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Autore: yeahitsmarts    10/11/2013    3 recensioni
La chiamata avviene soltanto una volta nella vita, dopo di che la tua esistenza diventa un semplice rincorrersi nel tempo e nello spazio. Lo sa bene Gabe, l'unico viaggiatore consapevole di ciò che lo aspetta nel corso delle sue innumerevoli rinascite. I suoi compagni (uno per ogni continente) non ricordano praticamente nulla o, quando lo stanno per fare, muoiono in circostanze misteriose.
Fermare il male è davvero il loro compito principale o c'è qualcosa di più potente e oscuro dietro la loro missione?
Gabe, Helga, Shani, Yurim e Connor affronteranno il viaggio più difficile di sempre, pieno di ostacoli, di partenze, di addii. Cinque ragazzi dalla vita apparentemente normale che dovranno prendere una decisione più difficile di quanto pensino. Il male e il bene sono davvero ciò che sembrano?
Dreamtime, che il viaggio abbia inizio.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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04 // Il filo rosso.
"lei è inarrestabile, imprevedibile,
io sono così annoiato, misurato, sbagliato."

Con enorme riluttanza, Helga afferrò la fune che la sua insegnante di educazione fisica le stava tendendo. Quando prese tra le mani quella cordicella, sentì un brivido percorrerle l'intera schiena: erano almeno due anni che non si azzardava a dedicarsi all'attività fisica ed ora era in palestra, con tutti i suoi compagni sparpagliati sul campo, convinta che avrebbe fatto la figura della scema.
Si posizionò il più lontano possibile dalla visuale di Gabe che, con molta eleganza, aveva preso a saltellare alternando la gamba sinistra con la destra. 
Elke era seduta su una panchina con le gambe incrociate e il volto incorniciato da un mucchio di boccoli color rosso fragola. Era bellissima e con lo sguardo fisso sul suo dolce ragazzo. 
Aria le tirò una potente gomitata tra le costole, esortandola ad iniziare l'esercizio che la professoressa aveva spiegato mentre Helga era sommersa dai suoi pensieri depressi. Che stronzata imbambolarsi su una cosa tanto effimera.
Cercando di respirare regolarmente, Helga iniziò a muovere la corda cercando di non incespicare e cadere. Con molta sorpresa riuscì a completare tre serie da venti salti senza sbattere la testa sul pavimento o far ridacchiare i suoi amici. Il fiato però, alla quinta serie, iniziò a mancarle e, rallentando, si fermò di botto chiedendo alla professoressa il permesso di andare al bagno.
Perse almeno una quindicina di minuti nello spogliatoio, dove, aprendo la finestra, si mise a fumare una sigaretta. Spruzzò il deodorante per l'ambiente di Aria e finalmente decise di avviarsi verso il bagno. Sgattaiolò furtiva per non farsi rimproverare dalla professoressa e, una volta oltre la porta, si accinse a bere un po' d'acqua fresca. 
«Ancora non si è accorta della tua assenza, ma credo che tu abbia tre minuti per rientrare. Fra pochi iniziamo con gli addominali» la voce alle sue spalle la fece sobbalzare e per poco non si strozzò bevendo. 
Tossicchiò mentre Gabe le tirava forti pacche sulla schiena e ridacchiava allegro. 
«Perdonami» aggiunse in seguito, quando Helga era finalmente riuscita a tornare in posizione eretta «Non era mia intenzione spaventarti o almeno... Non fino a questo punto».
La ragazza non poté fare a meno di sorridergli ma la sua espressione tornò accigliata e seria immediatamente «Potevi uccidermi» Gabe scosse il capo mentre le si passava la manica della felpa sulle labbra.
«Ti ringrazio dell'informazione, comunque» gli soffiò sul viso mentre alcune goccioline le colavano dal mento per andarlo a bagnare sulle spalle. L'intenzione di Helga era di apparire distaccata e sensuale ma , certamente, aveva fallito miserabilmente. 
Una volta tornata in palestra, passando davanti Elke, quella la fulminò con lo sguardo. Helga riuscì a reprimere l'impulso di risponderle male con molta fatica e passò oltre, sdraiandosi accanto ad Aria che sembrava davvero presa da quell'esercizio.
«Come riesci ad eseguire il tutto senza fatica?» bofonchiò Helga più per sé che per l'amica. Quella la fissò con sguardo truce e continuò per un altro minuto prima di risponderle: «Innanzitutto non mi metto a parlare a vanvera. Se stessi zitta risparmierest....» ma la ragazza la interruppe bruscamente, quasi offesa da quella sua uscita: «Ho capito, ho capito! Quanta cattiveria» e, per il resto della lezione,  se ne stette da sola in disparte senza spiaccicare più parola con nessuno.

La lezione di storia dell'arte fu una vera noia mortale per l'intera classe. Il professore continuava a parlare della somiglianza tra alcuni disegni dell'età della pietra con civiltà maya e via dicendo, insistendo sull'esistenza degli alieni e di basi extraterrestri sparse in tutto il mondo.
«Per la prossima settimana vi assegno quindi un tema proprio su questo argomento, cercate di approfondire questa tesi con disegni e illustrazioni, anche prese da internet». 
Helga avrebbe voluto avere una pistola per minacciarlo a morte: ma che razza di compito stupido e senza senso gli aveva dato? Alieni, uomini primitivi, civilità maya!
La ragazza si fece coraggio e, con molta spavalderia, alzò la mano mentre i suoi compagni di classe continuavano a prendere appunti sul diario. 
Il professore Herrmann, un simpatico olandese di Leida sulla cinquantina e con un sorriso prorompente, fissò quella mano per aria con abbastanza disgusto. Sapeva già perfettamente quale polverone avrebbe alzato con una polemica la cara alunna Van Der Meer. 
Non potendo fare a meno di ignorarla, poiché tutti avevano già sospettato il suo intervento, decise, con un enorme sbuffo, di darle parola. 
«Mi scusi eh» iniziò più scocciata e arrogante che mai. Parlare davanti ad un mucchio di gente non era esattamente ciò che amava fare, ma in quel caso era di vitale importanza. 
«Vorrei soltanto farle notare che tutta questa storia è un mucchio di... Di...» si sforzò di cercare una parola che non fosse 'stronzate' «Balle».
La classe scoppiò in una risata generale mentre qualcuno, dagli ultimi banchi, acclamava quel generoso intervento. Helga li ignorò e fece di tutto per non offendere il professore «Nel senso, non che lei sia un incompetente, ma trovo tutti questi suoi alieni, uomini primitivi e disegni sui muri...» 
Il professor Herrmann non le diede neanche il tempo di completare il pensiero. Inforcò gli occhiali e con due enormi falcate le si posizionò davanti. Sentì Aria sospirare appena, probabilmente aveva anche alzato gli occhi. L'uomo però continuava a fissarla intensamente, con una strano sorrisetto sul volto. 
«Helga, che gli alieni esistano o no, che i maya abbiano disegnato o meno le stesse figure rappresentate dagli uomini primitivi» fece una pausa teatrale e con un ampio gesto del braccio indicò la classe «Non puoi negare che siamo tutti legati da un impercettibile filo rosso. Se soltanto qualcuno di voi avesse ascoltato la mia lezione più attentamente, avrebbe capito che l'intero ragionamento sarebbe finito qui» andò a sedersi sulla cattedra mentre le idee della ragazza non facevano altro che confondersi.
Erano addirittura arrivati a fare psicologia? Assurdo.
«Il nostro destino è legato a quello degli uomini di centinaia di anni fa. I nostri gesti, pensieri, sorrisi, amori, amicizie. Tutto!» tuonò così forte che persino Gabe quasi si spaventò. 
Helga scuoteva la testa, ogni singola parola che quell'uomo stava pronunciando era praticamente illogica e stupida. Destino? Gli uomini programmavano il proprio futuro a piacimento, senza essere vincolati da una forza più potente.
Quella sbuffò «Caso, destino, stiamo scherzando? Il futuro è nostro, siamo noi che lo costruiamo con le nostre mani, altrimenti saremmo soltanto delle marionette in mano a qualcosa» 
«O qualcuno» aggiunse il professore correggendola
«Sì, o qualcuno che decide che cosa faremo o diventeremo. È impossibile. Sono io che al momento decido cosa fare, come reagire. Nessuno può comandarmi» e ne era pienamente convinta. Nonostante fosse una cosa assolutamente sbagliata, teneva testa perfino a sua madre, figuriamoci se un animo ribelle come lei poteva essere domato da un'essenza che neanche esisteva.
La conversazione in classe era degenerata, tanto valeva continuarla. Era diventato più un dialogo intimo tra il professore ed Helga perchè gli altri ne approfittarono per farsi i propri affari, a parte Gabe, parve alla ragazza, più attento rispetto alla classe. 
«D'accordo Helga, pensa a due ragazzi che ogni giorno prendono lo stesso autobus. Sono due anime gemelle che, se solo si incontrassero, sarebbero destinati a stare insieme per il resto della loro vita. Ma c'è un piccolo problema: la ragazza sale sempre una fermata dopo che il ragazzo è sceso. Ora dimmi, è destino, o caso? O nessuno dei due?»
Helga evitò di ridere di cuore e rispose secca e senza giri di parole: «Questa è sfiga, niente di più». Avrebbe voluto aggiungere dell'altro, dire che quel ragionamento era praticamente contorto e impossibile, ma preferì chiudere la questione lì: quel dibattito le aveva già tolto troppo tempo.
Probabilmente il professore pensò la stessa identica cosa. Diede un colpetto alla cattedra, si alzò in piedi e ricordò la classe l'appuntamento per il museo di Van Gogh. 
«Non dimenticatevi, dopodomani ore otto e quarantacinque davanti all'entrata. Vi ricordo che è vietato scattare foto, toccare i quadri e girare filmati. Vi prego di non comportarvi come bestie e attenetevi alle regole dato che ritengo che siate abbastanza grandi e maturi».
Ah, la gita. 
Helga c'era andata soltanto una volta, da più piccola, in quel museo che le pareva un labirinto enorme. A diciassette anni, almeno, avrebbe appreso ancora di più i segreti celati dietro quelle meravigliose tele. Non stava più nella pelle di girovagare in completa solitudine tra le sale, di leggere le lettere del pittore scritte al fratello Theo, di consultare la biblioteca, i computer messi a disposizione dei turisti.
Ma qualcosa, dentro di lei, le suggeriva che sarebbe stato meglio starsene a casa, era sicura che vecchi ricordi l'avrebbero aggredita alla sprovvista, facendola sprofondare in un buco nero dalla quale non sarebbe più uscita.
***

Shani si coprì gli occhi dalla debole luce che filtrava dalla finestra della camera. Si era svegliata dieci minuti prima del previsto e si sentiva eccitata e riposata. 
Vagò con lo sguardo in giro per la sua stanza finchè non vide, appoggiata alla porta di legno tinta di verde, la sua valigia finalmente pronta. Si alzò lentamente e raggiunse la madre che allegra le stava preparando la colazione.
«Tesoro!» esclamò vedendola lì, già bella pimpante e sorridente «Già in piedi?»
Shani si passò una mano nei  vaporosi capelli ricci e si strinse semplicemente nelle spalle «Non sto più nella pelle anche se ho un po' di paura, tutto quel tempo lontana da casa».
La madre le passò una tazza stracolma di latte con caffè e una confezione di cereale, poi si posizionò davanti alla figlia, con i gomiti sul tavolo. 
«Stai semplicemente partendo per una vacanza studio di un mese, mica vai in esilio» ridacchiarono all'unisono e la donna più anziana sorseggiò il suo caffè.
«Tra l'altro» proseguì cercando comunque di sopraffare l'emozione «Sarai ospite di tuo zio, non è uno sconosciuto. È mio fratello, anche se un po' svitato ma comunque l'hai conosciuto!» concluse con un sorriso.
Shani continuava a masticare i suoi cereali al cioccolato, guardando assiduamente l'orologio «Certo, è venuto qui quest'estate, ma comunque... Mamma, è lontano» la donna si alzò per abbracciarla e le diede un buffetto sulla guancia «Lo so, e non è neanche uno dei posti più caldi del mondo, ma ti adatterai, vedrai» poi, controllando il display del cellulare, si tirò una sonora manata in fronte «Accidenti come corre il tempo! Mangia e preparati in fretta, dobbiamo scappare in aeroporto!».
A quel pensiero la ragazza sorrise. Un mese lontana da Città del Capo, dalla sua casa, da sua madre e dalle sue amiche. Trentuno giorni di completa solitudine con l'esclusiva compagnia di quello svitato di suo zio Ghali in una città completamente sconosciuta.
«Shani, tesoro! Mi raccomando di non dare retta a mio fratello nel caso in cui ti inviti a fumare con lui. Non drogarti!» si assicurò la mamma dalla sua camera da letto, mentre la testa era infilata nell'armadio in cerca dell'ennesimo giacchetto pesante da infilare in valigia.
Shani ridacchiò a bassa voce, diede l'ultimo sorso alla sua tazza di latte e corse in bagno.
Amsterdam la stava aspettando.
***

Le chiavi di casa non riuscivano ad infilarsi nella toppa. Probabilmente sua madre era tornata e le aveva dimenticate nella porta, lasciando così la ragazza sul pianerottolo. Citofonò cinque volte, giusto per assicurarsi che non ci fosse nessuno, e poi si sedette sconsolata sulle scale. 
Dieci minuti più tardi, la madre accorse ad aprirle con indosso solamente un accappatoio di spugna rosa. Helga le lanciò un'occhiata eloquente ma decise comunque di non rimproverarla, né di litigarci: avrebbe sprecato soltanto preziose energie. Lasciò la cartella in corridoio, scavalcò una scatola di scarpe gettate in mezzo e si chiuse in camera. 
Una leggera pioggia iniziava a cadere sulla città. La ragazza sospirò ed accese il suo portatile nella noia più totale. Aprì il cassetto dove nascondeva la sua riserva privata di erba e...
Un'imprecazione rimbalzò per tutta casa Stoffer/Van Der Meer. 
Helga si alzò di scatto dalla sedia e si fiondò in salone, dove sua madre e Anton stavano intenti a guardare la tv. Lei si parò davanti a loro, con l'odio nello sguardo e le mani sui fianchi.
«Okay, non voglio dare la colpa a nessuno ma dove cazzo sta la mia erba?».
La donna e il compagno si scambiarono occhiate interrogatorie, a parlare fu l'uomo: «Non puoi incolpare noi da l momento in cui ieri siamo stati tutti il giorno fuori e siamo ritornati soltanto poco fa».
Helga lo osservò a lungo, in silenzio. 
Trattieniti e non scoppiare, si ripeté mentalmente, trattieniti e non saltargli addosso.
«Ah, a proposito, dove siete stati ieri? E perchè non una sola chiamata, né un bigletto?»
Questa volta fu la madre a parlare. Struccata e con i capelli legati appariva più anziana di quanto non fosse. «Anton ha pensato di regalarmi un giornata alle terme vista la situazione in casa. Ma comunque non siamo stati noi, sai che a me quella roba fa schifo e sono pienamente contraria anche al fatto che tu ne faccia uso». Ma certo, Helga lo sapeva perfettamente e fumava a casa anche per infastidirla.
Nonostante la calma apparente, stava iniziando a perdere la pazienza.
«Senti, ne posso ricompare a centinaia, davvero, ma se non salta fuori abbi almeno la pietà di ridarmi i trenta euro, sai com'è, anche se cresce per terra la compro, mica la rubo» si stava chiaramente riferendo ad Anton, lo guardava negli occhi minacciosa. Quello scoppiò in una fastidiosa risata, scacciandola con la mano.
«Ti ripeto che siamo tornati poco fa, non ho fumato io la tua White Window»
Bingo.
Helga per poco non prese a schiaffeggiarlo «Non ho mai parlato di White Window. Come diavolo facevi a sapere che era quel tipo e non un altro? E non venirmi a dire che te l'ho detto io perchè il mio comunicare con te è davvero limitato. Adesso dammi i trenta euro».
Anton sembrava completamente spiazzato dalle accuse della ragazza. Non c'erano dubbi che le stesse dicendo il vero e che i soldi le spettassero, ma la madre decise comunque di intervenire.
E non per difendere la figlia.
«Scusati immediatamente con Anton e dimentica questa storia dei soldi».
Contro ogni aspettativa, Helga non si mise a piangere, non sentiva neanche il groppo in gola. Non scappò, né si chiuse in camera a gridare isterica. Fissò le due figure beffarda mentre accennava un impercettibile inchino «Oh, oh miei sovrani, vi ho forse mancato di rispetto?» cantilenò. 
«Adesso, se me ne date il permesso, mi chiudo nelle mie stanze a riflettere sul mio terribile comportamento. Certamente, e scusatemi se non ci ho pensato prima, il folletto dell'erba si è intrufolato nel mio cassetto, ha fumato tutte le mie riserve e poi, con molta grazia, è salito sulla spalla del caro Anton, suggerendogli il tipo di marijuana. O forse è semplicemente un indovino?».
Quelli rimasero a bocca asciutta, Helga concluse il teatrino e diede un violento pugno sul tavolo di legno «Dov'è il vostro rispetto per me? Quei soldi li avevo messi da parte, erano i risparmi di ogni volta che ti ricordavi di darmi qualcosa e io spendevo poco per la merenda. E poi ti chiedi come mai ero finita con il diventare una ladra».
Non aggiunse altro, accennando un'altra riverenza, indietreggiò fino in camera sua, dove, finalmente, si accese una sigaretta mentre fuori il diluvio era appena cominciato.


Angolo dell'autrice:  un capitolo di passaggio ma di vitale importanza, 
dal prossimo verranno a galla tantissime cose!
Assolutamente niente è lasciato al caso
(eheh), fate quindi attenzione a tutti i piccoli particolari.
Tornerò presto, davvero prestissimo, promesso.
Grazie ai lettori silenziosi, a chi ha lasciato una traccia
del proprio passaggio, a chi mi consiglia.
Grazie di cuore.
  
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