“I can remember
stories
Those things my mother said
She told me fairy tales before I went to bed
She spoke of happy ending, then tucked me real
tight
She told me everything, she said he’d be so
nice
He’d ride up on his horse, and take me away one
night
I’d be so happy with him, we’d ride clear out
of sight
Se never said we would curse, cry and scream
like that
She never said that maybe someday he’d say
goodbye
The story ends as stories do:
Reality steps into view
No longer living life in paradise
No fairy tales, no
No royal kiss could save me
No magic spell to spin
My fantasy is over
My life must now begin”
Anita
Baker, “Fairy
tales”
.
Going
offstage
“Raccontami una storia…”
Il sole è un disco perso all’orizzonte, rosicchiato dai profili aguzzi delle montagne, brillante di una luce altrettanto sbrecciata e tagliente.
“Una storia che non hai mai raccontato a nessuno…”
Non c’è nessun indizio che anticipi l’arrivare della sera. Quel rosso diffuso potrebbe essere tutto, potrebbe essere il sangue dell’ennesima giornata di massacri, potrebbe essere il riflesso dell’arenaria, l’ennesimo miraggio del deserto.
Il riverbero colpisce i loro occhi stanchi, confondendosi nella polvere alzata dagli scarponi pesanti.
“Non sono brava a raccontare.”
Il suo tono è addolcito dalla stanchezza, stemperato in un sospiro che sa decisamente della fine di una lunga giornata.
“Non importa.”
Seduta sul ciglio del sentiero diroccato, lei non confessa di non ricordare neanche le favole più stupide e fantastiche dell’infanzia. I suoi occhi neri, che paiono inchiodati alle pietre del suolo polveroso, e la sua schiena curva, non lasciano spazio a un no.
“C’era una volta un uomo…”
Nessun principe: le eroiche imprese troppo lontane, troppo fantastiche, troppo irreali.
“Un uomo che voleva cambiare il mondo…”
Lui ascolta, lo sguardo ancora impantanato tra la polvere del sentiero, e cerca, attento, di intravedere tre i granelli scarlatti ciò che lei narra.
“Ma era solo un uomo, un uomo debole e mortale. Perciò dovette cercare dei compagni valorosi e fedeli che lo aiutassero a realizzare il suo sogno…”
Lo vede chiudere gli occhi, abbozzare un sorriso stanco, o forse solo tristemente disilluso.
“Non ne trovò molti, perché per tutti era chiaro che quel sogno fosse un’utopia. Ma le persone che decisero di seguirlo, lo fecero perchè il sacrificio non li spaventava, e la bellezza di quell’utopia disperdeva ogni dubbio…”
Non sa come la sua testa sia finita sul suo grembo, né perché la sua mano sporca stia scompigliando delicatamente le ciocche scure.
Non lo ha mai provato sulla sua pelle, ma sente che è quello, il gesto di una madre che non ha conosciuto, quello che immagina accompagni storie del genere, prima di dormire.
Il fucile e il paio di guanti sudici, appoggiati ad un masso distante, si ricoprono lentamente di sabbia e luce.
“E’ un esercito di sciocchi, di sognatori. Le loro uniche armi sono la tenacia e la fedeltà a quell’uomo, a quell’ideale. Ma sono lì, al loro posto, determinati a raggiungere un sogno lontano anni luce, per trasformarlo in ‘qualcosa che è diventato possibile’…
La sirena della tregua notturna diffonde il suo lamento tra le gole e i crepacci riarsi.
Il suo respiro si frammenta, il petto si alza, vibrando incerto: una risata.
“E’ vero, non sei brava a raccontare: mi sembra che a questa storia manchi qualcosa… Sì: una principessa da salvare, bellissima e pura… ”
Riza si guarda le mani, bianche, quasi pallide nel nero dei suoi capelli – un mondo di bianco, nero e rosso in cui sta dimenticando l’esistenza degli altri colori.
“Non esiste una creatura simile.”
Lui si alza, sospirando un “Forse hai ragione” poco convinto, impastandolo in un mezzo sorriso.
Si scuote la polvere di dosso, fa lo stesso con le sue spalle esili, dopo averla tirata su, quasi di peso – nemmeno una creatura così leggera e incorporea dovrebbe esistere - dal masso piatto su cui sedeva.
Le sistema il mantello logoro, lisciandolo lungo le braccia, ripiega con cura il bavero della divisa, come se stesse vestendo una bambola inanimata, concentrato.
Lei raccoglie il fucile, sistema la tracolla, si carica sulle spalle il suo peso tremendo con una leggerezza e un’indifferenza che incutono timore e pietà allo stesso tempo.
“E poi?”
Sembra perdere momentaneamente l’equilibrio, a quelle parole.
Cerca la risposta tra la sabbia che scivola via dalle sue mani, ne segue i movimenti come se stesse leggendo l’oracolo di una tribù perduta.
Poi si scusa, con un sorriso piccolissimo – lui è abituato a quei sorrisi, tanto che quelli degli altri gli sembrano troppo grandi, troppo aperti e ingombranti, al confronto.
“Non ricordo altro…”
“L’uomo debole sposerà la principessa?”
“Non c’è alcuna principessa!”
“Ma ci sarà?”
“Non lo so…”
Si incamminano verso il campo, rientrando nelle loro parti di ufficiale e recluta, trovandole ancora una volta scomode e strette.
“E’ una strana storia…”
“Le favole sono sempre strane.”
“Mi piacerebbe sapere come va a finire…”
Il palcoscenico si riempie di gente, i soldati camminano stanchi tra le tende, preparandosi al gelo della notte, alla solitudine delle ore che precedono una nuova battaglia, al buio che è piovuto dal cielo senza mezzi termini.
Si salutano vicino al fuoco, la mano di lui che le scorre sul braccio, una pacca amichevole che ha perso la sua intenzione e la sua identità.
“Anche a me…”
“Ricordo
storie, certe
cose mia madre mi raccontava
Mi diceva storie di
fate prima che mi addormentassi
Parlava di finali
felici e poi mi rincalzava stretta
Mi parlava di tutto,
di come sarebbe stato gentile
Di come sarebbe
arrivato sul suo cavallo bianco e mi avrebbe portato via, una notte
Di come saremmo stati
felici, cavalcando oltre la vista.
Non mi ha mai detto
che avremmo imprecato, urlato e pianto così
Non mi ha mai detto
che un giorno lui avrebbe potuto dirmi addio
La storia finisce come
tutte le storie:
la realtà si intravede
all’orizzonte
non più storie fatate,
no
nessuna vita in paradiso
nessun incantesimo da
lanciare
la fantasia è finita:
la mia vita deve ora
iniziare…”
Sono
particolarmente
affezionata a questo capitolo perché è stato uno
dei primi (o addirittura IL primo,
non ricordo…).
La canzone che ho
citato (e di cui per una volta mi sono ricordata di aggiungere la
traduzione…^^”)
l’ho trovata dopo e mi è sembrata più
che perfetta per rappresentare quello che
volevo dire con questo capitolo.
In qualche
modo comincia
a delinearsi quello che sarà il loro destino dopo la guerra,
e mi piaceva molto
il fatto di raccontarlo sottoforma di favola, come se nessuno dei due
ci
credesse poi così tanto. Poi, NOI sappiamo bene come
è andata a finire… ^^”
Inoltre ho
aggiunto
anche una piccola considerazione più o meno implicita su
Riza e il suo (breve)
legame con la madre: penso che il momento delle favole serali siano i
momenti
che ricordiamo più volentieri dell’infanzia
(almeno, per me è n po’ così) e
anche i momenti che rappresentano di più il passaggio di
esperienze e
insegnamenti da un genitore (soprattutto una madre) al/alla figlio/a.
Il
finale… beh, bisogna
che continui ad avvicinare tra loro questi due imbranati cronici,
sennò non
arriveremo mai dove voglio arrivare (ah ehm…).
Comunque
sia, grazie mille
(ancora e ancora:
non mi stancherò mai
di dirlo) per i vostri commenti e il supporto continuo che mi date! ^^
Un bacione, a presto!