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Autore: Unintended    26/04/2008    3 recensioni
Non avrei mai creduto che mi sarei potuta innamorare, non in una città fredda e triste come Londra.
Una città grigia abitata da persone grigie. [...]
Alla fine, nella nebbiosa Londra, sono riuscita a trovare la mia nota di colore, seppur un po' sbiadita...
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Colore

Non avrei mai creduto che mi sarei potuta innamorare, non in una città fredda e triste come Londra.
Una città grigia abitata da persone grigie.
Una città caotica e rumorosa, dove nessuno ha mai tempo per fermarsi a chiacchierare, per accompagnarti a bere un caffè, per stare seduto su una panchina a guardare i fili d'erba che si piegano al passare del vento.
Abituata ad un paesaggio totalmente diverso, abituata a una soleggiata cittadina toscana, consideravo Londra come il mio inferno personale, il mio mondo grigio e spento.
Alla fine, nella nebbiosa Londra, sono riuscita a trovare la mia nota di colore, seppur un po' sbiadita...

Il suo nome era Gabriel.
E, all'inizio, mi innamorai solamente della sua musica. Era una musica meravigliosa e dolce, che udivo da lontano, da spettatrice inconsapevole, mentre distratta passeggiavo sul marciapiede. Ascoltare quelle melodie era l'unico momento di placida serenità nella mia giornata frenetica. Inconsapevolmente, cominciai a essere piena di gratitudine per quel pianista misterioso, che con la sua musica mi allietava le giornate.
Una sera d'inverno, un inverno particolarmente gelido, presi un po' di coraggio e decisi di entrare nel locale dove sapevo suonasse il mio misterioso musicista.
Il locale era piccolo e avvolto da una sorta di accogliente penombra, e i clienti avevano tutti un'aria distinta e non troppo giovane.
In un angolo, un poco rialzato, stava un pianoforte a coda e a suonarlo c'era lui.
Istintivamente, posai lo sguardo sulle sue mani. Erano belle e affusolate e bianche e si muovevano rapidissime ed eleganti, delicate e armoniose. Cambiò la canzone e le sue mani diventarono rabbiose e violente, tradivano frustrazione.
Rimasi a lungo incantata ad ascoltarlo, prestando solamente attenzione a quella musica e alle sue mani leggere.
Mi accorsi, probabilmente qualche ora più tardi, che il locale era particolarmente vuoto, se non per me, il pianista e una coppietta di anziani signori.
E la musica cessò di riempire l'aria.
Prima che il pianista potesse andarsene, decisi di avvicinarmi a lui, lentamente e timidamente:
«Volevo... Volevo farle i miei complimenti, è davvero molto bravo. Adoro la sua musica.» dissi, quasi in un mormorio, in piedi davanti a lui, in attesa di una risposta.
Il pianista abbassò lievemente la testa, in una sorta di piccolo inchino prima di ringraziarmi:
«Lusingatissimo.»
Sorrisi, un pochino più sollevata, ma lui non ricambiò il mio sorriso.
«Ma la prego» riprese poi a parlare, continuando a fissare un punto imprecisato alle mie spalle «Si sieda qui un istante.» mi propose, sfiorando con un gesto veloce e un po' incerto lo sgabello su cui era seduto.
Ancora una volta cercai di incrociare il suo sguardo, ma non ci riuscì.
Qualche secondo più tardi, però, compresi tutto.
Era cieco.
«Ma... Ma certo.» balbettai, il viso in fiamme, sedendomi accanto a lui. Cominciai a sentirmi un po' a disagio e anche un po' stupida per non aver capito subito.
Avevo passato l'intera serata davanti a lui, ma avevo prestato attenzione solamente al movimento delle sue mani, senza nemmeno notare il suo sguardo immobile.
«Mi perdoni.» sussurrò, senza nemmeno probabilmente sapere di essere vicinissimo al mio orecchio, allungando la mano verso di me. «Potrebbe prestarmi la sua mano?» chiese, con un sorrisino.
«C-Come?» sobbalzai, non riuscendo a capire.
«Mi dia un attimo la sua mano, per favore.» ripeté, divertito dal mio imbarazzo.
Posai lentamente la mia mano sulla sua, era molto fredda. Strinse un poco più forte e mi guidò verso la tastiera. Sembrava sapere esattamente quello che faceva.
«Li vede, questi due tasti?» mi chiese, lasciando la mia mano «Ecco, continui a suonarli.» concluse, mentre si spostava dall'altra parte della tastiera.
Un po' esitante, posai l'indice sul primo tasto che mi aveva indicato e subito dopo posai il dito medio sul tasto accanto. Mi domandai il perché di quella musichetta infantile.
Il pianista, soddisfatto, prese a suonare, abilissimo. Le due misere note che continuavo a suonare cominciarono velocemente ad eclissarsi al suono di quella nuova, meravigliosa melodia.
Approfittando della situazione, presi ad osservarlo.
Sicura che la sua musica fosse perfetta, mi ero ingenuamente convinta che anche lui potesse essere perfetto e subito mi domandai se mi sarei potuta innamorare di un uomo del genere.
Era giovane e indubbiamente bello, ma la sua era una bellezza un po' strana, quasi fin troppo antica e austera, c'era qualcosa di innaturalmente elegante in lui che avrebbe messo chiunque in soggezione.
I suoi tratti erano ben marcati: viso leggermente affilato, naso dritto e appuntito, labbra sottili.
Ma ciò che più mi colpì furono i suoi occhi: erano quanto di più ipnotico e allo stesso tempo terrificante avessi mai visto. Erano di un azzurro intenso e chiaro, accesi e glaciali. Erano occhi che ti guardavano ma non ti vedevano, ovviamente.
«Allora, come le è sembrata?» troppo occupata a osservarlo, non mi ero nemmeno accorta che avesse finito di suonare.
«Molto... Molto bella.» farfugliai, colta di sorpresa, mentre veloce allontanavo la mano dal pianoforte.
«Ne ero sicuro.» confermò, mentre un sorriso lieve gli piegava le labbra.

* * *

Quanto mi piacerebbe poterti guardare negli occhi, poter cogliere ogni tua espressione, in questo momento.
Vorrei sapere come si muove la tua bocca quando pronunci il mio nome.
Mi piacerebbe vederti chiudere gli occhi e piegare leggermente la testa, mentre la mia mano si posa sulle tue labbra e ne disegna il contorno.
Ti bacio le labbra e gli occhi, sento le tue palpebre tremare.
Chissà di che colore sono, i tuoi occhi. Non te l'ho mai chiesto.
Accarezzo esitante i tuoi capelli, inebriato dal loro profumo: sanno di buono e di dolce, sanno di qualcosa che mi ricorda tantissimo la vaniglia.
Il tuo profumo mi sta facendo impazzire.
Le mie labbra viaggiano sul tuo collo fino a posarsi sulla tua spalla, le mie mani sfiorano ogni centimetro del tuo corpo e del tuo viso. Scosto la spallina del tuo abito e lo faccio scivolare fino ai tuoi piedi. La tua pelle è morbida e profuma come i tuoi capelli, il contrasto con il gelo delle mie mani è evidente.
Sento le tue mani spostarsi sul mio petto e il tuo respiro avvicinarsi al mio orecchio.
È questa la gioia? È questo l'amore? È questo il
dolore?

* * *

Rimasi a Londra per un periodo piuttosto lungo e trascorsi tutto il mio tempo in compagnia di Gabriel.
Stare con lui non era affatto facile.
Il più delle volte era schivo e distratto, non parlava quasi mai. I suoi sorrisi si facevano giorno per giorno sempre più rari, nonostante facesse di tutto per essere il più allegro possibile, quando stava con me.
La sua condizione gli pesava terribilmente. Tante volte piangeva quando, suonando il pianoforte, mi sedevo accanto a lui e posavo la testa sulla sua spalla.
Gabriel soffriva, aveva continue crisi.
Era depresso.
Alla fine, lui ed io ci siamo lasciati, ma è stata una separazione che non ha dipeso dalla mia volontà. E forse, nemmeno dalla sua.
Gabriel è morto. Suicida.
Una mattina di febbraio, ancora mezza addormentata, sentii la sua voce all'orecchio.
«Mi dispiace.» mormorò, baciandomi dolcemente sul collo e lasciandomi confusa.
Compresi quella parole solamente quella sera, quando a casa non lo trovai.

  
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