Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
14.
Grigio e ombre
Mi piaceva uscire di notte.
Avevo tredici anni, all'epoca, e quell'abitudine non era mai andata via. Tempo prima scappavo quasi sentissi, nel buio, incombere su di me le minacce peggiori. Le minacce peggiori c'erano anche di giorno – botte, castighi, brutte parole – ma tornavo per mangiare. Il cibo era l'unica cosa che potesse darmi quell'istituto.
C'era il silenzio dei morti; niente macchine, niente voci... vicino alla campagna non potevo aspettarmi niente di diverso e, improvvisamente, mi tornarono in mente le parole del vecchio. Non dovrai più fuggire, Joe, ora hai una casa. Ma ero ancora all'inizio, e l'abitudine era qualcosa di ancora più duro della cattiveria, per cambiare. Quando sentii un urlo, capii che del silenzio non avrei mai dovuto avere paura. Rimasi immobile. Qualcuno che cade, qualcuno che cammina. Due persone. L'urlo non c'era più, ma qualcosa frusciava sull'asfalto della strada. Qualcosa... era qualcuno.
Nascosto
da un albero, guardai. Un uomo si contorceva sull'asfalto: aveva gli
occhi vitrei, era pallido... gli stava succedendo qualcosa e capii – lo sapevo, lo sentivo –
che qualunque cosa gli stesse succedendo, era voluta dall'uomo che gli
era davanti. Mi dava le spalle e presto vidi che le convulsioni
dell'uomo sdraiato a terra si facevano sempre più lievi. Si
immobilizzò, chiuse gli occhi, il vento soffiava e fece aprire
l'impermeabile dell'uomo che stava lì a guardare. Aveva i
capelli biondi, ecco cosa vidi. Aveva i capelli biondi ed era alto e,
in quel preciso istante, prese una pistola. Mi misi una mano sulla
bocca, la strinsi a pugno, morsi per non urlare. Poi l'uomo
sparò ed io mi chiesi perché non avessi ordinato a me
stesso di chiudere gli occhi. Mi sfuggì un gemito. E così
l'uomo biondo si voltò verso di me. Mi si contorse lo stomaco e
mi sentii cadere in una vasca di acqua mortalmente fredda. I suoi occhi
erano chiari, assenti, vuoti... e lo riconobbi. In una mano teneva la
pistola, l'altra la teneva chiusa a pugno e subito la aprì.
Cadde qualcosa... era una pietra, ed era nera, e brillava. Deglutii.
L'uomo avvicinò il dito alla bocca e fece "shhh" e poi
rise, rise nel silenzio ed io seppi che era malvagio. Seppi che l'unica
cosa da fare era scappare.
1995
Cassie
è sdraiata accanto a me, a guardare le ombre che si creano sul muro con la luce
della lampada del comodino. Ed io guardo lei, che non si aspetta mai niente da me,
fa poche domande ma vuole sempre sapere se sto bene. La amo anch’io, anche se non
gliel’ho mai detto. Pensavo che non avrei mai amato nessuno, da quel giorno
d’inferno, perché tutti gli altri sentimenti che ho provato sono sempre stati troppo forti
per lasciare spazio a una cosa del genere. Ho troppi pesi, sul cuore. Ma lei,
magra com’è, ha trovato spazio.
«Hai
mai pensato che le ombre delle persone somigliano agli alberi? »
Le
carezzo la spalla con le dita. Mi guarda, sorrido appena, faccio segno di no con la testa.
«Pensavo
che chi andasse al college avesse la mente più aperta. » Mi sorride a quel modo
che annebbia i ricordi e li fa sembrare belli, anche se solo per un istante. Poi si alza in
piedi, si mette le mani fra i capelli e li rende più gonfi, poi alza le braccia. «Guarda la mia ombra, non sembra
un albero? »
Guardo
l’ombra sul muro.
«Candy…
hai ragione.»
«Certo
che ho ragione.» Torna a sedersi, inclina la testa e assume quell'espressione pensosa che le fa inarcare le sopracciglia, stirare le labbra. «Noi
essere umani siamo vita, e l’albero viene nominato
dappertutto. Albero della vita. Linfa vitale… solo che,
ecco… » I grandi occhi color nocciola a scrutarmi,
attenti. «Per guardare
l’ombra serve sempre un po’ di luce. Se c'è luce,
può accadere qualunque cosa.»
Vorrei
che fosse così. Vorrei che tutto fosse semplice come lo fa sembrare Cassie
dalle sue parole. Vorrei che sul mio terreno arido possa nascere qualcosa. Ma
è tutto bruciato e pesa troppo.
Martin
Voglio solo spaccare tutto. Lezione di Biologia, Fisica, Matematica. Spaccare tutto, alzarmi dalla sedia, spingere via il banco. Lezione di Spagnolo, Inglese, ancora Inglese. Spaccare tutto, come Hulk nei fumetti che leggevo quando avevo quattordici anni.
«C’è qualcuno che vuole rispondere a questa domanda? » Ho già detto troppo, mi sono rovinato da solo con le mie
mani, voglio solo… Tornare
indietro. Tornare indietro a un giorno
qualsiasi e raccontarle di mio padre e di tutta la mia vita, senza dimenticare
nemmeno un secondo. La verità, solo la verità, Doreen, la mia casa, mio padre,
Cameron… Non lo vedo da troppo tempo.
La campanella suona e non so nemmeno che
cosa mi sono perso fra le parole dei professori, sono tornato quello
che
ascolta e dimentica l’istante dopo. Entro in mensa e mi aspetto
di vederla ma lei non c’è, lei è lontana, lei
è andata via e mi
sento il cuore che pesa fra gli organi come un pugno d’acciaio. Voglio solo
tornare indietro.
Guardare
Cameron ridere mi dà l'impressione che il desiderio si sia
avverato. Che sono davvero tornato indietro, in un giorno lontano in
cui ho
giocato con lui alla playstation e sua madre mi ha offerto un pezzo di
torta. E
Sarah è una persona fra tante persone nella popolazione di una
città fra
tante città ed io non so niente di lei. Ho bisogno del mio
migliore amico idiota. Ho bisogno di essere quello che ho imparato ad
essere così bene. Pigro, restio al
dovere, superficiale, indifferente al mondo.
«Ehi,
Cam.»
Ride,
Cameron. Ride adesso come quel primo giorno sul bus alle elementari, con quel modo
di coinvolgere chi gli sta intorno come se fosse un cantante su un palco. Tutti imparano
la sua strana canzone di felicità, anche se tuo padre si è dimenticato che
l’altro giorno è il tuo compleanno, anche se vorresti avere un altro cognome,
anche se proprio stamattina hai perso qualcosa di grande. Sorrido.
Aspetto.
E
poi Cameron posa gli occhi su di me e la sua risata si espande fino a perdersi
in qualche piccolo, secco colpo di tosse. I suoi occhi neri si rimpiccioliscono
con un movimento di palpebre che non gli ho mai visto fare, non a me.
«Scott
fra i comuni mortali? » dice qualcuno, ma io guardo Cameron. Non
mi importa niente degli altri, come sempre, da sempre. Cam si schiaccia
i capelli come ho visto fare
in qualche vecchio film, gli sono cresciuti, adesso una linea zigzagata
gli
cade sulla fronte; se la sistema in modo che resti alta e non gli
tocchi la
pelle.
«Cameron.» Non mi parla. Perché non mi stai parlando? Guarda in basso, gioca con il
cellulare, mi avvicino a lui. «Che succede? »
Alza
il viso, le sopraciglia, gli occhi, ogni cosa di lui si allunga verso di me e
mi sembra, per un attimo, che non sia successo niente di cui preoccuparmi. Ma il
suo sguardo ha qualcosa che non ho mai notato in lui, qualcosa di lontano…
rassegnato.
«Torno
subito,» dice, lancia loro uno sguardo, poi si allontana e lo seguo. Esce
dalla mensa e si inoltra nel corridoio, i suoi passi un po’ strascicati
con le vans che ha comprato a un mercatino dell’usato, grigie, un po’ rovinate,
ma fighe come il nuovo proprietario, vero, Mart?
C’è anche del grigio, nel suo sguardo.
«Pensavo che fossi disperso.» La sua voce è
atona. Di nuovo nero. «Hai presente Lost? L’aereo? L’isola? Niente cellulare e
rapporti con il resto del mondo? » E la sua voce ha di nuovo volume, spessore,
mi dice solo una cosa: rabbia. «Non sono una fidanzata gelosa.» Scuote
la testa, muove le labbra in quello che sembra un riso verso solo se stesso.
«Ma pensavo fossimo amici.»
Deglutisco.
Cameron è una sagoma dai contorni sfumati nel rosso della sua camicia a
scacchi, nero di occhi e capelli, l’ambra chiara della sua carnagione e le
macchinine che abbiamo rotto da piccoli, i giochi alla play, la prima sigaretta
e la prima birra, la sua prima ragazza e tutti i primi giorni di scuola della
mia vita. «Lo siamo.»
Il
suo riso si espande anche a me, ironico, sprezzante. «Bella battuta. E pensare
che ero io quello simpatico.»
Panico.
Ci cado dentro, come se fossi salito su una delle montagne russe più spaventose
del mondo, e la discesa è ripida e la giostra va veloce e il sangue va alla
testa. Rido e mi sembra solo un grugnito. «Scherzi, vero? »
«Non
scherzo più. »
«Cam…»
«Io.» È un ghigno, il suo, di quelli che ti vengono fuori quando ti colpiscono alla
gola e non puoi parlare ma devi, devi farlo per forza. «... Non so che altro vuoi.
Puoi anche tornartene dalla gente nuova che hai trovato. In fondo mi sono
sempre chiesto perché ti mischiassi alla plebe con uno come me.»
Gente nuova?
«Non farmi sentire certe stronzate, sul serio. »
«Tranquillo,
non le sentirai più, le mie stronzate. » Apre il suo armadietto e prende lo
zaino, ci infila dentro uno, due libri, si mette il cappello al contrario come
in quei vecchi cartoni in cui il protagonista non cresce mai.
«Scusa…
scusa, è che io… » Casini, casini dappertutto, Sarah. Da
dove comincio? Non sono mai stato bravo a iniziare qualcosa, qualunque cosa.
Torna a guardarmi, sale sullo skate e mi sento
un cretino perché ha ragione e non riesco a parlare, e vorrei solo che tutto
questo fosse uno stupido scherzo.
«Abbiamo
finito di parlare.»
***
Il Karma è contro di me. Il mondo gira al contrario e Cameron è così incazzato che non vuole più parlarmi.
Apro l’armadio, mi tolgo la maglietta ne prendo un'altra. Sull’anta c’è il poster si Miranda Kerr, ha gli occhi azzurri e i capelli castani… no, basta, per favore, Sarah, sparisci dalla mia testa. Lei, la prima ragazza per cui ho perso il cervello e tutto il resto. Lei, per cui non ho risposto alle chiamate del mio migliore amico. Lei, che è stata il mio solo pensiero. Mi ci vedo, come dall’esterno, attraverso un vetro: Martin Scott che va dietro alla stessa ragazza per più di un mese. L’ho preso proprio bene quel colpo in testa… sarebbe stato meglio se mi avesse fatto fuori, perché non ne sono per niente pentito. Pentito di averla conosciuta, di averla baciata, di sentire il cuore pesante con le lettere del suo nome sulla lingua.
Arrivo a casa
di Cameron; la strada è più breve di quanto ricordassi, i passi da fare sono
registrati nella mia memoria dal cervello difettoso come se ci fossi nato, con l’indirizzo di casa di
Cameron in testa. Sarà strano, dirglielo. Sarà strano pronunciare il nome di
Sarah di fronte a qualcuno che non è lei. Sarà strano spiegare la verità,
l’assurdità di tutte le cose che sono successe, di tutti i pensieri che ho
tenuto nascosti… ma lui è il mio migliore amico.
E
sono stato un coglione a non calcolarlo e ad escluderlo. Sono un
cretino, lui lo sa da anni… quando saprà tutto forse
sarà
peggio. Pigio il pulsante del citofono.
«Chi
è? »
«Sono
Martin, c’è Cameron?»
«No,
non c’è.» Le mie spalle si abbassano senza che me ne
renda conto. «Ma arriva presto, è uscito solo
per un attimo! Vuoi salire?»
Questa
forse è violazione di domicilio, anche se autorizzata. Salgo le scale e mi ritrovo davanti alla sua
porta di casa socchiusa, la spingo un po’ per entrare e mi ritrovo davanti lo
specchio a muro diviso in tanti rettangoli dai vari riflessi di me. Per istinto
mi tiro la maglia, la sento troppo aderente e quello che vedo è… stanco,
sconvolto. Respiro, dico: «Buonasera, signora Dixon.»
Arrivo
in salotto: il solito divano arancione, la carta da parati beige e il
televisore ancora grande, dei modelli vecchi.
«Ehi.» Una voce alta, conosciuta, familiare. Viene fuori dal cucinino insieme a lei,
con i capelli legati e una camicetta scollata, con i lineamenti simili ma più
addolciti… la sorella di Cameron. «Cam sta arrivando. Vuoi andare in camera
sua? »
«Non
importa. » Accenno un sorriso, in automatico. «Aspetto qui. »
«Ok…
ma è successo qualcosa, vero? »
Mi
lascio andare sul divano un momento prima di sentire la sua voce, sospiro, mi
passo una mano fra i capelli; lei fa il giro della stanca e si appoggia alla poltroncina di
fronte a me. «Holly, sul serio… meglio non parlarne.»
«Mio
fratello è un tantino giù. L’ho visto poche volte così, e mai per così tanto
tempo.»
E lo è per colpa mia, lo è perché mi
sono dimenticato di lui e me ne sono ricordato che era troppo tardi. Lo è
perché anche quando sai che qualcuno ci sarà sempre, non
devi mai lasciartelo alle spalle sicuro di quel sempre. Devi sostenerlo, quel
sempre. Non devi camminare avanti. Devi aspettare ed essere raggiunto. Fare
un respiro e raccontare le cose che ti hanno offuscato il cervello.
«Già…»
Con
chi gioco alla playstation? Con chi litigo per il joystick? Chi mi farà sentire
bene quando andrà tutto di merda? Chi viene alle feste con me? Chi si
addormenta sul mio letto con i piedi sul cuscino? Chi devo sfottere per
l’altezza quando sono io ad essere troppo alto? Chi riempirà il fottuto vuoto
della mia vita?
«Martin?
»
«Mhm?»
«Hai
una cosa fra i capelli…»
Chi
è che dirà “che figata” ogni volta che lo faccio entrare nella palestra di
casa? Chi mi dirà che sono un nullafacente con un sorriso che non mi fa sentire
colpe? Chi è che mi dirà “no problem” quando i problemi, invece, ci sono? Chi
potrà essere il mio migliore amico se non è lui?
Ed
è a quel punto che sento il respiro, il respiro di Holly sulla mia pelle e la
sua mano mi sfiora un orecchio, a togliermi via quella che sembra una piccola foglia
secca, con quel sorriso che mi ricorda suo fratello ma che ha quella linea ancor
più sfacciata, allo stesso tempo armoniosa…
«Che
succede qui? »
Mi
alzo in piedi, subito, mi volto. Cameron non guarda da nessuna parte in
particolare, non guarda me e sento solo il caldo eccessivo che mi travolge il
corpo quando sto per andare in bestia. Perché cazzo non mi guardi? E poi alza
il viso su di me, e mi ricordo di quanto Holly mi fosse vicina quando ho
sentito la sua voce e la rabbia si trasforma in vergogna.
Holly
rompe il silenzio. «È passato Martin.»
«Lo
vedo. »
Cameron
continua a guardarmi solo per qualche secondo, qualche secondo per dirmi non è
qui che dovresti essere, e lo fisso negli occhi, gli occhi che negli anni sono stati sempre gli stessi, quelli
che riconoscevo anche se scoperti a malapena da dei fori in una maschera di
halloween quando eravamo bambini.
Imbocca
il corridoio per raggiungere la sua stanza ed io lo seguo e mi sento un idiota,
sempre e ancora di più, sento che sta per cadere un masso enorme su tutte le
cose che credevo non sarebbero mai state cambiate.
«Non
pensare che io e Holly…»
«Non
sei più mio amico, Martin.» Mi arriva addosso con il dolore di un liquido che
scortica la pelle. «Non mi frega più.»
«Cam, piantala.»
«Sei
tu che dovresti smetterla.»
«Tutte
tranne lei, » dico. Mi passo una mano fra i capelli e sospiro,
sospiro perché
il masso deve essere caduto e, anche se non mi ha ucciso, pesa sulle
spalle. Mi
farà cadere. «E infatti Holly non c'entra niente. E non ho
cambiato "compagnia" se è quello che voi sapere. Davvero,
è una cosa complicata e sono venuto qui per...»
«Come
faccio a saperlo, Martin, eh? » Uno spintone. Il muro contro la schiena.
Cameron con gli occhi accesi, neri, senza felicità, senza più niente. «Ti
conosco da quando eravamo poppanti e che cosa hai fatto da quando hai
cominciato a darci con le ragazze? Volevi, prendevi. Chiedevi, avevi. Squadra
di football, squadra di hockey, squadra di baseball, l’ultima volta la squadra
di backet… dovevi fartela sempre con la ragazza di qualcuno della squadra,
dovevi sempre combinare un qualche casino e alla fine, non l’hai visto? Non
l’hai visto?!» Sbraita, le braccia piegate per toccarsi la nuca, i muscoli
tesi. «O te ne andavi tu, o ti cacciavano loro. Ti hanno tutti voltato le spalle! Nemmeno i tuoi cazzo di soldi li hanno
fatti restare! Niente li ha fatti restare! » Respira, respira forte.
E
invece tu sei rimasto. Sei rimasto a costo di essere lasciato indietro
solo perché stavi con me. Sei rimasto con il mio carattere da
schifo, sei rimasto
nonostante le mie abitudini, sei rimasto anche se sono una persona
orrenda. Che
cosa hai visto in me, Cam? Un amico? Forse è l’unica cosa
che sono stato
davvero, e ho fallito anche in questo.
Ieri
sera mi sono rinchiuso in palestra e ne sono uscito solo quando il respiro è
cominciato a pesare insieme a tutto il resto. Ancora adesso, dal terrazzo della
scuola, respirare pesa: mi richiede uno sforzo che non c’è mai stato come se
inalare l’aria non fosse più necessario. Forse non lo è più. Forse è un modo
per aiutarmi a stare male mentre vedo Sarah che se ne sta in disparte nel cortile
della scuola. Si siede su una di quelle panche vicino al
terreno e si liscia una ciocca di capelli fra le dita. Mi sento scavare dai
suoi occhi azzurri che guardano altrove, ed è così bella che sento il crack
delle ossa che si attorcigliano insieme ad ogni altra cosa che mi ritrovo nella
corazza del corpo.
Mi
chiedo quanto ancora dovrò pagare per questo. Stringo le mani sul ferro della
ringhiera fin a far diventare le nocche bianche al pensiero che non mi è
rimasta altra persona di Doreen… che viene pagata. Ma me lo merito, in fondo.
Non mi merito tutte le cose che posso ancora avere e non merito nemmeno quelle
che avevo una volta. E poi sento un rumore, un rumore proprio vicino a me: al
mio fianco c’è qualcuno, una persona qualsiasi che si sposta la visiera del
cappello della squadra di Baseball della città e poi poggia i gomiti sulla
ringhiera. Istintivamente, lo imito nello strano shock di trovarmelo davanti di
sua spontanea volontà.
«Senti.» Si passa una mano sul mento seguendo la linea della rasatura. La sua voce si
fa densa di qualcosa che sembra imbarazzo. «Quando ti ho detto “tutte tranne
lei”…» Ci risiamo.
«Cameron…»
Ma
lui mi ferma le parole con uno sguardo che sembra esasperato, stanco,
impaziente. «Tutte tranne lei. Intendevo qualunque
“lei” ci avrebbe messo i bastoni tra le
ruote.» Si passa una mano sul viso, la carnagione chiara ma
più scura della
mia. «Ho sempre
pensato che Holly sarebbe stata un guaio, per noi. Ti guarda come ti
guardano
tutte. Solo che... insomma, non fa niente se ti piace. Non voglio
sapere che cosa ci fai, ovviamente, e se le spezzi il cuore ti spezzo
io, ma tu sei il mio migliore amico e... insomma, la pianto. Hai
capito?»
Sorrido. Sorrido senza guardarlo mentre lo vedo gesticolare e fare quell’espressione corrugata e… sì, questo è Cameron. Questo è lui.
«Holly non c'entra. Vuoi vedere la ragazza che ci
ha messo i bastoni fra le ruote? »
«Che?!» I
suoi occhi sono attraversati da un guizzo, una piccola luce nel suo nero.
«Andata.» Il pugno che contro con la mia mano mi fa capire che possiamo essere
ancora quelli di una volta.
«Guarda
verso le panche, quella castana.»
«Non
vedo niente.»
«Apri
gli occhi.»
«Li
ho già aperti.»
«E
sforzati un po’.»
«Mhm…
» Assottiglia gli occhi, si toglie completamente il cappello e fa una smorfia.
«No, dai. »
«Cosa?
»
«Voglio dire… guardala.» Indica con il braccio verso una certa direzione, la seguo con lo sguardo e… quella che passa è una ragazza ma... è quella rompipalle della classe di biologia. Se quella non è un orribile, ma proprio orribile, io sono…
«Però posso capire, Martin. In fondo.» Si stringe nelle spalle. «In
periodo di carestia, ogni buco è galleria.» Scoppia a ridere.
No,
non possiamo tornare ad essere quelli di una volta.
Lo
siamo ancora.
Rido
anch’io, gli do una pacca sulla spalla. «Hai sbagliato, genio.» Cameron
aggrotta le sopraciglia. «È la ragazza seduta.»
Ha
la stessa espressione di quando risolve un’espressione
matematica,
assomiglierebbe a un finanziere se non fosse vestito come il
protagonista di un
qualche cartone animato. Poi si volta e mi ride in faccia.
«Carina... abbiamo lastessa classe di biologia! Niente male,
certo. Sicuro che non mi stai raccontando una scemenza?»
«Lo
vorrei proprio. »
«No…
ti sei… ehm… hai battuto la testa, sei caduto…» Ti sei innamorato?
Non
riesco adire altro che non sia: «Una bella merda». Perché lo è davvero, lo è in
ogni momento, lo è perché so che non esiste nessun’altra Sarah Pierce al mondo,
non esiste nessuna che arrossisce in quel modo, non esiste nessuna che resiste
nel modo in cui lo fa lei, non esiste nessuna che mi fa svegliare dal sonno del
mio mondo come lei ha fatto.
«Be’,
dovrai farmela conoscere. »
Sbuffo.
«Non
mi parla nemmeno più. »
«NO.»
«Sono
un coglione.»
«Non
dicevo “no” a quello.»
Lo
guardo di traverso, e lui si mette in una di quelle posizioni che prevedono
l’appoggiarsi a una qualche superfice liscia, quella posizione che dice “sono
fantastico, ammiratemi. Niente bava grazie”.
Gli ho fatto una cattiva influenza, assolutamente.
Fatto
sta che adesso devo raccontargli tutto, proprio tutto. Così quando dirò di
nuovo “bella merda” saprà a cosa mi riferisco per intero.
Quando
finisco di parlare lui sembra impassibile, incredulo. Sono certo che adesso dirà qualcosa di intelligente.
«... E non avete nemmeno fatto sesso.» Scuote la testa. «Be’, sei messo proprio male, amico.»
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Ciao a tutti! In questo capitolo troviamo solo Joe e Martin. In particolare vorrei dire qualcosa sulla parte di Martin e la sua discussione con Cameron. Ho sempre trovato l'amicizia fra ragazzi qualcosa di davvero spontaneo, privo di invidia. Ho pensato allora che dopo il periodo di "latitanza" di Martin Cameron se la potesse prendere molto all'inizio, soprattutto dopo la "presunta" cosa di Holly, anche se alla fine si sono chiariti. Spero di essere risultata realistica.
E nulla, nell'ultima parte c'è la battuta sulle gallerie e ci tengo a precisare che non è di mia completa invenzione ma l'ho sentita da un mio amico, con tanto di mia faccia shockata/rassegnata LOL... lo ammetto, prendo ispirazione dalla realtà :)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto :) Grazie mille a tutti coloro che recensiscono, ai nuovi arrivati, a chi c'è da tanto... vi adoro *-*
Un bacio e al prossimo