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Autore: Roxar    13/11/2013    8 recensioni
Un giorno mi sono svegliato e ho capito di desiderarti.
[Slash | OS]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Autore: Nyah_
Fandom: Originale > Romantico
Genere: Romantico, Introspettivo
Avvertimenti: Slash
NdA: Una cazzatina scritta davvero in dieci minuti, ma boh, mi piace. Un po'. Voglio regalarla a due persone: alla Nali, che è sempre pronta a s(o)upportarmi e alla Frency, che mi manca da morire, lei e i suoi vaneggiamenti fangirlanti. Vi voglio bene, girls. ♥

 

____

 

 

Un giorno mi sono svegliato e ho capito di desiderarti.

Avevo quattordici anni e un’erezione dolorosa ogni volta che, nello spogliatoio, mi davi le spalle e ti sfilavi la maglietta, ti voltavi per dirmi qualcosa che non riuscivo ad ascoltare e ti toglievi i pantaloncini sudati e uno dei tuoi molti paia di slip neri. Sebbene inesperto, goffo e impacciato, avrei voluto prenderti per mano, condurti nel cubicolo soffocante della doccia e fare ciò che avevo visto fare in innumerevoli porno gay.

Ma avevo quattordici anni, ero inesperto, goffo, impacciato e mi sentivo un perdente ogni volta che ti lasciavo entrare nella doccia senza riuscire a seguirti.

Un giorno mi sono svegliato e ho capito di essere pazzamente geloso.

Avevo sedici anni e una bolla rovente schiacciata tra il cuore e lo stomaco, che esplodeva quando avevo la sventura di incrociarti in cortile, abbarbicato ad una ragazza di cui non avresti ricordato il nome, o il colore degli occhi, o il suono della voce. Sebbene furioso e frustrato, incoraggiavo le tue mire espansionistiche – come eri solito ripetere – e lodavo le tue conquiste. Non chiedermi perché lo facevo; forse volevo solo nascondermi, perché nonostante tutto, talvolta i tuoi occhi mi soppesavano più del necessario, come in procinto di carpire un segreto che avrei tanto voluto affidarti.

Ma avevo sedici anni e non ero pronto e vivevo in una perenne commistione di rabbia e frustrazione e iniziai ad odiarmi perché andavi via con loro, lasciandomi indietro.
Non capivi.

Un giorno mi sono svegliato e ho capito di amarti.

Avevo vent’anni e correvo disperatamente nel corridoio quasi accecante del quarto piano, dove tu riposavi da qualche parte dietro una delle molte porte che fregiavano le mura della terapia intensiva. Mi avevano chiamato nel cuore della notte per dirmi che la tua auto era uscita di strada e che nel tuo sangue avevano trovato un tasso alcolemico schifosamente alto. Dopo aver parlato con un medico e avergli spiegato la tua disastrosa, penosa situazione famigliare, mi fu concesso di vederti. Eri un bambino rattrappito, troppo piccolo in quel letto dalle bianche lenzuola abbaglianti. Ho pianto qualche lacrima quando, con i polpastrelli, ho sfiorato la gommosa superficie di un tubicino che sprofondava nella tua mano pallida; ho pianto come un disperato quando ho fatto il conto dei bendaggi e delle suture, implorandoti di restare ancora un po’.

Ma avevo vent’anni e non trovavo proprio il coraggio di aprirmi, dirti che ti amavo. Mi sentivo un codardo e avevo l’impressione che il mio amore, che avrebbe dovuto salvarti e proteggerti in tutti quegli anni, era solo un grandissimo fallimento.

Un giorno mi sono svegliato e tu eri al mio fianco.

Avevo ventidue anni e un dopo–sbronza da paura. Mi sentivo come se mi avessero smontato e riassemblato alla rinfusa, senza seguire il libretto delle istruzioni. La testa era solo una massa spugnosa, umida, pesante e dolente. E poi c’eri tu. Un braccio sotto al cuscino, una gamba accavallata alla mia, nudo come molte volte ti avevo visto. Come molte volte ti avevo desiderato. Ripercorsi velocemente la notte prima, fendendo con la volontà la foschia dell’ubriacatura sino a rivederti, bello e forte e sbronzo, premuto contro di me, bisognoso di me. Non potevo ricordarlo, non del tutto, eppure ero certo fosse stato il miglior sesso della mia vita (sebbene tu, nei giorni a seguire, avresti liquidato la faccenda come una cazzata tra amici).

Ma avevo ventidue anni, ero cresciuto e non potevo evitare i primi sentori di un incipiente senso di colpa che, invero, mi avrebbe perseguitato anche negli anni a venire.

Un giorno mi sono svegliato e tu eri sulla porta di casa mia.

Avevo ventiquattro anni ed erano le quattro del mattino. Sul tuo viso – non lo dimenticherò mai – c’era un sorriso che mi era alieno, mai incontrato prima. Il volto stesso della più pura felicità. Senza che ti avessi invitato, mi balzasti addosso e urlasti qualcosa nel mio orecchio. Ti invitai a ripetere, non trattenendo un sorriso confuso davanti alla tua euforia. E tu obbedisti. E io avrei voluto non avertelo chiesto.

Perché avevo ventiquattro anni, ero innamorato di te e tra due mesi ti saresti sposato.

Un giorno mi sono svegliato e tu eri nuovamente sulla porta di casa mia.

Avevo ventisei anni ed erano le nove del mattino. I tuoi occhi castani erano cerchiati da pesanti ombre bluastre, tutto in te gridava sfinimento e voglia di andare a dormire per almeno una settimana. Ma sorridevi, di un trionfo che, in tutta la mia vita, avrei solo potuto immaginare, ma mai capire. Mi comunicasti che il tuo bambino era appena venuto alla luce. Che l’avevi chiamato come me. E io, per Dio, avrei solo voluto prenderti a calci come un dannato bastardo e mandarti via, lontano dalla mia casa, lontano dalla mia vita.

Perché avevo ventisei anni e Dio doveva avermi condannato ad amarti per sempre.

Un giorno mi sono svegliato e ho capito di essere cresciuto.

Avevo trent’anni e sapevo di amarti ancora. Ritrovavo ora il ragazzino sfrontato che si spogliava davanti a me, ora il mio fragile amico ingabbiato in un letto d’ospedale, ora l’ubriaco amante che eri stato anni addietro, quando ti eri preso anche l’ultima parte di me. Ti ritrovavo ovunque, anche e soprattutto nella curva infantile del sorriso di tuo figlio. Negli occhi azzurri pieni d’amore di tua moglie. Eri ovunque, nel tempo, nello spazio, in tutto quello che c’era stato e che sarebbe venuto, in questa vita e in tutte le altre a seguire.

Ma avevo trent’anni e sapevo di dover andare avanti, pur amandoti, pur restando inscindibilmente legato a te.

E anche adesso, che all’età di ottantaquattro anni mi approssimo a morire in questo sterile letto d’ospedale, il mio pensiero non può che andare a te. Sarai l’ultima immagine di questa vita, la prima di quella che verrà – se verrà. Sarai l’ultimo legame con questo mondo, con questo corpo. Sarai qui mentre io andrò avanti e camminerò, camminerò fino a fermarmi a riposare, ad aspettarti – il più tardi possibile, è inteso.

E, non posso negarlo, nutrirò, durante questo mio lungo cammino, la speranza che un’altra vita possa esserci, meravigliosa come la prima, ma diversa, magari migliore.

Magari con te.

Magari insieme.

   
 
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