Colore
Non
avrei mai creduto che mi sarei potuta innamorare, non in una
città
fredda e triste come Londra.
Una
città grigia abitata da persone grigie.
Una
città caotica e rumorosa, dove nessuno ha mai tempo per
fermarsi a chiacchierare, per accompagnarti a bere un caffè,
per stare seduto su una panchina a guardare i fili d'erba che si
piegano al passare del vento.
Abituata
ad un paesaggio totalmente diverso, abituata a una soleggiata
cittadina toscana, consideravo Londra come il mio inferno personale,
il mio mondo grigio e spento.
Alla
fine, nella nebbiosa Londra, sono riuscita a trovare la mia nota di
colore, seppur un po' sbiadita...
Il
suo nome era Gabriel.
E,
all'inizio, mi innamorai solamente della sua musica. Era una musica
meravigliosa e dolce, che udivo da lontano, da spettatrice
inconsapevole, mentre distratta passeggiavo sul marciapiede.
Ascoltare quelle melodie era l'unico momento di placida
serenità
nella mia giornata frenetica. Inconsapevolmente, cominciai a essere
piena di gratitudine per quel pianista misterioso, che con la sua
musica mi allietava le giornate.
Una
sera d'inverno, un inverno particolarmente gelido, presi un po' di
coraggio e decisi di entrare nel locale dove sapevo suonasse il mio
misterioso musicista.
Il
locale era piccolo e avvolto da una sorta di accogliente penombra, e
i clienti avevano tutti un'aria distinta e non troppo giovane.
In
un angolo, un poco rialzato, stava un pianoforte a coda e a suonarlo
c'era lui.
Istintivamente,
posai lo sguardo sulle sue mani. Erano belle e affusolate e bianche e
si muovevano rapidissime ed eleganti, delicate e armoniose.
Cambiò
la canzone e le sue mani diventarono rabbiose e violente, tradivano
frustrazione.
Rimasi
a lungo incantata ad ascoltarlo, prestando solamente attenzione a
quella musica e alle sue mani leggere.
Mi
accorsi, probabilmente qualche ora più tardi, che il locale
era particolarmente vuoto, se non per me, il pianista e una coppietta
di anziani signori.
E
la musica cessò di riempire l'aria.
Prima
che il pianista potesse andarsene, decisi di avvicinarmi a lui,
lentamente e timidamente:
«Volevo... Volevo farle i miei
complimenti, è davvero molto bravo. Adoro la sua
musica.»
dissi, quasi in un mormorio, in piedi davanti a lui, in attesa di una
risposta.
Il
pianista abbassò lievemente la testa, in una sorta di
piccolo
inchino prima di ringraziarmi:
«Lusingatissimo.»
Sorrisi,
un pochino più sollevata, ma lui non ricambiò il
mio
sorriso.
«Ma
la prego» riprese poi a parlare, continuando a fissare un
punto
imprecisato alle mie spalle «Si sieda qui un
istante.» mi
propose, sfiorando con un gesto veloce e un po' incerto lo sgabello
su cui era seduto.
Ancora
una volta cercai di incrociare il suo sguardo, ma non ci
riuscì.
Qualche
secondo più tardi, però, compresi tutto.
Era
cieco.
«Ma...
Ma certo.» balbettai, il viso in fiamme, sedendomi accanto a
lui. Cominciai a sentirmi un po' a disagio e anche un po' stupida per
non aver capito subito.
Avevo
passato l'intera serata davanti a lui, ma avevo prestato attenzione
solamente al movimento delle sue mani, senza nemmeno notare il suo
sguardo immobile.
«Mi
perdoni.» sussurrò, senza nemmeno probabilmente
sapere
di essere vicinissimo al mio orecchio, allungando la mano verso di
me. «Potrebbe prestarmi la sua mano?» chiese, con
un
sorrisino.
«C-Come?»
sobbalzai, non riuscendo a capire.
«Mi
dia un attimo la sua mano, per favore.» ripeté,
divertito dal mio imbarazzo.
Posai
lentamente la mia mano sulla sua, era molto fredda. Strinse un poco
più forte e mi guidò verso la tastiera. Sembrava
sapere
esattamente quello che faceva.
«Li
vede, questi due tasti?» mi chiese, lasciando la mia mano
«Ecco, continui a suonarli.» concluse, mentre si
spostava
dall'altra parte della tastiera.
Un
po' esitante, posai l'indice sul primo tasto che mi aveva indicato e
subito dopo posai il dito medio sul tasto accanto. Mi domandai il
perché di quella musichetta infantile.
Il
pianista, soddisfatto, prese a suonare, abilissimo. Le due misere
note che continuavo a suonare cominciarono velocemente ad eclissarsi
al suono di quella nuova, meravigliosa melodia.
Approfittando
della situazione, presi ad osservarlo.
Sicura
che la sua musica fosse perfetta, mi ero ingenuamente convinta che
anche lui potesse essere perfetto e subito mi domandai se mi sarei
potuta innamorare di un uomo del genere.
Era
giovane e indubbiamente bello, ma la sua era una bellezza un po'
strana, quasi fin troppo antica e austera, c'era qualcosa di
innaturalmente elegante in lui che avrebbe messo chiunque in
soggezione.
I
suoi tratti erano ben marcati: viso leggermente affilato, naso dritto
e appuntito, labbra sottili.
Ma
ciò che più mi colpì furono i suoi
occhi: erano
quanto di più ipnotico e allo stesso tempo terrificante
avessi
mai visto. Erano di un azzurro intenso e chiaro, accesi e glaciali.
Erano occhi che ti guardavano ma non ti vedevano, ovviamente.
«Allora,
come le è sembrata?» troppo occupata a osservarlo,
non
mi ero nemmeno accorta che avesse finito di suonare.
«Molto...
Molto bella.» farfugliai, colta di sorpresa, mentre veloce
allontanavo la mano dal pianoforte.
«Ne
ero sicuro.» confermò, mentre un sorriso lieve gli
piegava le labbra.
* * *
Quanto
mi piacerebbe poterti guardare negli occhi, poter cogliere ogni tua
espressione, in questo momento.
Vorrei
sapere come si muove la tua bocca quando pronunci il mio nome.
Mi
piacerebbe vederti chiudere gli occhi e piegare leggermente la testa,
mentre la mia mano si posa sulle tue labbra e ne disegna il contorno.
Ti
bacio le labbra e gli occhi, sento le tue palpebre tremare.
Chissà
di che colore sono, i tuoi occhi. Non te l'ho mai chiesto.
Accarezzo
esitante i tuoi capelli, inebriato dal loro profumo: sanno di buono e
di dolce, sanno di qualcosa che mi ricorda tantissimo la vaniglia.
Il
tuo profumo mi sta facendo impazzire.
Le
mie labbra viaggiano sul tuo collo fino a posarsi sulla tua spalla,
le mie mani sfiorano ogni centimetro del tuo corpo e del tuo viso.
Scosto la spallina del tuo abito e lo faccio scivolare fino ai tuoi piedi.
La tua pelle è morbida e profuma come i tuoi capelli,
il contrasto con il gelo delle mie mani è evidente.
Sento
le tue mani spostarsi sul mio petto e il tuo respiro avvicinarsi al
mio orecchio.
È
questa la gioia? È questo l'amore? È questo il dolore?
* * *
Rimasi
a Londra per un periodo piuttosto lungo e trascorsi tutto il mio
tempo in compagnia di Gabriel.
Stare
con lui non era affatto facile.
Il
più delle volte era schivo e distratto, non parlava quasi
mai.
I suoi sorrisi si facevano giorno per giorno sempre più
rari,
nonostante facesse di tutto per essere il più allegro
possibile, quando stava con me.
La
sua condizione gli pesava terribilmente. Tante volte piangeva quando,
suonando il pianoforte, mi sedevo accanto a lui e posavo la testa
sulla sua spalla.
Gabriel
soffriva, aveva continue crisi.
Era
depresso.
Alla
fine, lui ed io ci siamo lasciati, ma è stata una
separazione
che non ha dipeso dalla mia volontà. E forse, nemmeno dalla
sua.
Gabriel
è morto. Suicida.
Una
mattina di febbraio, ancora mezza addormentata, sentii la sua voce
all'orecchio.
«Mi
dispiace.» mormorò, baciandomi dolcemente sul
collo e
lasciandomi confusa.
Compresi
quella parole solamente quella sera, quando a casa non lo trovai.