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Autore: Andrewthelord    14/11/2013    1 recensioni
Agghiacciante cross-over tra il film “Fracchia la Belva Umana” e l’anime “Kaitou Saint Tail” (Lisa e Seya).
È arrivato in Giappone il più importante dipinto del novecento italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Non solo Saint Tail (Seya), anche la Belva Umana (Paolo Villaggio) è sulle sue tracce. Riusciranno Asuka jr (Alan) e il Commissario Auricchio (Lino Banfi) ad impedire l’ennesimo furto? E Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) verrà ancora utilizzato dal suo sosia per i suoi loschi piani?
Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una fan fiction nonsense, ma di una vera e propria storia in cui i personaggi sono loro stessi e non delle caricature.
Sono ben graditi i commenti, anche brevi!
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Andrea

 

 

 

43 Saint Tail

 

Non c’era solo Genichiro.

Nella famiglia della giovane studentessa Meimi Haneoka altre persone avevano scelto di vivere di applausi, nutrendosi dell’amore delle folle e del brivido della perfomance. Se Genichiro Haneoka, infatti, era tuttora uno dei maghi più quotati del mondo, la pro-zia Rikka[1], 83 anni portati benissimo, era stata, tra gli anni ’50 e gli anni ’70, una delle stelle più luminose del circo europeo. Quando il circo era ancora il circo, e sotto il tendone clown, trapezisti, giocolieri e bestie feroci mostravano a un mondo appena uscito dall’orrore di una guerra mondiale che sognare in grande era possibile.

Dalle lande devastate dal conflitto della Renania ai deserti del meridione della Spagna franchista, migliaia di ragazzini attendevano per mesi, a volte anni, il passaggio delle carovane dei Chipperfield, degli Orfei, dei Togni. Il circo rimaneva in paese per cinque, massimo sei giorni. Ed erano giorni stupendi, intrisi del caramello appiccicoso dello zucchero filante, delle mele candite, dei pop corn salati, della frutta secca a mezzo sacchettino il soldo. I bambini ammiravano bestie fino ad allora sconosciute e le raffrontavano con le illustrazioni a pastelli dei loro libri di scuola, trovandone gli errori, mentre nei loro cuori, con l’entusiasmo e lo spirito di emulazione tipico dei più piccoli, si ricavavano il loro spazio i mimi francesi con la loro simpatia, le cavallerizze italiane capaci di saltare da un Frisone occidentale[2] all’altro con una leggiadra piroetta, i lanciatori di coltelli turchi coi baffi a punta e le loro procaci assistenti vestite come Liz Taylor nei film in costume, i giocolieri dalle mani veloci e gli acrobati. Già, gli acrobati, come Rikka Haneoka.

Quando, a trenta metri d’altezza, passo dopo passo superava l’abisso camminando senz’asta lungo una fune tesa di sette centimetri di diametro, pure il pubblico più esigente di Monaco, presieduto da un giovane principe Ranieri, taceva, e, col cuore in gola mormorando in silenzio una preghiera, attendeva il momento nel quale il piede della poco più che ventenne ardita, proveniente dal paese delle Geishe, avrebbe toccato la piattaforma in legno alla fine del percorso per prorompere infine in un applauso così fragoroso da spandersi per tutto il mar Tirreno.

Un’esibizione sublime, carica di pathos e di emozione, ma che a Rikka non bastava, volendo superare in bravura tutte le sue amiche e colleghe. Rese più difficile il suo numero, lo migliorò, lo affiancò ad altri sfoggi di destrezza. Conquistò in lungo e in largo i tendoni di tutta Europa, e, ancora giovane, di punto in bianco, si ritirò. Lo fece mentre era ancora sulla cresta dell’onda, provocando un vero e proprio shock nell’ambiente circense, che si ritrovò orfano di una stella che avrebbe potuto splendere ancora a lungo. Ma Rikka aveva ben altro per la testa, anzi, per la pancia. Un ben altro tutto rosa di tre chili e mezzo, biondo come il padre, con gli occhi neri e grandi della madre e bello come il sole. Ma questa è un’altra storia.

Meimi era cresciuta aspettando con trepidazione le pur frequenti riunioni di famiglia degli Haneoka. Nonni, prozii, cugini vicini e lontani, una festa continua: gli Haneoka, infatti, pur essendo in tutto e per tutto (con qualche eccezione) dei giapponesi purosangue, venivano considerati dai più austeri vicini e conoscenti come mancanti di una o più particolari rotelle. Assieme alle abilità dell’anziano e irrequieto prozio Kentaro, capace di far sparire una moneta dal palmo della mano e di farla riapparire lesto nella dentiera del non altrettanto simpatico e narcolettico zio Taro, assieme alle doti canore dello zio Ashikaga, attore di Noh[3] in pensione, le frotte di cuginetti Haneoka, un numero esorbitante di marmocchi castani, si mettevano lì imbambolati ad ascoltare i racconti della vecchia zia Rikka. E così si perdevano nelle storie di quanto era bella Grace Kelly il giorno del suo matrimonio al quale lei – unica giapponese – era stata invitata, di come fosse bello quell’argentino Manuel Fangio, amico fraterno della solare Evita Peròn, capace di lasciarsi dietro tutti, a bordo della sua Alfa Romeo, nelle strade adamantine del principato di Monaco. Ma al di là dei tanti racconti sui ricevimenti delle teste coronate nella vecchia Europa, i cuginetti Haneoka morivano dalla voglia di udire dalla sua voce, ancora giovanile per una cariatide di tal guisa, le gesta spericolate dell’esile circense. Bocca spalancata, viso all’insù, i piccoletti sognavano e tremavano, rivivendo le suspance dei pubblici di altri continenti vissute più di cinquant’anni prima. Di quella volta che Rikka aveva deciso di sfidare la sorte saltando bendata al trapezio altalena, o di quel giorno che attraversò la fune senz’asta e senza rete di protezione…

«Ma come facevi?», gli domandavano sempre i ragazzini. Aspettandosi la stessa risposta. «Il trapezio e la fune… Bisognava sentirli», e sempre ripeteva quelle parole così elusive, ma paradossalmente vere: «l’allenamento, i sensi, la costanza, aiutano fino ad un certo punto… Ma è l’istinto che ti porta a sapere se quella è la serata in cui tutto il pubblico ti applaudirà con forza… O se andrai incontro a una fine terribile», insisteva, calcando le parole come fanno le nonne quando raccontano una fiaba ai loro nipotini, «è l’istinto che ti guida! Ascoltatelo!». Quelli che erano aneddoti interessanti per i cuginetti Haneoka, per la piccola Meimi divennero presto lezioni da assimilare. Perché Saint Tail, nonostante le lunghe preparazioni, i duri allenamenti, la tenacia, agiva prevalentemente d’istinto. Quel famoso sesto senso capace di farti trovare la via d’uscita in una situazione senza speranza. Un istinto allenato, affinato, approfondito e divenuto ormai imprescindibile per le attività da giustiziera della giovane maga.

E quella sera, mentre Meimi Haneoka, con la calzamaglia e il vestito di Saint Tail ormai strappato e bruciacchiato in più punti dall’esplosione sul ponte sospeso, correva disperatamente verso il Minato Art Museum, richiamata dalle strane parole del Vescovo, l’istinto parlava chiaramente: qualcosa di molto brutto era successo. Qualcosa di tremendo.

Con un piede toccava la cima di un comignolo mentre con l’altro, dopo un veloce balzo, era già sul culmine di una muretta. Quanto le mancava? Di solito, quando architettava i suoi colpi, arrivava in largo anticipo: non aveva bisogno di correre come una disperata se non per fuggire dal suo amato inseguitore. Ma quella volta era diverso. Quella era la serata in cui Saint Tail si era fatta trovare impreparata. Una serata che avrebbe cambiato in ogni senso la sua vita. Ma quanto le mancava? Ormai era questione di istanti, eppure, forse inconsciamente, una parte del suo corpo rallentava in maniera infinitesimale i suoi movimenti per ritardare, seppur di pochi secondi, il momento in cui sarebbe giunta a contatto con la tremenda realtà. Una realtà che si aspettava.

«Eccoci». E si ritrovò sopra il ramo più spesso di quella cryptomeria dalla quale aveva assistito alla fiera e baldanzosa partenza dei poliziotti. Parevano passati cent’anni: ma l’orologio, che dei fatti umani poco o nulla si interessa, stabiliva fermamente come non fossero passate più di due ore e mezza.

Nel parcheggio sottostante, posteggiate alla rinfusa, decine di auto tutte uguali: le berline di gamma media in dotazione alla polizia giapponese. «Sono qui, di nuovo…perché?».  Non era una domanda, ma un intercalare.

Un altro salto: osò scendere nel parcheggio, dribblò auto dopo auto, nella speranza che nessuno la notasse, si voltò e rivide i vetri rotti dalla rocambolesca fuga del disperato Fracchia. L’inaspettatamente veloce sedia a rotelle della Masamune era bastata a squarciare l’intera parete a vetri, ormai una profonda ferita nel fianco del Minato Art Museum, che di danni, per una serata, ne aveva già subiti abbastanza.

Il vociare proveniente dall’interno e le ombre di due o tre omazzi che fumavano silenziosi di fronte allo squarcio della vetrata, con l’aria profondamente malinconica, la rese ancor più cauta. Comprese come in quel frangente la scelta migliore fosse quella di dominare la scena dall’alto. Un balzo e si attaccò ad un’insegna, con un piede si diede una spinta e si ritrovò a penzolare da un cornicione: un altro salto ed era sopra il tetto del salone del Minato Art Museum. L’ala che ospitava i vasi Ming e che era stata scenario della cena di quella sera era infatti la più moderna: un solo piano, che si sviluppava per una miriade di metri quadrati. Un'estensione del tutto ragguardevole per i limiti imposti, di solito, dalle stringenti regolamentazioni edilizie di terra nipponica. Più a nord, invece, la struttura moderna si congiungeva con la parte più antica: una solida palazzina di tre piani che dominava il complesso come una villa di campagna domina su di un lungo porticato e le sue rimesse.

L’ampio lucernario da cui per tutta la serata la luna aveva avuto la possibilità di benedire con i suoi raggi d’argento la strana ma romantica cena di Meimi e Asuka, ora le avrebbe fatto capire, dal suo scorcio, che cosa diamine fosse successo per costringere tutti gli uomini di legge a far ritorno al museo.  E fu uno squarcio sull’orrore più assurdo.

Vide un tessuto bianco con vistose e disordinate pieghe in più punti: al centro una vistosa macchia rossa. Gli occhi della ragazza non valutarono con precisione la distanza dal tetto, e suggerirono al cervello la possibilità che quel forte contrasto bianco e rosso potesse trattarsi, banalmente, di una tovaglia macchiata di vino rosso, tirata e sgualcita durante i disordini della serata. La luminosità della pavimentazione in granito però le fece capire che non di un tavolo si trattava, ma del pavimento. Il cuore le scoppiò in gola quando vide, al termine del lenzuolo, un indistinto oggetto scuro che si accorse essere uno scarpone di color nero. Un bastone da passeggio particolare, che aveva già visto prima, inconfondibile. Il rosso troppo rosso per essere del vino. Cadde sulle ginocchia, a pochi centimetri dal margine del lucernario. Un pezzo di vetro scheggiato le ruppe la calza in tensione. Fu un miracolo se non si ferì. Ma non le importava in quel momento.

Abbassò lo sguardo, boccheggiando, e comprese finalmente, per quello che erano, le strane parole del Vescovo. Un addio. Si sentì indegna di tutti i privilegi goduti durante la serata: la visita, in compagnia del sant’uomo, alla sezione del museo dedicata ai cristiani nascosti. Una visita che era stata una lezione di vita – l’ultima – che la ragazza aveva dato al Vescovo: anche se lei, in quel momento, avrebbe detto l’esatto contrario. Le parole sull’amore. La fiducia che sembrava riporre in una che la collettività e i suoi tutori avevano già etichettato come una delinquentella. E come se qualcuno avesse premuto un bottone, si sentì improvvisamente svuotata: non provò angoscia, nessuna lacrima, nessun pensiero. Solo una completa e desolante aridità.

Due occhi la fissarono. Due occhi arrossati come quelli di un bambino dopo un lungo pianto. Due occhi che conosceva, ma che mai si sarebbe aspettata di vedere così ridotti. Erano quelli di mons. Hikamura, taciturno e schivo vicario generale della diocesi giapponese. Il tipo, insomma, che dedicava anima e corpo alla gestione degli affari correnti – quelli più noiosi e tecnici – che ogni grossa amministrazione contempla, riservando al Vescovo le questioni a lui più care: i temi pastorali, la cura delle anime, la compilazione di messaggi pieni d’amore e ricchi di contenuto che però – lo sapevano tutti – ben pochi leggevano o comprendevano. A parte i giornalisti, che estrapolavano qualche frase ad effetto qua e là per sparare due o tre titoli. Una storia già sentita.

Hikamura era in piedi, a pochi centimetri dal corpo senza vita del Vescovo. Quando vide, sopra di sé, una strana ragazza col codino che fissava quel lenzuolo, fu tentato di gridare. Non pensò che potesse essere una complice degli assassini, o una malintenzionata: ma vedere una ragazza vestita in modo assurdo, di notte, sopra un tetto, nel bel mezzo della scena di un crimine efferato, avrebbe sbalordito chiunque.

«Lei arriverà». Prima che potesse aprire la bocca le parole del Vescovo gli rimbombarono dentro. “Lei chi?”, aveva risposto. «Fidati di lei», continuava la voce del Vescovo da dentro la memoria di Hikamura, da dentro la sua anima, dal luogo in cui era andato. “Chi è? Che cosa sta succedendo?” provò a ribattere confuso il vicario generale. «Aiutala», ribadiva il Vescovo. Parole, le ultime, che aveva pronunciato. Ma che forse stava pronunciando proprio in quel preciso momento, da qualche parte, dovunque fosse finito. «È giovane, ma crede più di noi che siamo vecchi», aggiungeva.

Lanciò il cuore oltre l’ostacolo: continuò a fissare la ragazza, ma la sua espressione era non più di sorpresa. Pareva tornato il boss della curia che era. Un ordine intimato con un movimento del capo appena accennato ma che pareva un urlo deciso: «Di qua».

La ragazza si riscosse e si mosse senza pensare nella direzione accennata dal corpulento sacerdote. “Obbedisco”, pareva dire. Scavalcò con un salto il lucernario, procedette di una decina di metri, fino ad arrivare ai limiti di un piccolo chiostro interno: una piccola porzione del museo che permetteva ai visitatori di riposarsi all’ombra di un salice tra un’esposizione e l’altra su una comoda panchina. Forse il vicario generale aveva pensato di parlarle proprio lì.

Il giardino era buio: nonostante ciò, la ragazza non ebbene alcuna difficoltà a calarsi dentro, e seppur fosse vestita con la calzamaglia nera, col tutù rosa e armentari vari dal peso superiore ai dieci chili, si sedette, come se fosse la cosa più naturale del mondo, sulla panchina.

Respirò a fondo. Era morto davvero. Era sempre stato il protagonista di quella piccola realtà cristiana in un paese dove i cristiani si contavano con le dita di una mano. Ed era anche grazie a lui se quella piccola realtà era riuscita a seminare così tanti fiori di bene. Ma ora non c’era più. Si sentiva, nel suo piccolo, come miliardi di persone si erano sentite alle nove di sera di quel 2 aprile 2005. Quando si spense la luce di Giovanni Paolo II. Smarrita. Impaurita per il futuro. Esausta. Ma una luce, se è luce, non può scomparire per sempre.  Quando la porta di plexiglas trasparente si aprì, per far passare un circospetto mons. Hikamura, la ragazza si alzò in piedi. E fece quel che riteneva giusto.

«Mons. Hikamura», salutò. Il suo tono di voce cortese, ma distante. Sebbene si fidasse del sacerdote – non aveva alternative – era la prima volta che la sua identità di ladra misteriosa appariva così disarmata di fronte a un altro essere umano. L’unica – al di fuori di lei – a conoscenza anche degli aspetti più intimi e segreti di Saint Tail era la giovane suora Seira. E quell’”obbedisco” di garibaldina memoria fu in sintesi un atto di violenza che la ragazza si fece.

«Tu… tu sei…» esordì Hikamura, scettico e dubbioso, «…la maga che finisce sui giornali… Saint Tail?». Anche lui si stava facendo violenza. A guidarlo nessun filo logico o razionale. Solamente quelle ultime parole arcane del pastore della diocesi.

«Sì», affermò lapidaria la ragazza. Non servivano ulteriori spiegazioni o precisazioni.

«Lui mi ha detto che saresti arrivata» replicò a stretto giro il vicario generale, con una velocità che non avrebbe consentito a Meimi di aggiungere altre parole oltre a quel sì. Non era un atto di maleducazione o di prevaricazione. Con quelle parole il vicario generale voleva vuotare il sacco, passare il testimone. Non sapeva che pesci pigliare. Hikamura era quello che sei mesi prima, quando era stato a Roma in occasione dell’ennesimo sinodo, si era portato via quattro valigie di libri nel caso gli fossero serviti. Non lasciava nulla al caso: quando doveva redigere una lettera pastorale o un documento programmatico ci teneva a completare il lavoro almeno due mesi prima della scadenza. Quando i parroci preparavano le prediche per l’Avvento lui aveva già pronte le meditazioni per la Via Crucis del Venerdì Santo. Era fatto così. Ed ora che la situazione non era per nulla in suo controllo, anzi, stava lì a giocare un ruolo marginale in una vicenda che lo aveva purtroppo coinvolto totalmente, era a pezzi. Quella ragazza era il suo ultimo, tragico, irrazionale appiglio.

«Cosa le ha detto con precisione?». Era una statua di ghiaccio.

Hikamura cominciò a perdere la sua consueta calma. Una maschera di cui aveva deciso di dotarsi nuovamente imboccando il corridoio e puntando verso il chiostrino. Ma che ora, crollava, inesorabilmente, di nuovo a terra. Si incurvò. I tratti di voce ogni tanto interrotti da un singhiozzo. E raccontò tutto. L’arrivo dei criminali, la confusione nella sala, gli ultimi istanti – eroici e folli al tempo stesso – di un piccolo e grande vecchio.

La ragazza rivisse ogni singolo momento con l’anima e con il corpo. Se lo immaginò, il vecchio vescovo, mentre avanzava lento ma deciso verso il feroce criminale. Ben sapendo che sarebbe andata a finire così. Ma doveva farlo. Non poteva fare altrimenti. Era quello stesso senso di giustizia profondo che la guidava. Che li guidava.

«Sapeva anche lei che sarebbe andata a finire così?» sorrise amaramente verso Hikamura.

«Sì», ammise, come riappacificato, il vicario generale. Alzando gli occhi al cielo come se lo volesse cercare tra le stelle che spuntavano nel firmamento.

«La sua ultima volontà, in qualche modo, era quella di impedire che alla Contessa venisse fatto alcun male», tirò le fila la ragazza.

«È per quello che l’ha ucciso».

«La riporterò sana e salva», quasi lo interruppe con sicurezza Saint Tail.

«Ma perché lo fai?» le domandò, quasi sconsolato, Hikamura. Umanamente non poteva comprendere il perché una ragazzina così giovane, seppur così dotata, avrebbe dovuto sacrificarsi, mettersi a rischio, per aiutare degli sconosciuti.

«Perché lo ha fatto lui?». Una domanda che comprendeva mille e più risposte. Hikamura, a tratti umiliato dal senso del dovere della ragazza, tacque.

«Io vado» la ragazza si avvicinò al sacerdote, nell’atto di compiere un inchino rituale pieno di rispetto.

«Aspetta», la anticipò Hikamura. «Non sarai solo tu, anche la polizia ha delle piste».

Piste? A quella parola Meimi cascò dal pero. Dove erano andati a cacciarsi la Belva e i suoi complici? In che lande potevano essersi andati a nascondere?

Prima aveva avuto tutto sotto controllo: o almeno così pensava. Le microspie, i Gps, le ricetrasmittenti. Adesso, in mano, non aveva nulla. Come rintracciare quei malviventi? Dove?

«La polizia», continuò Hikamura, «sembra avere delle idee. Ma non molto chiare. Da quel che ho capito, l’italiano senza capelli ha invitato i suoi colleghi a cercare qua e là. Credo siano disperati anche loro».

E fu in quel momento che Saint Tail dovette fare i conti con la realtà: non aveva nemmeno lei la benché minima idea della posizione o delle intenzioni della Belva. Ma qualcosa doveva pur tentare. Un lampo e un sussulto al cuore. Aprì lo smartphone. Due punti rossi stavano muovendosi in direzioni diverse. Una era la microspia sulla pelata di Auricchio. L’altra la cimice nella giacca di Asuka.

«So dove andare». Proclamò sicura la ragazza, prima di spiccare un salto e scomparire nella notte.

Il cervello non poteva, e del resto, non ne sarebbe stato in grado, di dirle dove la Belva potesse essere andata a nascondersi con cotanto ostaggio. L’unica voce che poteva ascoltare in quell’istante era la voce del cuore. “Segui Asuka”. Una voce irragionevole ma fortissima. E la seguì.

Hikamura la vide saltare sopra l’albero, poi sul tetto, infine, libera, verso la notte stellata.

«Va’, ragazza. Riportala indietro». Ad Hikamura non interessava granché della sorte della maleducata Contessa. Era sì un sacerdote, ma i sacerdoti non sono quelle figurine uscite dai catechismi tutte buone e care capaci solo di parlare d’amore e di perdono. Sono uomini come gli altri che hanno un peso in più, un peso che si sono scelti loro e che tutti, più o meno, sono felici di portare. Hikamura non era tanto diverso dalla media, ma ad una cosa, fermamente, credeva. Anche i suoi modi precisi, le sue ritualità maniacali, testimoniavano a gran voce il fondamento della sua vita: la profonda certezza che tutto avesse un ordine preciso nell’universo. Un ordine che poggiasse le sue fondamenta nel motore immobile teorizzato da Aristotele e riscoperto con la fede da san Tommaso.

Ebbene, quella sera, qualcosa si era inceppato in quel meccanismo. Un giusto era morto. Eroicamente, santamente, ma era morto. In quel momento, le tenebre avevano vinto. Ma era spuntata una luce: rosa e delicata, leggera e pura, sotto la forma di una ragazza piena di doti e di inventiva. Una ragazza che era divenuta un testamento vivente.

Hikamura pregò più forte verso il cielo. La vittoria di Saint Tail avrebbe riaggiustato quell’ingranaggio. E, cosa più importante di tutte, avrebbe confermato in lui quel poco di fede che può spostare le montagne.



[1] No, non è la famosa “zia ricca” di Filini, quella che gli passava gli abiti di seconda mano più improbabili del globo.

[2] http://www.ilportaledelcavallo.it/razze_dettaglio.asp?cod=31

[3] http://en.wikipedia.org/wiki/Noh                              

   
 
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