per recuperare una bottiglia d’acqua. Si riempì un bicchiere laconicamente e poi bevve qualche sorso senza badare realmente a ciò che stava facendo Klaus.
Il ragazzo si sentì colto in flagrante e tentò di nascondere la morfamina, ma non c’erano nascondigli soddisfacenti.
London, appoggiata con la schiena al frigorifero che mandava qualche ronzio elettrico, osservò il marito con ancora il bicchiere di vetro tra le mani. Sembrò notare la siringa solo dopo qualche istante.

« Che stai facendo? » chiese quindi velocemente, impallidendo. « Cos’è quella? »
Klaus si alzò e scosse la testa. « Niente. »
London gli rubò la boccetta dalle mani con uno scatto repentino che l’altro non riuscì a bloccare. « E questo lo chiami niente? » fece orripilata. Senza aspettare che aggiungesse qualcosa, la ragazza gettò la morfamina nel cestino.
« London, non l’avrei presa » obiettò Klaus.
« Ah no? » gridò lei, mettendo le mani sui fianchi. « E’ droga della capitale! Vuoi diventare un morfaminomane come quel vincitore di qualche anno fa? »
Klaus aggrottò le sopracciglia. « Ti ho detto che non l’avrei presa. Smettila di fare finta di preoccuparti per me. »
London fece ricadere le braccia lungo i fianchi e abbassò lo sguardo. « Lo dicevo soltanto perché non voglio un marito drogato in giro per casa. »
« Tra poco non avrai più neanche un marito » le ricordò, avvicinandosi piano.
La ragazza non rispose e si morse le labbra. Non gli aveva ancora parlato di ciò che lei e Ben avevano deciso di comune accordo. 
« Klaus » disse, « vuoi davvero annullare il matrimonio? »
Klaus non replicò subito, limitandosi a guardarla negli occhi. Era soltanto uno stupido monosillabo, e pronunciarlo gli costava caro, ma doveva farlo per il bene di entrambi. « Sì. »
« Non è una cosa facile, ci vorrà del tempo… » provò a dissuaderlo lei.
« Non importa » la liquidò il moro. « Ormai non cambia più niente. »
« ... c’è ancora un modo » si lasciò sfuggire London. Non voleva che lui annullasse il matrimonio, non voleva arrendersi così, non voleva lasciare quella casa sede di tanti ricordi.

« Che cosa? » chiese la ragazza, scoppiando a ridere, senza motivo. Klaus rise a sua volta e la baciò di nuovo, e di nuovo ancora, non saziandosi neanche di poco.
« Non bisogna mai scommettere con un Bridge, d’accordo, ma non bisogna mai neanche provocare un Wreisht » disse, premendo contro il suo corpo.
E a London faceva incredibilmente piacere essere inchiodata lì al muro con il suo respiro sul viso. Ridacchiò ancora e stavolta fu lei a baciarlo, stringendogli le braccia dietro al collo, attirandolo ancora di più a sé e colmando la breve distanza tra le loro labbra.
L’atrio della villa era silenzioso, e l’unico suono percepibile era quello delle loro risate e del loro affanno dovuto alla lunga corsa sul sentiero innevato.
London aveva ancora il naso arrossato dal freddo, e Klaus glielo fece gentilmente notare sghignazzando. 
« Sembri davvero una bambina, Londie » le disse, sfilandole dalle spalle il pesante cappotto invernale, che ricadde a terra con un tonfo sordo.
Lei gli diede un pugnetto sull’addome e, dopo averlo baciato di nuovo, ribatté, con un sorriso malizioso: 
« Le bambine non fanno cose cattive. » Anche London, allora, gli tolse il cappotto con una certa impazienza e fece scorrere le mani sul suo petto, indugiando sulla zona diaframmale e accorgendosi davvero di quanto il suo respiro fosse velocizzato.
« Allora sei una bambina cattiva » replicò quasi con ovvietà, passando dalla risata divertita al tono caldo e persuasivo che amava usare con lei in quelle situazioni.
« Oh, sì » sussurrò la ragazza al suo orecchio, provocatoria e suadente. « Tanto cattiva. »

London scacciò quei pensieri scuotendo la testa, le gote che dal bianco pallido erano improvvisamente virate verso il rosa.
« Ovvero? » chiese Klaus, alzando un sopracciglio.
Non poteva rispondere a quella domanda, non ancora. Rimase in silenzio, cercando di trovare una risposta soddisfacente, sicura che se non avesse detto niente Klaus avrebbe capito lo stesso. Glielo si poteva leggere in faccia, d’altronde, che era stata a letto con Ben. In quel momento il suo viso era come un libro aperto.

« Visto? » rincarò il ragazzo, amareggiato. « Non c’è nessun altro mod- » Si bloccò all’improvviso, sgranando gli occhi.
London comprese che aveva capito e non parlò. Preferiva che fosse lui a collegare i punti.

« No » mormorò a quel punto, incredulo. « No, no, cazzo! » Diede un pugno al muro, facendola sobbalzare.
« Klaus, ascolta- »
« Non l’hai fatto sul serio. Non l’avete fatto sul serio » tentò di autoconvincersi il ragazzo, strizzando le palpebre.
« Non c’era altra soluzione » disse London pianissimo. « Credimi. »
« Chi se ne frega! » gridò. « Già non avrei dovuto coinvolgerti, e ora hai messo in mezzo anche tuo fratello! Porca puttana, ma perché? Perché»
« Perché altrimenti avremmo buttato questi tre fottutissimi anni all’aria! » ribatté la ragazza prontamente, come se fosse una frase che si era già preparata per l’evenienza.
« Tu non capisci » continuò il ragazzo, scuotendo la testa. « Tu non capisci quanto sia umiliante. »
« Ti sto solo dando una mano, Klaus » protestò blandamente London, già stanca di continuare quella discussione. « Invece di arrabbiarti, cerca almeno di fare un tentativo… cerca di apprezzare. »
Klaus si passò una mano sul viso. « Non mi state dando scelta! Mettiti nei miei panni, per una volta, ti sembra una bella situazione? »
« No che non mi sembra una bella situazione » lo assecondò lei, « ma è una decisione nostra, se permetti, quella di aiutarti o meno. E noi abbiamo- »
« E’ stata una sua idea, vero? » la bloccò, guardandola intensamente negli occhi.
London non rispose. Non sapeva neanche come avesse fatto a capirlo. Fu come acconsentire silenziosamente, per cui Klaus annuì con un sorriso amaro.

« L’avevo immaginato » disse soltanto. Le appoggiò le mani tra spalla e collo e London non poté fare a meno di avvicinarglisi un po’ di più.
« Non voglio che arriviate fino a questo punto » le sussurrò piano, spostando lo sguardo dai suoi occhi alla sua bocca.
« L’abbiamo già valicato, questo punto » rispose lei, inclinando la testa per appoggiare la guancia al palmo della sua mano. « Non si torna più indietro. »
Lui chiuse gli occhi, come per volersi concentrare. « Sei ancora in tempo. »
« No » replicò London, ostinata. « Sta’ zitto » gli disse, posandogli un bacio proprio all’angolo della bocca, prima di allontanarsi e tornare in camera a dormire, afflitta ma ancora convintissima delle proprie idee.
 

*


Quando Alfons Bridge andò ad aprirgli, Klaus si accorse che il suo volto era ornato da un’espressione più stanca del solito, come se fosse reduce da una discussione travagliata.
« Entra » fece, spostandosi per lasciarlo passare. « Cosa ti porta qui? »
« Sto cercando Benjamin » rispose velocemente lui, anche se più i minuti passavano, più pensava che al suocero non dovesse interessare davvero il motivo per cui lui era andato a fare loro visita.
« E’ in biblioteca » rispose l’uomo, aggiustandosi gli occhiali graduati sul naso.
« Avete una biblioteca? » si lasciò sfuggire il ragazzo, scettico. Certo, i Bridge erano ricchi, ma neanche quel maniero era grande abbastanza da contenere una vera e propria biblioteca.
Alfons si massaggiò una tempia. 
« La grande sala al secondo piano. Noi la chiamiamo così » spiegò. « Mio figlio è lì. » E quello fu come un invito a lasciarlo solo, perché evidentemente doveva avere degli ospiti ignoti ad aspettarlo nel salone.
Klaus si avviò verso le scale e Alfons nella direzione opposta. Prima di salire, fu vinto dalla curiosità e sbirciò nel salone quando il suocero aprì la porta per entrare.
Lo sentì chiaramente rivolgersi agli ospiti, dicendo: 
« Scusate l’attesa, era solo Klaus, il marito di mia figlia. Bet, tesoro, potresti portare un po’ di tè? »
Inoltre, gli parve di vedere la corta chioma bionda di Ludmille Schnee, prima che la porta fosse chiusa di nuovo, facendogli pensare che probabilmente doveva essersi sbagliato. Cosa poteva farci la sua mentore, dopotutto, a casa dei Bridge?
Lasciò perdere e raggiunse il secondo piano ad ampie falcate.

Quella che i Bridge chiamavano biblioteca, in effetti, poteva davvero definirsi tale tranne che per le dimensioni. Se solo fosse stata più grande e più spaziosa, sarebbe stata una biblioteca vera.
Era un’ampia camera tappezzata di libri, scaffali e alle pareti erano appoggiate diverse librerie dall’aria antica. Probabilmente se qualche membro di Capitol City fosse venuto a sapere di quel posto, avrebbe fatto in modo di bruciare tutto all’istante.
Troppi libri, troppa conoscenza concentrata in un’unica stanza.
Klaus vide Ben intento a sistemare dei tomi su uno scaffale più alto, in piedi su uno sgabello traballante.

« Attento che potresti cadere » gli disse laconicamente, avvicinandosi ad una scrivania per osservare ciò che vi era appoggiato.
Ben non smise neanche per un attimo di sistemare i libri. 
« L’ho già fatto milioni di volte, non c’è bisogno che ti preoccupi per me. »
Klaus fece ruotare con una mano un vecchio mappamondo impolverato, senza nessun interesse reale per quello che i Bridge dovevano considerare un cimelio di famiglia.
Era raro, infatti, che qualcuno a Panem possedesse oggetti così antichi e, da un lato, incriminanti. Per Capitol City, più la gente rimaneva nell’ignoranza, meglio era. Niente di più semplice. Eppure quella famiglia sembrava totalmente estranea a certe peculiarità, come se si sentisse superiore persino alla capitale.
L’orgoglio era un tratto distintivo dei Bridge, d’altronde.

« Mi hai sentito entrare? » domandò Klaus, spostandosi tra le cianfrusaglie.
« Sì » rispose Ben, girandosi finalmente verso di lui, con un sorriso divertito. « Hai un passo piuttosto pesante. »
Il moro scosse la testa. « Potresti scendere da quello sgabello? Ti devo parlare a quattr’occhi. »
« Non si preannuncia una discussione divertente » disse lui, allora, incrinando un po’ il sorriso. « Esattamente come quella di oggi pomeriggio. »
Klaus alzò istintivamente un sopracciglio. « Ha a che fare con tuo padre e quegli ospiti nel salone? »
Ben annuì e non aggiunse altro sull’argomento. Scese dallo sgabello, pulendosi le mani sui jeans e parandoglisi di fronte. « Allora? »
« Ho parlato con London » spiegò l’altro, incupendo lo sguardo.
« Ti ha spiegato della nostra idea, non è vero? » capì il ragazzo.
« Non dire stronzate » lo interruppe Klaus. « E’ stata un’idea tua»
Ben abbassò lo sguardo. « Sì, hai ragione, idea mia. »
Il moro non poté resistere e lo prese per la collottola, inchiodandolo alla libreria dietro di lui e facendo vibrare qualche scaffale.
« Mi spieghi come diavolo ti è venuto in mente? » digrignò tra i denti, vicinissimo al suo volto improvvisamente impallidito.
« Klaus, io non- »
« Io non capisco perché vi ostinate a volermi dare una mano! Non ce n’è bisogno, troverò una soluzione da solo; andremo ognuno per la nostra strada e tanti saluti a questo bambino che nessuno di noi nemmeno vuole » sibilò velocemente, ancora arrabbiato per non essere stato preso in considerazione in quel frangente.
« Io li vorrei, dei figli » fece Ben a bassissima voce, ma Klaus lo sentì lo stesso e gli diede un altro strattone, testardo e incapacitato. Non riusciva proprio a venire a capo di quella situazione, era impossibile che quei due fossero così cocciuti e stupidi da fargli un favore così enorme ma che contemporaneamente lo stava mettendo in seria difficoltà.
« Ma che stai dicendo? » domandò, alzando il tono. « Ti rendi conto che questa cosa comporta tantissimi rischi? »
Ben fece per ribattere, ma Klaus lo lasciò andare e lo interruppe di nuovo, stavolta con una nota più stanca e affranta nella voce: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare. Sembrava addolorato, ma anche gentile e umile come al solito.
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente, come se stesse dicendo un’ovvietà.
Klaus, naturalmente, non capì. 
« Cosa? » chiese, corrugando la fronte.
L’albino sorrise, ancora. Sembrava che anche in quel momento fosse l’unica cosa che sapeva fare. Sorridere. Sorridere con quel maledetto fare furbo, cortese e cordiale al contempo. Un comportamento che proprio non riusciva a comprendere.

« Ho detto » fece il ragazzo, « che devi stare zitto. »
Klaus stirò le labbra. In meno di due giorni i due gemelli gli avevano consigliato la stessa cosa, di restare in silenzio a guardare, come uno stupido e inutile spettatore.
Non era sicuro che ne sarebbe stato capace.

« Non preoccuparti » continuò Ben, poggiandogli delicatamente una mano sul braccio – un approccio così diverso da quello aggressivo che aveva usato lui pochi istanti prima… « Andrà tutto bene. »
 

*


Passarono i giorni, e poi le settimane. Il tempo trascorse senza un andamento preciso, alternando momenti di apatia totale a istanti che volavano via, illusori, esattamente come cenere tra le dita.
London stava seriamente cominciando a credere che quello fosse il periodo più strano della sua vita: non riusciva a trovare un attimo per far respirare il suo cervello, che puntualmente, di sera, le lasciava in regalo un mal di testa con i fiocchi.
Oltre a sentirsi debole fisicamente – non lo era mai stata, d’altronde – odiava quella nausea che, puntuale, la mattina o nel corso della giornata, arrivava a smuoverle le viscere. Aveva saltato anche almeno un paio di pasti, come se si sentisse più malata che incinta, e davvero non riusciva a immaginare quanto il suo corpo avrebbe risentito di quella mancanza.
London non era sicura di aspettare un bambino, o forse non voleva pensarci troppo. Non aveva idea di come avrebbe affrontato una possibile gravidanza e probabilmente solo in quel momento stava davvero cominciando a pensare che cosa l’essere incinta avrebbe comportato. Nausea, voglie, dolori.
Non era psicologicamente pronta ad una svolta simile, eppure si era lanciata a capofitto nell’idea di Ben, senza sedersi per riflettere qualche minuto con calma. Si era spinta troppo oltre, quasi certamente, e aveva timore di quello che sarebbe potuto accadere d’ora in avanti. Ma non era per niente ravveduta e non si sarebbe pentita con facilità, non adesso che grazie a quella piccola creatura tutti i tasselli sarebbero potuti ritornare al proprio posto.
La sera, quando si stendeva nel letto accanto a Klaus, aveva imparato ad aspettare che lui si addormentasse per primo, facendogli tuttavia credere il contrario. Allora lui schiudeva appena le labbra e respirava piano, e London prendeva ad osservarlo di sottecchi con una certa attenzione. Conosceva talmente bene il suo corpo, ormai – ogni efelide, ogni poro, ogni imperfezione – che era sempre più avida di nuovi dettagli, come se non ne avesse mai abbastanza. Da un lato se ne vergognava, ma dall’altro metteva a tacere la sua coscienza con un sorrisetto. E quindi gli accarezzava i capelli, il viso, le braccia o la schiena a seconda della sua posizione, ricordandosi di tutte le volte che erano stati a letto insieme, o di tutte le volte che lui l’aveva fatta ridere, o ancora di tutte le volte che l’aveva fatta infuriare. Solo in quei momenti, dunque, prendeva sonno e cadeva beatamente tra le braccia di Morfeo.
Lo stava facendo solo per lui. Sarebbe stata una grossa bugia affermare una cosa diversa da quella, eppure lei lo faceva spesso, come a voler sottolineare che il suo orgoglio era sempre più forte di tutto. Ma comunque lei la verità la conosceva bene, nonostante si ostinasse a oscurarla in molteplici modi.
Diamine, solo qualche mese fa il solo pensiero di aiutarlo mi avrebbe fatto rabbrividire, si era ritrovata a pensare spesso e, nonostante ciò, non riusciva a trovare una spiegazione veramente plausibile per giustificare la propria impulsività e irremovibilità sull’argomento.
Aveva deciso, semplicemente.
Forse si trattava di questo: per una volta, nella sua vita, era stata capace di prendere le redini della situazione e fare in modo che le pedine si muovessero secondo il suo gioco.
Gioco che, comunque, senza l’aiuto di Ben sarebbe stato impraticabile a priori.
Ci avevano provato solo una volta in quelle settimane, lei e suo fratello, eppure era già quasi convinta che quella parte del piano sarebbe stata facile. Il difficile, invece, sarebbe venuto dopo con tutte le più che certe complicazioni.
London si era domandata più volte che pensieri avesse il gemello riguardo a quella questione, ma non riusciva a venirne a capo. Sembrava completamente disposto ad aiutarla, fino a raggiungere rischi e sacrifici estremi come quello di metterla incinta per salvare la sua pelle e quella di Klaus.
Come si sarebbe sentito, si era chiesta, quando avrebbe visto crescere suo figlio tra le braccia di un altro padre? Come l’avrebbe presa quando tutto il Distretto avrebbe riconosciuto quel bambino come diretto discendente ed erede dei Wreisht, una famiglia così rovinata sin dalle fondamenta?
Non lo sapeva, ecco la verità. Non sapeva niente di quello che sarebbe stato il suo futuro, stava soltanto cercando di vivere alla giornata e migliorare quella che si stava preannunciando una vita nefasta… ma non era per niente certa del suo domani.
Cosa sarebbe successo, in effetti, dopo che avrebbe partorito?
L’ennesima domanda senza risposta. Troppe domande per troppe poche risposte.
London inspirava spesso, a quel punto, e chiudeva gli occhi.
Non restava altro da fare che aspettare di vedere come si sarebbero evoluti gli eventi.
In balia del vento, forse, ma poco importava.
 

*


Klaus aveva appena finito di lavarsi i denti e, nel rialzare la testa dal rubinetto, si ritrovò a fissarsi nello specchio rettangolare sopra il lavandino, mentre con una mano recuperava l’asciugamano per asciugarsi la bocca.
Si vedeva cambiato ogni giorno di più. Aveva gli occhi spenti e delle velate occhiaie, le guance leggermente scavate e la barba sfatta. Non si era mai trovato brutto o particolarmente attraente – anche se agli altri faceva credere il contrario – ma in quel momento tutto ciò che vedeva era un giovane uomo stanco e demotivato.
Odiava vedersi così, la sua immagine gli faceva ribrezzo, perché rappresentava l’esatto contrario di ciò che lui sarebbe voluto essere, o almeno apparire.
Dov’era finito il Klaus strafottente e dallo sguardo ammiccante che era sempre stato?
Non ebbe neanche il coraggio di trovare una risposta.
Odiava i cambiamenti, odiava sentirsi così privo di energie e soprattutto odiava mostrarsi così alla gente. Tutti, in quel modo, avrebbero potuto vedere quanto lui si stesse accartocciando su se stesso.
Scosse la testa e uscì dal bagno, scacciando quel riflesso così estraneo dai propri pensieri. Entrando nella stanza da letto, fu sorpreso di trovare London seduta sul materasso con una piccola scatola di ferro intarsiata tra le mani.

« Che cos’è? » chiese Klaus con una velata nota di curiosità, mentre si sedeva accanto a lei. London non si voltò, ma sorrise.
« E’ un carillon » spiegò lei. « Era di mia madre, e prima di mia nonna. »
Alzò il coperchio, rivelando una piccola ballerina delicata che prese a danzare non appena partì una dolce musica malinconica. Quel suono riempì la stanza di un’atmosfera nostalgica.
« Non ricordo le parole della ninna nanna » fece London, leggermente frustrata. « Ho sempre trovato più semplice la lingua di mio padre. »
Klaus aggrottò la fronte. « Perché, i tuoi genitori non vengono dallo stesso posto? »
« No » rispose lei, non aggiungendo altro in merito. « Devo chiedere a Ben, lui sicuramente le ricorda. »
Rimasero in silenzio per qualche minuto buono, finché la melodia non si spense e la ballerina non smise di volteggiare.
« Klaus » disse allora London, chiudendo il carillon e girandosi verso di lui. « Devo dirti una cosa. »
Klaus rimase impassibile, all’esterno, ma dentro di sé perse un battito. Sapeva benissimo quello che la ragazza stava per dire. « Sei incinta, vero? »
London annuì.        

 












   
 
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