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Autore: rosa_bianca    09/11/2013    1 recensioni
E se la madre del temuto Fantasma dell'Opera, invece di consegnarlo ad un circo di zingari, avesse deciso di affidarlo ad un convento parigino?
E se, il caso volesse, quest'ultimo fosse proprio il Petit Picpus, rifugio di Valjean e Cosette?
Cosa succederebbe se, quello che sarebbe in un'altra vita un futuro Fantasma, venisse accudito dal nostro ladro di pane preferito?
Come si evolverebbero i fatti? Cosa accadrebbe nel noto 1832, anno della Ribellione di Giugno?
Leggete e scoprirete.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Cosette, Jean Valjean, Marius Pontmercy
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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5 Giugno 1832, Notte
 
 
 
La situazione era critica.
Molto più critica di quanto Enjolras avesse mai potuto prevedere, durante quelle notti invernali passate sopra mappe e schemi. Tutto per progettare quella sommossa.
Ma non c’era tempo per i sospiri. Gli sarebbe bastato distrarsi un attimo, tenere le palpebre chiuse un secondo di più, per ritrovarsi di fronte alla morte.
Diede un rapido sguardo dinnanzi a sé. Accanto, aveva tutti gli studenti.
Combeferre, che, con una spietatezza che nessuno si sarebbe mai aspettato, difendeva tutti i giovani che gli stavano vicini. In realtà, non si smentiva molto: attaccava solo per difendersi.
Courfeyrac lanciava colpi come un forsennato, il volto rubicondo e la fronte madida di sudore.
Davanti a sé, Enjolras vedeva la Guardia. Erano riusciti ad arrampicarsi sulla barricata, ma non a prenderla definitivamente.
Mentre si voltava per tramortire un soldato col suo stesso fucile, con la coda dell’occhio notò il bambino. Ricordava che si chiamasse Eric, o qualcosa del genere. Stava sempre intorno ad alla svenevole infermiera di Pontmercy, che era troppo giovane per essere sua madre. Quindi aveva presunto che fossero fratelli.
Ora il ragazzo stava cercando di soccorrere Joly, appoggiato al muro del Corinth con una vistosa ferita al braccio.
L’attenzione di Erik, invece, era completamente incentrata sul povero malato, che in quel momento era ben poco immaginario. Aveva un brutto squarcio da cui il sangue usciva copioso. Lo stava aiutando a rimettersi in piedi per raggiungere l’infermeria.
La situazione a dir poco tragica non gli era sfuggita, ovviamente. Ma senza un’arma, non poteva far altro che sostenere i feriti. Lanciò un’occhiata d’intesa a Cosette e consegnò Joly alle sue cure.
“Non tornare fuori…”. Il mormorio disperato della sorella gli sfuggì, coperto dalle grida di dolore e dagli spari degli studenti.
Cosette si sentì morire. Ora Erik era in pericolo, ed era tutta colpa sua se non erano fuggiti prima. Ormai non era più un’opzione possibile, le guardie erano ovunque. Il rumore che la circondava non poteva darle il tempo per pensare, i feriti arrivavano e lei doveva dedicarsi a loro. E suo padre? Cosa doveva provare suo padre, in quel momento? Cosette era confusa, troppo confusa.
 
Valjean non mangiava da un giorno. Non aveva avuto tempo per fermarsi, nella sua frenetica ed instancabile ricerca dei due figli. Aveva setacciato i luoghi delle barricate. Ne era rimasta una sola a Parigi, o almeno così si diceva. Nelle altre, non aveva trovato altro che pietre, legname, pistole, e cadaveri. Decine di cadaveri. E con quanta disperazione li aveva tutti osservati, voltando il viso a quelli che lo rivolgevano alla terra, coperta dal loro stesso sangue…
Eppure niente. Cosette ed Erik non si trovavano. Aveva deciso di fare un tentativo all’ultima barricata della lista, in Rue de la Chavrerie.  
C’erano soldati ad ogni angolo delle strade, e questo era un enorme problema. Gli serviva un modo per passare inosservato, completamente inosservato, tra tutti i soldati…
Ne avvistò uno, solo, all’inizio della via che stava imboccando. Valjean si guardò furtivamente attorno e, con un balzo agilissimo nonostante la sua età, lo colpì violentemente sulla testa. Cadde.
Valjean lo trascinò in un vicolo lì vicino, dove lo svestì ed indossò la sua uniforme. Controllò che la ferita non fosse troppo grave; no, dopo un ora o due si sarebbe svegliato.
Si era promesso di non fare più cose del genere, ma stavolta era per una buona causa.
 
 
 
Erik rabbrividì. Sapeva che, se le cose fossero continuate a procedere in quel modo, la barricata non sarebbe durata più di un’altra ora.
Ad un tratto, gli spari dal lato dei soldati si quietarono, e quello che pareva il comandante prese parola.
Più che parlare, tuonava. Disse che se loro studenti si fossero arresi, tutti i soldati si sarebbero ritirati immediatamente.
Erik rabbrividì quando Enjolras espresse con aspra fierezza il loro desiderio di restare, di combattere ancora.
Fino a che la terra non fosse stata libera.
Tutti avevano inteso ormai il proprio destino: rinunciare ad un’offerta del genere poteva significare soltanto, per uno sparuto gruppo di inesperti universitari, andare incontro alla morte.
Erik decise che non poteva finire così. Voleva e doveva portare in salvo Cosette. Ma come avrebbe potuto? Le strade erano tutte sorvegliate, le sentinelle appostate ad ogni angolo.
Gavroche avrebbe saputo cosa fare, ne era certo.
Ma lui non c’era più, e avrebbe dovuto cavarsela da solo, con le sue forze.
D’altronde, doveva avere qualcosa di diverso da quell’ingegnoso monello biondo, giusto? Qualcosa che l’avrebbe aiutato a superare questa scomoda situazione. C’era sicuramente qualcosa!
Erik lasciò i suoi occhi vagare per la barricata. La nebbia spessa e maleodorante della polvere da sparo celava una sanguinosa scena: i soldati erano ancora una volta vicini alla barricata, troppo vicini.
Vide Feully cadere a terra, tramortito dalla punta di un fucile che gli aveva  trapassato la schiena. Colse lo sguardo disperato di Combeferre, accanto a lui. Ma non poteva fare nulla, o sarebbe stato colpito a sua volta. Brandiva la sua arma al contrario, tentando di respingere i soldati colpendoli con il calcio del fucile.
Erik cercò di concentrarsi. Doveva avere un punto forte, qualcosa che lo distingueva dagli altri.
Effettivamente, era molto portato per la musica. Ma a cosa sarebbe potuta servire in un’occasione del genere? Il suo genio non lo poteva aiutare, non stavolta.
Fissò un punto indistinto a terra, per non distrarsi. I suo occhi caddero su una bottiglia,  abbandonata a terra. Involontariamente, vide il suo riflesso.
E capì che c’era una speranza.
Se avesse tenuto gli occhi sul vetro, avrebbe potuto notare il luccichio dal quale erano pervasi.
Guardandosi attentamente intorno per evitare qualsiasi tipo di pericolo, si diresse davanti alla barricata, ed iniziò ad arrampicarsi.
“Cosa fa?” urlò Courfeyrac, indicandolo.
“Erik!” gridò Marius.
“Fermi tutti, smettete di sparare!” ruggì Enjolras alzando in aria il fucile, e gli studenti riposero le armi.
I soldati, curiosi di vedere come si sarebbe evoluta la faccenda, non premettero un solo grilletto.
“Ebbene?” disse il comandante, con un sorriso sornione. “Il moccioso intende fermarci?”
Erik, ormai arrivato in cima alla pila di mobili, prese un respiro profondo.
Se si fosse voltato, avrebbe potuto vedere sua sorella, corsa fuori dal Corinth, che si stringeva a Marius in lacrime.
“Non sono un moccioso.” affermò con una voce potente e forte che di certo non sarebbe parsa quella di un settenne.
Delle risatine echeggiarono dal lato della Guardia. Un soldato chiese con un cenno al comandante se poteva sparare. “Non ancora.” mormorò lui, divertito.
“Di fronte a voi non avete un comune, semplice bambino…” proseguì Erik energeticamente, i pugni stretti accanto ai fianchi.
 “Io…sono il Figlio del Diavolo!” esclamò, con voce spaventosa. Si tolse con un gesto rapido la maschera bianca, che cadde su una tavola di legno, e prese saldamente una torcia, avvicinandola al volto.
La voce del bambino sovrastò i mormorii di orrore suscitati da quell’azione repentina.
Gli Amici non parlarono, ma rimasero in un silenzio teso e ricco d’angoscia. Coloro che non avevano visto il viso scoperto di Erik poche ore prima, alla locanda, non l’avevano scorto neanche ora: egli dava loro le spalle.
“Se non volete avere a che fare con la maledizione del Diavolo, allora vi consiglio di arrendervi. E subito!”
Il comandante deglutì. Sicuramente, tra tutte le cose che avrebbe potuto dire quel piccolo arrampicato sulla barricata, questa era la più inaspettata. Notò che i suoi soldati stavano fremendo. Sentiva alcuni dire “Ma no, dai, ci credete?”, ma alla maggior parte non serviva credergli: vederlo era stato più che sufficiente.
Erik rimaneva fermo, immobile, con le mani che quasi non riuscivano più a tenere stretta la torcia. Era notte, e non si sentivano rumori.
Cosette, intanto, rimaneva vicino a Marius; non poteva credere che il suo fratellino, il suo piccolo, talentuoso, incompreso fratellino avesse dato prova di tanto coraggio. Allo stesso tempo, però, era terrorizzata che i soldati sparassero a tradimento: era una preda facile, lì in alto sotto gli occhi di tutti.
Nessuno parlava, e il silenzio si faceva ancora più teso. Il comandante era interdetto: da uomo superstizioso qual era, non poteva fare a meno che inorridire alla visione del giovane. Forse, pensò, era grazie a lui che ancora non erano riusciti a prendere la barricata, l’unica rimasta a Parigi: quegli studenti malefici avevano fatto un patto col Diavolo.
“Andiamocene.” sussurrò infine al suo vice, con aria affannata. “Andiamocene da qui.”
Quando Erik, dall’alto della sua postazione, vide che i soldati avevano iniziato a bisbigliarsi velocemente tutti la stessa cosa, il suo cuore fece un salto di gioia.
Ce l’aveva fatta.
Rimase fermo, immobile, per paura che un suo qualsiasi movimento avesse potuto fermarli.
Sentì levarsi, da dietro le sue spalle, mormorii esaltati e concitati.
“E’ finita!”
“Abbiamo vinto!”
“Enjolras, hai sentito? È fatta!”
Il diretto interessato non rispose. Aveva gli occhi azzurri indistintamente persi nell’aria attorno a lui.
Gli sembrava un sogno.
La rivoluzione era finita, avevano vinto. La barricata era inutile, ormai.
Cosette, mentre gli uomini gioivano rumorosamente, si staccò da Marius e, con passi decisi, iniziò ad arrampicarsi per raggiungere suo fratello.
“Erik?”
Il bambino rimase immobile per un secondo. Ebbe un brivido: aveva riconosciuto la sua voce dolce.
Si voltò con aria fiera, senza paura di mostrare il suo viso a tutti.
“Sono così fiera di te…!” mormorò Cosette, stringendolo in un abbraccio.
Da lì in poi, per Erik fu tutto molto confuso: ricorda ancora di essere stato sollevato da diverse mani, c’era un chiasso assordante e tutti volevano congratularsi con lui.
Enjolras gli strinse formalmente la mano, ma si notavano chiaramente i suoi occhi lucidi dalla commozione.
Courfeyrac lo strinse per diversi secondi, e vi si unì anche Combeferre.
Bossuet e Joly gli diederono due pacche sulle spalle, mentre il sorriso attraversava il loro viso da un orecchio all’altro.
Marius gli sorrise. Si sentì in debito con lui: aveva salvato le sorti della barricata, e quindi anche la sua… e, soprattutto, quella di Cosette.
Erik pensava di trovarsi in un sogno, tanto era frastornato. No, non in uno di quegli incubi terribili che l’avevano perseguitato le notti precedenti, ma in un bellissimo sogno dal quale non voleva svegliarsi.
Addirittura, crebbe di vedere Valjean al suo fianco, per un momento.
E gli parve molto strano quando immaginò addirittura –che scherzi fa la mente, talvolta!- che Cosette stesse abbracciando forte l’uomo, con gli occhi colmi di lacrime di gioia.
Quando Valjean lo strinse tra le sue braccia, facendosi spazio tra gli Amici, si accorse che non era un sogno.
“Papà!” esclamarono in coro i due fratelli, lanciandosi uno sguardo stupefatto.
Il caos sembrava calmarsi: Erik se ne accorse perché, quando parlava, poteva finalmente sentire il suono della sua voce.
Intravide con la coda dell’occhio Grantaire che abbracciava Enjolras, mentre Combeferre e Courfeyrac ridevano.
Finalmente, dopo molto tempo, si sentì in pace.
Non gli importava che la maschera perlacea fosse ancora abbandonata tra una sedia ed un comodino, in cima alla barricata, non gli importava proprio.
Era solo felice, estremamente felice, più di quanto le parole potessero esprimere, perché sapeva di avere gli occhi di tutti addosso. Ma stavolta non erano inorriditi, no: sorridevano.
E sapeva che anche Mabeuf, Feully, Jehan, Bahorel, Gavroche, Eponine e sua madre lo osservavano con orgoglio, dall’alto del Cielo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                                                                                  Epilogo
 

 
10 Dicembre 1845
 

Quella sera nevicava. Tutta Parigi indossava un elegante pelliccia bianca: le strade, le case, le statue, gli edifici…
Anche l’Opéra Garnier era coperta di neve.
Era una serata importante, quella, e chiunque nel teatro accorreva a sistemare tutto prima della grande soirée.
Le ballerine girovagavano qua e là, senza meta, alcune con il preciso intento di innervosire i cantanti, altre con l’ingenua presunzione di non voler chiudersi nella sala comune fino all’entrata in scena.
Una delle danzatrici si era staccata dal gruppo. Si sistemò con due gesti sbrigativi il tutù candido e bussò ad una porta dipinta di rosso. Purtroppo, come si aspettava, non ottenne nient’altro che una specie di grugnito seccato. Si appoggiò stancamente ad una delle tende di velluto del corridoio.
“Niente da fare.” sospirò, facendo spallucce.
Davanti a lei c’era una donna. Aveva qualche anno più di lei, ma un aspetto ben diverso dal suo: sulla complessa acconciatura bionda era poggiato un cappellino, gli occhi azzurri le brillavano, e portava un bell’abito color turchese, com’era di moda quegli anni. Era a braccetto con suo marito, e la figlia era appoggiata alla sua gonna ampia.
La donna assunse un’espressione risoluta e si rivolse così alla ballerina “So io come fare.”
“Cosette, non mi sembra il caso, magari…”
“No, Marius. Lascia fare a me, te ne prego.” Ribatté lei, convinta “Sophie, vieni, accompagnami.” Aggiunse.
La madre la prese per mano e si diresse verso la porta rossa accanto alla ballerina.
“Non preoccupatevi, mademoiselle Giry, so io come farlo uscire.”
La figura in bianco si scostò, per lasciare spazio a Cosette.
Bussò leggermente alla porta. Attese qualche secondo prima di sentire il rumore di una poltrona che veniva spostata, poi alcuni passi leggeri.
“Fratellino!” esclamò lei, stringendo in un abbraccio stretto il giovane dall’altra parte della porta. Indossava una semplice camicia bianca, alquanto larga, e dei pantaloni di tela marroni. Sembrava alquanto nervoso.
“Ti prego, Cosette, mi rovini il costume di scena!” protestò debolmente, mentre si godeva ogni secondo della calda stretta. “Oh, c’è anche Sophie.” aggiunse, quando notò la piccola.
“Zio Erik, è vero che siete molto emozionato? Oggi maman me lo ha ripetuto molte volte, e ha insistito perché non vi disturbassi.”
Cosette si lasciò sfuggire un’altra risata. “Data la sua loquacità, direi che non è per niente come suo zio.”
Quest’ultimo asserì, con fare spiccio. “Emh…Ho apprezzato molto la vostra visita, ma ora sono costretto a chiedervi di lasciarmi da solo, scusate.” Si appoggiò allo stipite della porta, senza avere nulla da dire, e poi aggiunse “Ah, e saluta tanto Pontmercy da parte mia.”
Marius.” Lo corresse automaticamente Cosette “Chiamalo Marius, te ne prego. E comunque, dimostri di non aver imparato neanche un po’ d’educazione.”
“Umh?” mugugnò Erik, dando un altro sguardo ansioso all’orologio del suo camerino.
“Mademoiselle Giry.”
“Eleonore?” domandò stupito lui, non capendo dove volesse andare a parare la sorella.
“Ah, si chiama così? Che nome delizioso… Comunque, ciò non toglie che lei non abbia occhi che per te, e che si sia preoccupata, stasera, che non le volessi aprire. Non dico molto, ma almeno farle sapere che eri vivo… suvvia, Erik, non è questo, ciò che ti ho insegnato!”
L’altro arrossì timidamente, ma cercò di non darlo a vedere. Sbuffò, piuttosto, deciso a porre fine alla discussione. “Le porgerò le mie più umili scuse non appena questa serata sarà finita.”
La donna parve soddisfatta, e non aggiunse altro. Diede una timida ma calorosa carezza alla spalla del fratello, e fece dietro-font, con la bambina ancora attaccata alle gonne.
“Andiamo ad aspettare papa già ai posti: arriverà tra poco.” suggerì Cosette al marito.
I tre si misero in cammino, per raggiungere le sedie che avevano prenotato.
Box cinq lesse incerta la piccola. “E’ molto bello, maman, si vedrà tutto, da qui.”
Cosette sorrise soddisfatta, mentre i suoi occhi vagavano per la platea, che stava iniziando a riempirsi.
Sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato. Finalmente, il suo fratellino debuttava all’Opéra!
Da tredici anni aveva iniziato a prendere lezioni di musica. In pochissimo tempo aveva superato i maestri di Parigi, e da lì aveva iniziato a comporre. La sua opera, il capolavoro frutto di anni di sudore, stava per venire rappresentato all’Opéra per la prima volta. Ed Erik era nei panni del protagonista, cantava con la sua stupenda voce da tenore.
Una lacrima pizzicò gli occhi di Cosette. Aveva tanto atteso quella sera.
Pochi minuti dopo, quando il pubblico era già composto nelle poltroncine rosse, Valjean fece la sua apparizione al palco numero cinque. Si era seduto accanto alla nipotina, per la quale provava un amore sviscerato, ed attese in silenzio che il sipario calasse.
 
Erik stava respirando affannosamente, cercando di darsi un contegno. Si appoggiò alla parete. Aveva aspettato tanto. Era la sua occasione, finalmente. Se fosse già stato sul palco avrebbe potuto vedere gli Amis, precisi ed impazienti ai loro posti. C’erano tutti. Tutti quelli che, tredici anni prima, aveva potuto salvare.
“Si va in scena!” gli sussurrò il maestro di canto.
Erik chiuse gli occhi. Sperava di essere abbastanza pronto.
“Vi auguro buona fortuna, Erik…”
Si voltò verso la voce, dolce ma al contempo decisa, che aveva pronunciato quelle parole. Lei lo fissava con i suoi penetranti occhi castani.
“Grazie, Eleonore.”
 
Quando le tende di porpora si scostarono con meditata lentezza, Cosette prese in mano il suo libretto.
Appena scorse la macchia perlacea della maschera, non poté fare a meno di rileggere il titolo dell’opera.
Les Roses Fleuriront.
 
 






Note dell’autrice:
 
*prende i fazzoletti* E’ finita…! Lo so, non ve lo sareste aspettati. Non una fine così inaspettata, con l’epilogo nello stesso capitolo. A me sembrava giusto così, perfetto in questo modo.
Allora, non so veramente da cosa iniziare.
Abbiamo la barricata immersa nel terrore. Cosette disperata, piena di rimorsi. Valjean determinato, anche un po’ violento, se vogliamo.
Erik è il più risoluto di tutti. Capisce finalmente che la cosa che ha più disprezzato nella sua breve vita può essere utilizzata per salvare delle vite.
La maschera rimane impigliata negli oggetti della barricata, e vi rimarrà per chissà quanto.
Ora tutti sono salvi, e le rose sono fiorite.
Tredici anni dopo, assistiamo al debutto di Erik: dopo l’avvenimento della barricata ha iniziato a studiare canto, ha superato i maestri, ha scritto un’opera. E, finalmente, riesce a rappresentarla.
La sorella, il cognato, la nipote, il padre, i vecchi amici, la ballerina di cui si è innamorato… sono tutti pronti a vedere il suo grande trionfo.
Non riuscivo ad immaginarmi un finale migliore di questo, sinceramente.
*si asciuga le lacrimucce* Bene. Dopo questa melensa conclusione, volevo ringraziare tutte le persone che hanno letto questo parto della mia mente, ringraziando particolarmente Saitou e Catcher per le loro puntualissime ed affezionate recensioni.
Spero tanto di scrivere ancora, e presto. Intanto, arrivederci,
rosa_bianca

 
 
   
 
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