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Autore: Crimson Keen    09/11/2013    0 recensioni
Rein, ragazza da poco diplomata e di ritorno da una vacanza andata male, si dovrà scontrare molto presto con le vicende che la attenderanno. A contribuire alle sue disavventure ci sarà Alyson, l’enigmatica e scontrosa sorella dello sfortunato James. Le parole di una canzone e strane sincronie, circonderanno la vita di queste due "amiche".
Genere: Drammatico, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Il sole splendeva alto nel cielo del mattino e le nuvole si disperdevano in una moltitudine di forme. Nell’aria si respirava l’odore fresco e pulito del pieno inverno. Per le strade ghiacciate di Reedwood circolavano solo i più intrepidi e forse qualche mezzo pubblico. I vecchi televisori accesi nei corridoi dell’ospedale, trasmettevano telegiornali con previsioni meteo, anticipazioni non ottime: gennaio stava dando il meglio di sé con le sue piccole bufere. Le scuole erano chiuse, molti cantieri erano bloccati e tutta la città sembrava in panico.
Il paesaggio era saturo di candore, come se una tonnellata di panna montata fosse stata rovesciata su ogni centimetro di terreno.
Rein osservava quel panorama dalla sua stanza al quinto piano, con le braccia incrociate e appoggiate sul davanzale della finestra, e il viso sporto leggermente al di fuori. Con gli occhi indagava il mondo e lo controllava nei minimi dettagli, pareva che non avesse mai visto nulla di tutto ciò prima d’ora. L’ospedale era situato in un vecchio palazzo ottocentesco che fu poi rinnovato a dovere, ma pur mantenendo quel fascino gotico di quell’epoca. L’intero edificio ricopriva una vasta area con le sue murature, ed era circondato da un ampio parco ricco di vegetazione, un laghetto artificiale e tantissimi sentieri a ciottoli: il luogo perfetto, dove poter passeggiare e rilassarsi.
Il volto serio della giovane non si smuoveva da quel riquadro, totalmente affascinata e senza rendersene conto, le sue labbra piccole e carnose, intonavano la melodia della canzone dei Simple Plan. In realtà la sua mente e le sue osservazioni erano rivolte altrove, e si sentiva dispersa tra quello scenario bellissimo e la preoccupazione per Alyson.
Già, perché l’amica non si era mai fatta vedere, o sentire, da quando si era svegliata.
Rein non riusciva a capirne il motivo, lei era tornata dal coma e Ally non era lì, perché?
Con tutti quei pensieri nella testa, non percepiva neppure il vento freddo che le pungeva le guance e le scostava i capelli biondi che le scendevano sulle spalle.
Meditò tanto a riguardo. Nell’incidente il suo cellulare fu andato distrutto con la Mustang e, stando rinchiusa lì, non aveva mai avuto l’opportunità di rifarsi un nuovo numero; ma ciò, non le sembrava un buon motivo per non rispondere alle chiamate che faceva dai telefoni dell’atrio. Ogni volta che provava a telefonarle, tutte le chiamate si bloccavano dopo pochi scatti e in automatico partiva il nastro registrato della segreteria. Considerò tanti presupposti per quella sua assenza, e potevano essere davvero molti visto la perdita del fratello James, ma erano tutte ipotesi inutili se non poteva parlarne con Alyson a tu per tu.
La madre, Ive, le disse che non frequentò più l’ospedale già alla fine di settembre, e aggiunse che aveva problemi con i genitori e la villa; ma lo disse solamente una volta, e lo pronunciò con fare indifferente, quasi scomodo, come quando si dice una cosa senza sapere se quella sia la vera versione dei fatti.
Rein non si era mai convinta da quell’affermazione ipotizzata e si limitò a stare zitta senza cercare troppe spiegazioni.
Doveva solo trovare Ally.
 
La ragazza si spostò finalmente con le braccia dalla finestra e si stirò la pelle, sbuffò sconfortata tra sé. Doveva smetterla di rimuginare, tanto tra poco sarebbe uscita dall’ospedale e poteva riprendere la sua vita. Guardò l’orologio al polso, le lancette segnavano le dieci. Si scostò dalla parete e chiuse le ante, indagò un’ultima volta il paesaggio attraverso i vetri, e se ne andò a passi rapidi in direzione del letto. Sopra alle coperte, in modo sparso, teneva una valigia piena d’indumenti, un quaderno dalla copertina buffa e il suo amato cappotto alla marinara blu. Con entrambe le mani tolse il bagaglio trascinandolo faticosamente a terra, era pesante e Rein non era per nulla forte. Sin da piccola veniva presa in giro per quel vigore striminzito, aveva una fisionomia gracile ed era magra per costituzione. Il suo aspetto snello la faceva sembrare più alta, ma era già tanto se raggiungeva un metro e settanta. Possedeva modi di fare molto delicati, un portamento fine, molto piacevole, sebbene spesso dalla sua bocca uscissero le frasi più rozze e più stupide. Il suo carattere era in parte ironico, era davvero brava a far sorridere, ma possedeva anche lo strano difetto di spaventarsi per le cose più futili, come la paura per i gatti, la terrorizzavano. Non era la classica ragazza ricoperta di trucco, le piacevano, ma non riteneva un’esigenza il perdere del tempo per farsi bella; del resto, lo sguardo furbo, le ciglia dense, i lineamenti morbidi del viso, le stavano meglio al naturale.
 
Rein indossò il cappotto e si allacciò i bottoni per chiuderlo, lasciò aperto solo il colletto per far scivolare la sciarpa all’interno e, infine, mise i guanti ad entrambe le mani, erano di finta pelle, bianchi. Si aggiustò i capelli lunghi da dietro la schiena e si guardò attorno. Dopo pochi attimi, raccolse il quaderno dal sopra il letto, dentro le pagine custodiva tutti i biglietti che gli amici le avevano portato durante il coma; sul viso si delineò un sorriso, emozionato ed anche un po’ liberatorio. Si riteneva molto fortunata, poteva morire e non vedere più nessuno, ma era ancora lì e stava bene. Prese con sé quel cimelio e lo tenne stretto al proprio fianco. Tirò su il bagaglio e, sempre con fatica, cercò la porta per allontanarsi dalla camera. Aggrappandosi alla maniglia uscì definitivamente da quel posto e, prima di accostare l’uscio dietro alle proprie spalle, sì voltò dando un saluto definitivo a quel luogo.
Un addio desiderato.
S’incamminò con calma verso l’ingresso, lì l’aspettava la madre per riportarla a casa e lì poteva salutare il dottore che si prese cura di lei. Nei diversi corridoi infermieri e pazienti le facevano cenni col capo vedendola passare, e Rein ricambiava quella cortesia nello stesso modo; dopo tutto avevano imparato a conoscerla in quel periodo. L’aria che la ragazza muoveva attorno a sé, prendeva il sapore del profumo che tanto amava: un’essenza dolce, floreale, fruttata, dalle note fresche e brillanti. Accelerò il passo e, più si avvicinava all’ascensore, più comprese quella sensazione di agitazione entusiasta nascerle dal petto; il cuore iniziò a palpitarle forte, in un attimo, e non si placò nemmeno per un momento. Nei pensieri non focalizzava cose tormentate o tristi, lei desiderava solamente uscire dall’ospedale, e magari di correre all’aria aperta, tuffarsi nel primo cumulo di neve, affondare la faccia nel candore gelido e sentire la pelle divampare da quel tocco.
Pensò solo a se stessa abbandonando tutti i dispiaceri, l’unico che non rimosse era rivolto ad Alyson.
 
Lo sportello di acciaio dell’ascensore sì aprì davanti ai suoi occhi.
Rein aveva raggiunto l’atrio: un immenso salone che accoglieva gente di ogni etnia ed età. Non era il classico posto saturo, quell’ambiente donava calore e senso di serenità, l’atmosfera si soddisfaceva con colori vivaci, in un misto tra natura e decorazioni contemporanee. La giovane s’inoltrò tra quelle persone, cercando la figura della madre tra di loro. Poi la scorse, appoggiata al bancone di una delle due reception, in compagnia del dottore.
Ive era una donna bassa e corpulenta, dalla strana chioma riccia e castana, dai modi un po’ scontrosi ma non cattivi; indossava un giubbotto viola e un berretto di colore annesso. Rein non le assomigliava per nulla, la bellezza l’ereditò dal padre e la grazia non la ottenne certo da lei. Forse l’unica cosa che poteva farla sembrare sua figlia era il dna…ma per il resto, no, non c’era davvero nulla di paragonabile tra le due.
 
«Mamma!» esclamò avvicinandosi ad entrambi e guardando l’uomo «Buongiorno, dottor Evans!»
«Salve signorina, come state?» rispose rigoroso da sotto la barba folta e grigia.
«Grazie a lei meravigliosamente!» lanciò un’occhiata alla madre «Ha fatto tanto per noi, ha guarito entrambe»
Il dottore sorrise compiaciuto «In realtà il lavoro più grande l’hai fatto tu stessa, io ti ho solo assistito come meglio potevo, sei stata fortunata»
Rein lo sapeva molto bene, e si limitò ad annuire gioiosamente con il capo. Le piaceva il signor Evans, era un veterano nell’ospedale, e seppur era calvo e con qualche chilo di troppo, non dimostrava per nulla i suoi sessant’anni; dalla sua si giocava un carattere molto risoluto e tantissima passione per il lavoro che faceva. Un uomo da stimare e da seguire come esempio.
Ive si scostò dal bancone e baciò la figlia sulla guancia, infine le cinse un braccio dietro la schiena stringendola forte «La mia bambina può tornare finalmente a casa, nella sua nuova casa!» osservò dolcemente gli occhi azzurri di Rein.
«Sono sicuro che si sentirà un po’ spaesata inizialmente, ma si ambienterà meglio che qui. Avete passato un periodo molto difficile e insieme siete state in grado di superare ogni ostacolo. Vostra figlia supererà tutto, è una persona allegra, ha sempre dimostrato la sua forza interiore. L’incidente e tutto il resto la renderanno certamente migliore.»
La giovane non disse nulla, ma si sentì stringere ancora di più dalla mano della madre, come se da quella morsa energetica sprigionasse tutto l’orgoglio che Ive provava per lei.
«Bene, presumo che per voi sia ormai giunta l’ora di andare!» aggiunse il dottore indicando la porta d’entrata.
Rein, con il batticuore ancora in petto ed i brividi dall’emozione, inspirò a pieni polmoni, e scosse la testa divertita «Mi sento come se dovessi scappare da una prigione» vociò contenta e allo stesso tempo tesa «Ti sale addosso un'adrenalina che ti vorrebbe far gridare “libertà!”»
Evans scoppiò in una risata soddisfatta «Mi mancherà questa tua strana ironia!» e si fece serio, come un padre preoccupato «Mi raccomando, se succedesse qualcosa non esitare a chiamarmi, d’accordo?»
«È una promessa, passerò qualche volte nel negozio di sua moglie, così si potrà bere qualcosa in compagnia. Mamma, tu che ne dici?»
«Che è un’idea bellissima» concordò Ive.
Passarono diversi secondi di silenzio, poi Rein, tese la mano al dottore e mantenne un saluto professionale con lui; anche se in verità voleva abbracciarlo con tutta se stessa. Le era molto grata. Evans allungò la sua e strinse quella della ragazza: percepì il palmo bollente da sotto il guanto. L’uomo salutò nello stesso modo Ive, e poi il suono del cercapersone gli squillò da sotto il camice bianco: lo volevano al quinto piano.
«Mi dispiace, ma devo tornare ai miei impegni.»
«Non si preoccupi» rispose la donna raccogliendo la pesante valigia da terra «È il suo dovere!»
Rein si fece coraggio nel salutarlo definitivamente «Arrivederci, signor Evans.»
Il dottore sorrise ottimista «In bocca al lupo per tutto!»
Un cenno e voltò la schiena, mischiandosi tra la gente, raggiungendo a passi svelti l’ascensore. L’uomo aveva fatto il massimo per Rein e ne andava fiero. Erano questi momenti a renderlo raggiante per ciò che faceva ogni giorno, il suo lavoro veniva prima di tutto, perché il benessere del prossimo era la sua priorità.
 
«Siamo rimaste sole» affermò Ive che si spostò di qualche passo «Vuoi restare lì immobile per sempre o ci avviamo?»
La giovane era all’apice dell’agitazione «Usciamo!» si aggrappò alla manica del giubbotto della madre, questa volta era lei che la teneva stretta a sé.
Insieme percorsero quei pochi metri che distavano dalla porta d’ingresso, se per la donna erano veramente così pochi, per Rein sembravano infiniti. Quello fu in assoluto il corridoio più lungo e tanto atteso della sua vita. Con mille sensazioni addosso, d’improvviso, la luce del sole le abbagliò il volto e sentì il corpo pervaso immediatamente dal freddo. Ive continuò a camminare per raggiungere il parcheggio, ma Rein, lei si fermò ad osservare se stessa nuovamente nel mondo. Era in estasi, dopo quasi due mesi confinata in una camera, poteva muoversi come voleva sotto il cielo. Si spostò eroicamente dal viottolo e si chinò a raccogliere la neve con i guanti nell’erba, era soffice e leggera, infine la soffiò via. Le sembrava di essere tornata bambina, a quando giocava fino a tardi sopra quei cumuli bianchi, a quando l’unica scusa che riusciva a farla tornare in casa era una buona tazza di cioccolata calda.
Ive si rese conto solo dopo pochi minuti che Rein non stava più al suo passo, si girò cercando la figlia, la notò in ginocchio accanto ad una pianta di ciliegio. Scosse il capo rassegnata e allettò la sua attenzione urlando il suo nome. La ragazza scattò in piedi distratta dai propri ricordi, sorrise di gusto tra sé, e cominciò a correre velocissima per andarle incontro, e più andava veloce e più dentro la felicità le esplodeva. 
  
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