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Autore: Ivola    15/11/2013    3 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Oddio, questo capitolo mi è uscito stranissimo, boh. O almeno, mi sembra strano.
Non ho molto da dire, fortunatamente. Forse solo che ci sono un po' troppi intervalli tra un paragrafo e un altro, ma non posso farci niente. 
E ricordatevi di shippare Klaus/Ludmille/Rafe come bromance x3 E ricordatevi anche che il prossimo capitolo segna la metà della storia (avevo sbagliato, i capitoli sono 31 prologo ed epilogo inclusi). Non ci credo neanche io :') Stiamo entrando nel vivo, ecco.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Search and Destroy" dei 30 Seconds to Mars.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ




















 

A Desideria,
che mi sopporta pure troppo ♥








 












Blur

(Tied to a Railroad)






014. Fourteenth Chapter – A million little pieces.




Klaus non aveva altri motivi per restare a Capitol City.
Dopo aver perso il proprio tributo – se ripensava al modo stupido in cui era morta quella ragazza gli prudevano le mani – non aveva niente da perdere: meno Hunger Games vedeva, meglio era. Non gli interessava nemmeno chi avrebbe vinto, si riteneva completamente distaccato ed estraneo a quei Giochi che la capitale voleva far passare per evento nazionale.
D’altronde l’essere lontano dal proprio Distretto lo innervosiva. Come l’essere lontano da London, ormai.

« E così te ne vai » disse la donna seduta sulla panchina della stazione accanto a lui, accarezzando il suo rarissimo esemplare di tigrotto bianco.
« Cosa resto a fare? » fece lui, sbuffando del fumo dalla sigaretta che si era appena acceso. « Dimmelo tu, Ludmille. »
« Lasci tutto il lavoro sporco a me » rispose lei con uno sbieco sorriso. « Non è l’atteggiamento che si addice ad un gentiluomo. »
Klaus la guardò con eloquenza, la sigaretta che gli pendeva dalle labbra sottili e metà del volto illuminato dalla luce del tramonto. « Ti sembro forse un gentiluomo? »
Ludmille scosse la testa ridacchiando.
« Spero che Titus vinca » disse sinceramente il ventunenne, tornando a guardare verso l’orizzionte acceso di colori. Sembravano molto più vivi, lì, che nel resto di tutta Panem.
Ludmille seguì il suo sguardo.
« Lo spero anch’io, anche se è un ragazzo… inusuale. »
« L’arena rende inusuali tutti, se non te ne sei accorta » ribatté aspramente lui.
« Forse hai ragione » replicò la donna, mentre Schatten scese dalle sue gambe per trotterellare tranquillamente sulla piattaforma della stazione. « Forse nessuno vince davvero. »
Klaus annuì, aspirando dell’altro tabacco. « Nessuno » ripeté.
Passarono qualche minuto in silenzio, quando un treno si fermò davanti alla piattaforma con un fischio. Alcuni capitolini scesero dai vagoni, mentre degli altri si apprestavano a salire. Klaus si alzò in piedi, trascinando con una mano l’unico trolley che aveva portato con sé.
« Stammi bene » disse alla donna, salutandola con un cenno della mano.
« Dì a Rafe che mi manca, se lo vedi » scherzò Ludmille, mentre l’altro mentore saliva su una carrozza scomparendo dietro una delle porte metalliche che si richiuse senza fare alcun rumore.

Il treno su cui era salito Klaus impiegò meno di una giornata per arrivare nel Distretto Sei.
Quando il ragazzo scese dal vagone, non trovò nessuno ad aspettarlo, come d’altronde era immaginabile. Non aveva avvisato nessuno del suo ritorno.
Senza aspettare oltre, s’incamminò per i vicoli polverosi trascinando laconicamente il trolley, notando quanto il Distretto fosse più desolato del solito. Probabilmente, in molti erano il lutto per la morte del suo tributo, tant’è vero che la zona in cui abitava quella ragazzina era costellata di abitazioni con le finestre sprangate. Christina – così si chiamava – aveva sedici anni e, la prima cosa che aveva fatto nel vederlo era stata scoppiare a piangere. Gli aveva detto di essere terrorizzata, gli aveva detto che aveva una famiglia numerosa a cui badare, perché viveva con i nonni e doveva occuparsi dei suoi fratelli più piccoli dopo la morte dei genitori.
Klaus non si sentiva emotivamente legato a nessuno dei suoi tributi, e il lavoro del mentore era probabilmente quello che meno gli si addiceva. Tutti i tributi passati sotto il suo esame – e morti – l’avevano detestato, perché non riusciva a non dare loro sempre lo stesso e unico consiglio: sopravvivere.
Lui era sopravvissuto. Fine. Non c’erano indicazioni particolari da dare, era tutta una questione di fortuna e furbizia.
Era il suo terzo anno da mentore, e probabilmente non sarebbe stato l’ultimo. La morte, ormai, gli scivolava addosso, per quanto questa cosa non lo facesse sentire lercio di sensi di colpa.
Raggiunse casa dopo una mezz’ora di camminata a piedi, arrivando nella zona più ricca del Distretto, dove si trovavano i due vecchi manieri e la sua villa, probabilmente molto simile a quelle che si trovavano nel vicino Villaggio dei Vincitori. Lui non aveva avuto bisogno di andare a vivere lì, perché una casa lussuosa già ce l’aveva.
Recuperò le chiavi da una tasca e, dopo aver attraversato il cortile andò ad aprire la serratura senza bussare. Per quanto avesse un’importanza irrilevante, era curioso di vedere la faccia di London quando sarebbe entrato in casa senza preavviso.
Sorrise di sbieco. Era stato via poco più di una settimana, ma gli era parsa lunghissima senza la sua presenza.
Entrando nell’atrio fu accolto da un silenzio innaturale, che lo lasciò interdetto per un istante. Fece qualche passo nervoso, quando, passando accanto alla cucina, udì qualcosa di molto simile ad un singhiozzo.

« London? » domandò, aprendo la porta. « Sono io. »
London era seduta al tavolo e si voltò non appena lo sentì entrare.  La prima cosa che Klaus notò furono i suoi occhi, rossi e stanchi e, dopo, le mani e le spalle che le tremavano. Respirava velocemente, come se fosse in preda ad una crisi o avesse difficoltà ad inspirare; ansimava come se fosse reduce da una corsa.
Il ragazzo impallidì immediatamente, lasciando la valigia e fiondandosi su di lei. 
« London, cosa è successo? »
London continuò a respirare irregolarmente e, quando il marito le appoggiò le mani sulle spalle per tranquillizzarla, lei affondò il viso nelle mani e prese a singhiozzare irrefrenabilmente. Klaus le si accovacciò accanto e, senza indagare oltre, le avvolse le braccia intorno alla schiena, permettendole di inabissare il volto nella sua spalla.
« Sei qui » singhiozzò London, stringendosi a lui come se fosse l’unica cosa importante in quel momento. « Sei… tornato. »
Klaus non l’aveva mai vista in uno stato del genere né aveva immaginato che potesse avere reazioni così drastiche come attacchi di panico. Doveva essere successo qualcosa, qualcosa di veramente negativo per portarla ad una condizione simile.
Avrebbe voluto chiedere ancora cosa fosse successo, ma fu direttamente London a parlare:
« Klaus, ho… ho… » inspirò ancora velocemente, tentando di calmarsi. « … ho perso il bambino. »
Klaus sentì le proprie gambe diventare di piombo, e il mondo crollare per l’ennesima volta. « Quando? » sussurrò appena.
« L’altro ieri » gemette la ragazza, premendo il viso contro il petto del marito. « E’ stato… è stato bruttissimo… »
« London, sta’ tranquilla » provò a dire, ma la voce gli morì in gola. Era colpa sua. Eccome se lo era. Solo e soltanto colpa sua.
« … mi ha fatto male » pianse London. « Ho urlato… e quando… quando ho visto… tutto quel sangue, io… io… » Non riuscì a continuare, e Klaus non la biasimò, limitandosi a stringerla a sé senza dire nulla. Le poggiò le labbra sulla fronte, e solo allora la ragazza cominciò a calmarsi, lasciandosi cullare dalle braccia dell’altro, unico suo appiglio in quel momento di panico e buio.
 

*


« Non ho voglia di parlare » disse Klaus, lapidario.
Ben abbassò la testa e prese a guardarsi la punta delle scarpe.
« Lo so. »
« E allora cosa sei venuto a fare? » domandò il moro non senza una nota irruente nella voce. « Non ho più bisogno del tuo aiuto. »
L’altro rimase fermo sull’uscio della porta e si strinse nel cappotto. « Ne sei sicuro? »
« Sicurissimo. Non venirmi a dire ciò di cui ho bisogno, credo di saperlo. »
Ben rialzò il viso per incontrare gli occhi scuri e stanchi di Klaus, fermi nei propri come per volerlo intimidire. Stava respingendo la sua gentilezza, e il moro era sicuro che non gli avrebbe fatto piacere, ma doveva farlo. Doveva.
« Mi dispiace » sussurrò Ben. « Volevo solo essere d’aiuto. »
« Non importa » fece bruscamente l’altro. « La vita va avanti. »
« E adesso cosa farai? » chiese l’albino, incapace di non esprimere la propria apprensione.
Klaus tentennò, spostando lo sguardo altrove.
« Niente » disse, semplicemente.
L’albino annuì con un’espressione amara, dopodiché si voltò e, percorrendo il cortile a ritroso, si avviò verso casa.
Klaus richiuse la porta con apparente noncuranza, mentre quella sensazione di vuoto dentro di lui premeva per farlo impazzire.

Il ragazzo rientrò nel salotto con una fumante tazza di tè bollente e, rivolgendosi alla moglie, disse con una smorfia: 
« Non che sappia preparare il tè, ma io ci ho provato. »
London rimase ferma, appollaiata sul divano tra i cuscini di velluto. « Non ne ho voglia. »
Klaus si sedette accanto a lei e le porse la tazza senza tante cerimonie. « Dài, magari non fa completamente schifo. »
La ragazza girò la testa dall’altro lato, caparbia, poggiandola sulla spalliera.
« Non voglio avvelenarti » protestò il marito, avvicinando il tè al viso di lei. « Bevilo, avanti. »
« Oh, e va bene! » si arrese London, prendendo la tazza dalle sue mani con svogliatezza. Bevve a piccoli sorsi, poi allontanò la bevanda dalla sua bocca e perse lo sguardo nel vuoto di fronte a sé. Poi, ancora, bevve un altro po’ di tè attenta a non scottarsi il palato.
« Com’è? » si interessò Klaus, che già normalmente non avrebbe preparato niente per nessuno.
« C’è di peggio » rispose London che, dopo aver finito di sorseggiare l’infuso, appoggiò la tazza sul tavolino basso di fronte al divano. Rimasero in silenzio per qualche minuto buono, con la sola compagnia dell’orologio a pendolo che ticchettava placidamente sopra il camino. La ragazza si accucciò in posizione fetale dopo essersi portata un cuscino dietro la testa. « Ho sonno » biascicò, chiudendo gli occhi.
« Sono soltanto le sei del pomeriggio » le fece notare Klaus.
« Voglio dormire. »
« Non hai già dormito abbastanza? » chiese retoricamente il ragazzo, ma senza essere troppo rude. London non rispose alla sua domanda, mormorando piuttosto qualcosa come: « Ho freddo. »
« Vieni qui » disse allora Klaus, allargando lievemente le braccia. London non se lo fece ripetere due volte e si lasciò circondare le spalle con un braccio mentre appoggiava la testa sul suo petto e piegava le gambe di lato per stare più comoda.
« Va meglio? » sussurrò il ragazzo.
London ancora una volta non replicò, limitandosi a stare immobile tra le sue braccia.
Klaus allora con l’altra mano le alzò il mento in modo che lo potesse guardare bene in viso.
« London » la chiamò, usando un tono fermo ma, da un lato, vagamente supplichevole, « non lasciarti andare così. »
La ragazza probabilmente non volle sentire altro. Lo baciò di slancio, impedendogli di parlare ancora. Non voleva parlare e non voleva ascoltare nessuno.
Klaus, per quanto la situazione glielo potesse permettere, rimase stupito da quel gesto. Era passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che si erano baciati; un tempo che forse sembrava troppo lontano.
Gli era mancato il tocco morbido e umido delle sue labbra rosee. Gli era mancato il respiro lieve di London sul suo viso.
Gli era mancato e gli mancava tutto.

 
*


London si rigirò nelle lenzuola.
« Tu sei pazza. »
Sorrise di sbieco. « Forse hai ragione. » La ragazza fissò il fratello con cipiglio determinato. « Non mi vengono in mente altre spiegazioni plausibili. »
Anche Ben imitò il sorriso amaro della gemella, accarezzandole un fianco nudo da sotto le coperte. « Ed io ti seguo a ruota. »
London non ribatté, chiudendo gli occhi, rilassata dalle carezze dell’altro.
« Non so perché lo sto facendo » mormorò il ragazzo. « Se dovessi abortire di nuovo, io- »
« Non succederà » replicò caparbiamente lei. « Vale la pena di fare un secondo tentativo, non mi arrendo così. »
Benjamin arricciò le labbra. « Io voglio solo aiutarti, non attentare alla tua salute. »
« Lo so » fece London, riaprendo gli occhi per incontrare quelli del gemello, accesi di parole non dette. « Senza di te non so cosa avrei fatto, davvero. »
Il fratello distolse lo sguardo, per poi puntarlo sul soffitto bianco della propria stanza.
« Se la prenderà con me » disse mestamente. « E ha ragione. »
« Chi, Klaus? » chiese flebilmente London. « No, sono stata io ad insistere o non l’avresti mai fatto, non dopo che ho perso il bambino. Glielo dirò, capirà. »
« Ho i miei dubbi » mormorò l’altro. « Ha tutto il diritto di arrabbiarsi. »
La ragazza ribatté prontamente: « Non mi interessa. »
Benjamin la strinse a sé con dolcezza, posandole un bacio sul capo. « Confermo: sei pazza, folle. »
London rise senza divertimento, abbracciando la schiena candida del gemello. « E cosa sarebbe la mia vita senza un po’ di follia? »
« Non ne ho idea » ridacchiò Ben, ugualmente senza calore. « Ma forse sarebbe leggermente più normale. »
La sorella gli baciò una spalla con delicatezza. « Meglio essere folli che normali»
L’altro chiuse le palpebre, lasciandosi catturare dalla stanchezza.
« Tu sei sicuramente più pazzo di me per sacrificarti così » sussurrò allora London, più seria che mai. « Grazie, Ben, sul serio. Sei il gemello migliore che potessi desiderare. »
Ben sorrise e le accarezzò i capelli. Per fortuna non ci era ancora arrivata, non aveva ancora collegato i pezzi del puzzle.
Sacrificarti così, aveva detto. London non sapeva che lui per Klaus si sarebbe sacrificato altre dieci, cento, mille volte.

 
*


La camera da letto era in penombra. Solo un lume sul comodino di London illuminava blandamente la stanza altrimenti buia.
Klaus stava per addormentarsi, con le gambe sotto le coperte e il busto appoggiato allo schienale del letto, ma stava semplicemente aspettando che la moglie lo raggiungesse. Si sentiva meglio se aveva la certezza che London dormiva tranquilla accanto a lui.
In quel momento la ragazza si stava spogliando di fronte all’armadio aperto, mentre ripiegava gli abiti disordinatamente. Klaus credeva che non ci potesse essere visione migliore. Seguì con gli occhi la linea della spina dorsale, delle spalle dritte, dei fianchi morbidi e del sedere tonico, notando quanto la sua pelle fosse invitante anche vista in quella luce. Scosse la testa, ricordandosi che probabilmente non aveva più il privilegio di poter pensare a London come una sua proprietà.
Non che lo fosse mai stata, ma quando erano stati a letto insieme aveva saputo, in un angolo remoto del suo cervello, che la ragazza si stava concedendo a lui non solo per la questione dell’erede.
Scrutò ancora il suo profilo sinuoso, ammaliato dalle sue movenze che – seppur stanche – gli riportavano alla mente quelle lunghe e passionali notti che avevano trascorso insieme quando tutto aveva almeno una parvenza di senso.
London, sentendosi osservata, voltò il viso e lo guardò da sopra una spalla. 
« Che c’è? » gli chiese bruscamente.
Klaus si lasciò sfuggire un piccolo ghigno.
« Ti dà fastidio essere guardata? »
L’altra gli scoccò un’occhiata eloquente. « In realtà mi dà fastidio tutto quello che fai. »
« Capisco » commentò il ragazzo, annuendo con un’espressione volutamente teatrale. « Ma non posso farci nulla. »
« Voltare lo sguardo da un’altra parte no, eh? » domandò caparbia lei, mentre si slacciava distrattamente il reggiseno.
Il marito ridacchiò. 
« Certo, London, certo. »
London portò le braccia all’altezza del seno in un gesto similmente imbarazzato, ma in verità non le importava che Klaus la vedesse nuda, lo faceva solo per provocarlo.
A volte si potevano permettere di tornare ai vecchi tempi, a volte potevano lasciarsi andare. Era come una distrazione.

« Ci sono cose molto più interessanti del mio seno e del mio culo » ribatté lei con velata malizia.
Klaus alzò le mani come per voler dichiarare di essere innocente.
« Non stavo guardando né l’uno, né l’altro » disse.
« E cosa, allora? » chiese London alzando un sopracciglio.
« Tutto l’insieme » rispose sinceramente l’altro. « Ad esempio, non avevo mai notato che tu e Ben avete le stesse fossette in fondo alla schiena. »
London indossò la maglietta del pigiama e chiuse l’armadio. « Ovvio, siamo geme- » Si bloccò improvvisamente, come se fosse stata colpita da un pensiero fulmineo. « Aspetta, che cosa hai detto? »

« Che stai facendo? » chiese, sconvolto, con ancora il – piacevole – sentore del sapore di Klaus sulla propria bocca.
L’altro scrollò le spalle. 
« Non ti facevo così stupido. »
Ben non seppe che rispondere. Ora le carte in tavola cambiavano.
« Io non sono London » disse infine, indignato.
« Me n’ero accorto » replicò il moro con un lieve sorriso obliquo.
L’albino si alzò in piedi di scatto, ma quel gesto improvviso gli provocò un terribile capogiro, tanto che barcollò per qualche breve istante, massaggiandosi una tempia.

« Le prime sbornie sono sempre le peggiori » commentò Klaus, pensieroso. « Un attimo ti senti bene, benissimo, e un attimo dopo… no. »
Ben cercò di sostenersi e gli si aggrappò ad una spalla. « Perché mi hai coinvolto in questa situazione? » si lamentò, socchiudendo gli occhi dallo stordimento.
Klaus parve rifletterci per qualche secondo. 
« Forse perché ti lasci coinvolgere facilmente. »
Era una frase sbagliata, subdola, ma Ben non riuscì a capire nient’altro perché si ritrovò nuovamente inchiodato dalle labbra dell’altro, decise come qualche istante precedente.
E forse Klaus non aveva tutti i torti, perché proprio quel Benjamin che tanto aveva cercato di corrompere rispose a quel secondo bacio senza esitare, con inaspettato trasporto.
Il moro, dopo una fievole iniziale sorpresa – quando mai un Bridge era stato così arrendevole? – si staccò di poco da lui. 
« Non qui » sussurrò, guardingo. « Qualcuno potrebbe vederci. »
A Ben forse non importava che qualcuno li avrebbe visti di sicuro, perché una profonda tristezza stava premendo per ucciderlo. E se non avesse fatto qualcosa subito per distrarsi sarebbe impazzito.
Era triste il fatto che si stesse consolando con Klaus, quando la sua amata Londie era arrabbiata con lui; era triste il fatto che si fosse ubriacato, quando si era ripromesso che non avrebbe mai toccato alcool in vita sua; era triste che in quel momento fosse attratto da una persona che non era sua sorella.

« Seguimi » gli disse Klaus, strattonandolo per un polso, eccitato per quella situazione così anomala eppure, in qualche modo, allettante.
Ben si guardò intorno, poi posò di nuovo gli occhi sul ragazzo e tutti i suoi pensieri si sfocarono.
Per una volta poteva anche trasgredire, no?


Klaus gli sfilò la maglietta impazientemente, seduto sul bordo del letto mentre aiutava l’altro a svestirsi. Più andavano avanti, più si domandava cosa stesse facendo. Essere ubriaco lo inebriava, ma sapeva benissimo che non lo aiutava a ragionare.
Stava baciando un ragazzo. Stava per andare a letto con un ragazzo.
No, non uno qualsiasi, ma Benjamin Bridge. Il gemello di London. Klaus si chiese se questo impulso improvviso fosse dettato dal fatto che lui in realtà non desiderava altri che lei, e forse andare con il fratello sarebbe potuto essere un buon diversivo.
Cercò di concentrarsi sul presente, e notò come Ben fosse improvvisamente arrossito nello stesso istante in cui l’aveva visto a dorso nudo.
Non potè trattenersi dal domandare: 
« Che c’è, ti metto in imbarazzo? »
« No » biasciò l’altro, stringendogli i fianchi per poi posargli un bacio casto all’angolo delle labbra. « E’ strano, non so come spiegarlo. »
Klaus lo guardò dritto negli occhi. « E allora non spiegarlo » disse con semplicità, e stavolta fu lui a baciarlo con trasporto.
Stava baciando Ben. Stava toccando Ben.
Stava
respirando Ben.
Perse qualche istante ad ammirare il suo corpo marmoreo, privo di visibili imperfezioni o segni particolari. Not
ò le clavicole leggermente sporgenti, le gambe toniche, il ventre piatto, il collo elegante e delle inusuali fossette sul fondo della schiena.

« Cosa succederà quando ci sveglieremo? » domandò l’albino, poggiando le mani fredde sul petto di lui.
Klaus rabbrividì a quel contatto – la sua pelle rovente era esattamente in contrasto con quella gelida dell’altro – e preferì zittirlo per non pensare alle conseguenze.
« Non lo so. Adesso basta parlare, watchie. »

Klaus si rese conto di quello che aveva detto solo dopo qualche istante che London restò a fissarlo con gli occhi spalancati. « Io… » provò a dire, ma non gli uscì niente. Quale scusa poteva inventare, d’altronde? In che contesto avrebbe potuto vedere il fondoschiena di suo fratello?
« Klaus » disse London, alzando il tono di voce. « Ripetimi quello che hai detto. »
Klaus serrò le labbra.
« Cosa ne sai delle fossette di Ben? Te l’ha detto lui? Le hai viste tu? E quando? » cominciò a domandare a raffica, prendendo a camminare nervosamente per la stanza.
« London » la chiamò il ragazzo, ma lei sembrava non ascoltarlo, immersa nelle sue considerazioni ad alta voce. « London, ascoltami. »
La moglie si voltò di nuovo nella sua direzione, con le braccia saldamente incrociate. « Avanti, parla. »
Klaus prese un lungo respiro. Non aveva più senso nasconderlo, a quel punto. « Io e Ben, qualche anno fa... siamo stati a letto insieme. »

 












   
 
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