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Autore: Codivilla    16/11/2013    5 recensioni
Si dice che non sempre nella vita sia tutto rose e fiori.
Per Mya Mercer, giovane e unica figlia di Anthony Mercer, pare proprio che invece sia così. Bella, intelligente e ricca grazie alla società di proprietà della sua famiglia, la Mercer Pharma Inc., vive nel lusso dorato della New York benestante. Talentuosa musicista e cantante, allieva modello alla Juilliard School, la sua unica preoccupazione è l'esibirsi sempre al meglio alle serate di gala organizzate da suo padre. Legato sentimentalmente a lei, c'è William Spencer, facoltoso imprenditore londinese e maggior finanziatore della società stessa. Integerrimo e compìto come solo un Inglese sa essere, dotato di un innato charme e savoir fare, è d'altro canto ambizioso per natura e stacanovista sul lavoro, tanto da trascurare spesso tutto il resto, Mya compresa.
Tutto nelle loro vite sembra cambiare, in un battito di ciglia, quando una improvvisa tragedia farà da entr'acte ad una serie di inaspettate scoperte.
«Mya aveva tutto quello che una donna potesse desiderare: bellezza, talento, e l'amore incondizionato di un uomo che la chiamava 'Mimì' con la raffinatezza degna di un principe delle fiabe».
Genere: Drammatico, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Il sole stava lentamente morendo dietro le colline. Villa Mercer ne era quasi completamente circondata. Immerso nel cuore degli Hamptons, l’edificio non nascondeva nulla delle ricchezze dei suoi proprietari. Si trattava, infatti, di una enorme villa in stile coloniale, dipinta in bianco, con dettagli di mattoncini rossi a vista. All’ingresso si accedeva tramite due scaloni speculari, che al centro si riunivano in una grossa arcata, fiancheggiata da due arcate più piccole. Il profumo di rose ed orchidee rampicanti accoglieva chiunque percorresse i viali cosparsi di ghiaia dell’enorme giardino, e di notte lampioncini dalle sfumature blu rischiaravano il buio conferendo al luogo un senso di pace e di tranquillità. Il valore aggiunto di quell’abitazione stava, però, nei due meravigliosi paesaggi di cui era possibile godere affacciandosi alternativamente verso nord-ovest o sud-est: da una parte, appunto, le basse colline ricoperte di alberi e di verde, oltre le quali il sole tramontava tingendo di rosso le foglie delle querce; dall’altra la distesa del mare, su cui il sole faceva capolino al mattino dalla foschia. Sembrava sterminato, quel mare, a guardarlo da quella distanza. Anche se, in realtà, era possibile raggiungere le coste di Rhode Island senza troppi problemi. Ma nel complesso chiunque sostava, anche per poche ore, presso la residenza dei Mercer, se ne tornava a casa con la stessa sensazione di beatitudine, lasciandoci un pezzo del proprio cuore.
Christopher stava proprio riflettendo sulla bellezza di quel posto, con lo sguardo fisso al disco incandescente del sole. I riflessi infuocati impattavano violentemente sulle sue iridi, facendole sembrare più chiare di quanto in realtà non fossero, dietro le palpebre socchiuse che in quell’atteggiamento risultavano accentuate nella loro forma un poco orientaleggiante.
«Toglie il fiato, non è vero?»
Alla domanda di Anthony, affacciato accanto a lui sulla balconata a nord-ovest della villa, si limitò ad annuire un paio di volte. Non sentiva il bisogno di esprimere alcun pensiero; nei tratti rilassati del volto, atteggiato ad un sorriso, si ravvisava una evidente sensazione di pace.
«Fa quasi temere che possa scoppiare un incendio da un momento all’altro, proprio là, sulle colline».
Il vecchio Mercer accostò alle labbra una pinta di birra scura. Sul suo volto comparve un’espressione di piena estasi. Era fatto così, lui. Una birra, qualche chiacchiera e una sigaretta gli bastavano perché si sentisse felice come un bambino a Natale. Amava le cose semplici della vita, avendo constatato amaramente, sulla propria pelle, che tutte le ricchezze del mondo non sarebbero bastate a colmare il vuoto che si portava dentro.
Un ultimo lampo rosso trafisse il cielo, come se il sole volesse salutarli definitivamente sparendo dietro i colli e lasciando il posto alla notte. Christopher sospirò, imitando poi Anthony nel bere la propria birra.
«Già. La sua casa è splendida e il paesaggio meraviglioso. Se vivessi qui, non mi allontanerei mai».
«Pensare che invece Mya vorrebbe che ci trasferissimo a Manhattan».
Le labbra di Christopher si incresparono in una curiosa smorfia. Mya era scappata via di tutta fretta, appena pochi minuti dopo il suo arrivo, e aveva intuito dall’espressione di Anthony come ciò succedesse con più frequenza di quanto lui gradisse.
«Un grande talento richiede grandi sacrifici. Sono certo che l’unico motivo per cui lo desideri è l’opportunità di essere più vicina alla Juilliard». Fece una pausa, assaporando nuovamente un sorso di birra e facendo schioccare la lingua al palato. «In effetti, è un po’ lontano dalla città».
Il volto anziano di Anthony si rattristò improvvisamente, come se il freddo della notte che lentamente stava scendendo gli fosse penetrato direttamente nelle ossa, raggelandolo.
«Non è per quello», mormorò, infine, con tono rassegnato.
Christopher lo osservò in silenzio, sentendosi improvvisamente a disagio. L’intero pomeriggio era trascorso in allegria, e gli era parso anche di aver fatto una buona impressione sul ricco magnate. Quella tristezza improvvisa lo destabilizzava alquanto. Anthony rovistò per qualche attimo nella tasca della propria giacca, estraendone poi un pacchetto di sigarette ed un accendino.
«Fumi, ragazzo?»
«No, signore».
«Fai bene. È un vizio stupido. Hai un po’ di sale in zucca, a differenza di me».
Christopher sorrise sentendosi un po’ meno a disagio, mentre l’altro si accendeva la sigaretta con un gesto meccanico, ripetuto chissà quante volte negli anni. Il grigio del fumo si stagliò contro il nero della notte, oltre la balconata. Al di sotto il giardino era già illuminato soffusamente, dando una visuale magnifica, quasi eterea.
«In questa casa è morta sua madre. Lei nemmeno la ricorda, era troppo piccola, appena una bambina. Ma tutta la grandezza e la magnificenza che la circonda ogni giorno non fa che rammentarle l’amarezza e le difficoltà dell’essere cresciuta senza di lei».
Le parole di Anthony si susseguivano monocordi nel silenzio ovattato. Christopher deglutì, sentendosi la gola riarsa e secca; mandò giù un nuovo sorso di birra, cercandovi sollievo, impacciatamente. Dal canto suo, l’altro continuava a fumare tranquillamente, con lo sguardo perso nel vuoto oltre l’orizzonte, apparentemente senza dar retta al suo ospite.
«Ho cercato di fare il possibile, come padre, ma non è per nulla facile. Ho avuto la fortuna di essere aiutato dalla sua tata, ma la mancanza di una madre è come un pozzo di cui non è possibile toccare il fondo. C’è sempre qualcosa che riporta a galla il dolore».
Se solo si fosse voltato, anche distrattamente, Anthony avrebbe potuto cogliere l’attimo esatto in cui le labbra di Christopher si serrarono con rabbia. Un gesto fugace, impercettibile, che scomparve nel momento immediatamente successivo. Come se le parole del magnate riportassero alla sua mente qualcosa che gli faceva male ricordare. Terminò la sua birra in un sorso solo.
«Perché non si è risposato?»
Si ritrovò dinanzi gli occhi incuriositi dell’altro, voltatosi a quella improvvisa ed inaspettata domanda, formulata con una rigidità quasi forzata, compassata. Anthony tirò una nuova boccata, mettendosi improvvisamente a ridere e scuotendo il capo, incredulo.
«Ragazzo, d’accordo che mi sei simpatico, ma questi sono fatti miei!»
Christopher annuì, chinando il capo in segno di scuse.
«Ha ragione. Sono stato inopportuno. Chiedo perdono».
«Non preoccuparti. Non sei il primo che me l’ha chiesto e non sarai l’ultimo», disse, squadrandolo da capo a piedi con aria divertita. «E tu? Ce l’hai una ragazza?»
Il viso del giovane assunse un’espressione buffa, ma furba, con un sopracciglio inarcato e l’accenno di un sorrisetto sghembo.
«Più o meno. Qualcosa di simile», ammise, facendo spallucce.
«Voi giovani di oggi. Non avete le idee chiare su nulla», sbuffò il vecchio.  «Ai miei tempi, o eri fidanzato, oppure non lo eri, senza vie di mezzo, Dio santo. Ne vuoi un’altra, di quella?»
Indicò il boccale di birra ormai vuoto. Christopher scosse il capo.
«No, la ringrazio. Anzi, sarà meglio che vada».
«Come preferisci».
Il fumo sfuggiva denso dalle labbra di Mercer, giunto oramai agli ultimi tiri della sigaretta. Christopher posò il boccale sul tavolino della balconata.
«Mi ha fatto piacere conoscerla, signore».
«Torna, qualche volta. Mia figlia mi tiene a bada, ma parlare davanti ad una buona birra mi fa sentire ringiovanito di vent’anni!»
Le labbra di Christopher si distesero in un ampio sorriso. Annuì pacatamente, prima di allontanarsi lasciando l’altro solo coi suoi pensieri. Volgendo gli occhi azzurri lontano, nella notte, Anthony Mercer sospirò profondamente. E a quel sospiro, una fitta improvvisa gli mozzò il fiato. Portò la destra al cuore, cercando di respirare e, al contempo, di tirare le redini a quel cavallo imbizzarrito che stava diventando il suo vecchio cuore.
 
*** 
 
Le mani di Christopher sfiorarono con delicatezza la pelle nera del volante, quasi con riverenza. Adorava il suono che produceva un motore che salisse velocemente su di giri, fino allo stremo, a gridare con foga tutta la propria potenza. Lui se la godeva, quella musica, interrompendola solo quando l’auto ormai implorava una marcia superiore.
Gli bastò un lieve tocco delle dita sul comando al volante perché la Ferrari 458 che stava guidando si mettesse nuovamente a fare le fusa, come una gatta che si beasse delle carezze del proprio padrone. Il tachimetro era ben oltre qualsiasi limite consentito per la strada che stava percorrendo, ma lui pareva non curarsene affatto.
Lo squillare del suo telefonino, posato sul sedile del passeggero, si intromise fra le note di “Highway to hell”, sparata a palla dallo stereo ultima generazione. Christopher cercò di attenuare, in fretta, la voce di Bon Scott, armeggiando col tasto del volume ed afferrando poi il telefono. Riconobbe immediatamente il numero sul display.
«Mi stai col fiato sul collo, Jack?», esordì, rispondendo.
«Sempre».
Una voce calma, pacata e profonda, pronunciò quell’unica parola. Gli piaceva, quella voce. Gli faceva venire in mente quelle dei cantanti blues, quelli bravi, quelli che bisogna saperli trovare, nei locali più sgangherati e fatiscenti delle grandi città. Talmente nascosti che non ti verrebbe mai in mente di andarci a prendere qualcosa da bere.
«Non dovresti. So quel che faccio».
«Lo spero. Piuttosto, com’è andata?»
Christopher sorrise socchiudendo le palpebre, mentre imboccava una svolta sulla destra. Continuava a sfrecciare su quel bolide come se il parlare al telefono in contemporanea non lo disturbasse minimamente.
«Fin troppo facile».
«Non è un buon motivo per prendere il tutto sottogamba. Lo sai…»
«… lo so, lo so. Focalizzare l’obiettivo», sbuffò Christopher. «Quante volte me l’hai detto?»
«Sempre una in meno del necessario. Lavorati il vecchio Mercer. E fa attenzione alla macchina».
Per tutta risposta, schiacciò con più foga l’acceleratore. Tutto quello che gli provocava una scarica di adrenalina nelle vene lo eccitava, e correre in quella maniera sfrenata gli dava un senso di godimento pari solo alla sensazione dell’ultima spinta prima dell’orgasmo, quando faceva sesso. Chiedergli di mettere un freno allo scalpitare di quel gioiellino rosso fuoco era un insulto.
«Tranquillo. È sana e salva».
«Bene. A domani, allora».
Chiuse la telefonata e alzò di nuovo il volume della musica, fino a sentire il cuore pulsargli in gola a ritmo con il suono della batteria. Avrebbe avuto ancora per poco la possibilità di godersi quella macchina, quantomeno per quella notte. Il tempo di raggiungere la rimessa di Stan e sarebbe tornato in sella alla sua moto. Tuttavia, forse, quel pensiero lo fomentava ancora più di quei duecento chilometri orari segnati sul cruscotto.
Una volta che ebbe lasciata la macchina, senza sprecarsi in parole con un ragazzotto a cui restituì le chiavi, montò in sella ad una Norton Commando nera, senza guardarsi indietro, diretto al proprio appartamento.  Di lì a un quarto d’ora, stava assaporando una birra direttamente dalla bottiglia, steso a peso morto sul proprio letto. Si era fatto una doccia, a giudicare dai capelli ancora umidi, e come sempre aveva lasciato le impronte dei piedi nudi bagnati dal bagno fino alla camera. Si era premurato solo di infilarsi poi i pantaloni di una tuta, la prima che aveva trovato buttata su una sedia accanto al letto stesso.
L’appartamento consisteva in un anonimo monolocale, come se ne trovano tanti a New York, spoglio di qualsiasi mobile superfluo. Una cucina con angolo soggiorno integrato, un buco di salotto con un divano ed una televisione, una camera da letto e un bagno. Carta da parati anonima rossa, un po’ scolorita, illuminata da luci fioche di lampadari di gusto discutibile. In un angolo, poco lontano dal divano, una panca, pesi e bilancieri di diverse misure. Le uniche ricercatezze erano, forse, l’impianto stereo gigante sistemato in camera da letto e il materasso ad una piazza e mezza che occupava per più di due terzi quella stessa stanza.
Posò la birra sul comodino e si mise a sedere, recuperando da terra una canotta nera senza maniche. L’indossò sul torso nudo, incassando poi la testa fra le spalle. Chiuse gli occhi, quasi smettendo di respirare, muto nel silenzio a rimuginare sulle parole di Anthony Mercer. Fin quando un insistente bussare alla porta non interruppe i suoi pensieri, facendogli rialzare lo sguardo con uno scatto.
Andò ad aprire controvoglia. Sull’uscio c’era una ragazza dai lunghi capelli biondi, vestita – o per meglio dire, svestita – con una minigonna di pelle nera inguinale e con un top nero aderente che accentuava le curve del suo corpo, lasciando molto poco all’immaginazione. Gli occhi verdi pesantemente truccati squadrarono la figura di Christopher da capo a piedi, brillando di una luce maliziosa che sottintendeva un evidente obiettivo. Obiettivo che fu ancora più preciso quando si soffermò lungamente a guardargli il cavallo dei pantaloni, mordendosi voluttuosamente il labbro inferiore, pieno e turgido, tinto di rosso fuoco.
«Charlie, hai idea di che ore sono?», mormorò il giovane, passandosi una mano fra i lunghi capelli scuri.
«Shh. Scopare. Ora», sentenziò lei, come fosse un ordine, posandogli l’indice della mano sulle labbra per metterlo a tacere.
A quelle parole, lui la trasse dentro l’appartamento, afferrandola per la vita con prepotenza, e chiudendo poi la porta con un tonfo secco. Non si poteva certo dire che fosse tipo da farsi pregare.
 
*** 
 
Si svegliò la mattina dopo, ancora intontito e completamente nudo. Accanto a lui, Charlie dormiva tranquillamente, stesa a pancia in giù, con i capelli sparsi sul cuscino. Sapeva già che avrebbe ritrovato quei fili dorati dispersi ovunque, fra le lenzuola di cui era difficile adesso trovare il bandolo, data la matassa informe di tessuto che componevano ai piedi del materasso, testimone di una nottata piuttosto turbolenta. La ragazza sembrava respirare appena, con la schiena nuda che ritmicamente si sollevava e si riabbassava, ma gli occhi di Christopher non riuscivano a staccarsi da quel panorama eccitante che era il suo sedere, sodo e morbido sotto i palmi delle mani. Aveva i fianchi larghi, la vita stretta di una vespa, chilometri di gambe e un seno florido, alto ed invitante, che esercitava su di lui una sorta di trance ipnotica ogni volta che stava sopra di lei, ondeggiando spinta dopo spinta. Era un monumento vivente al sesso, quella ragazza. Sapeva esattamente come muoversi per godere e far godere a sua volta. In un certo senso, lui la vedeva come la propria controparte femminile. Semplicemente lei faceva agli uomini che si portava a letto lo stesso effetto che lui faceva alle donne: erano fin troppe quelle che gli chiedevano di essere richiamate dopo una notte di sesso, e fin troppo poche quelle che lui effettivamente richiamava. Charlie era una di queste. Si erano incontrati per caso in un bar e alla seconda birra erano già sotto le lenzuola. Lei sapeva come appagarlo, lui sapeva come appagare lei, e tanto bastava perché fosse l’unica a cui Christopher non sapesse mai dire di no.
Si alzò trascinandosi fuori dalla camera da letto, fino alla cucina. Bevve del succo d’arancia direttamente da un cartone del frigorifero, rabbrividendo quando si rese conto che era praticamente andato a male, aspro e bruciante nella gola. Stava ancora cercando di svegliarsi completamente quando il cellulare, abbandonato sul lavandino, prese a squillare.
«Dove sei?»
Christopher si appoggiò sul bordo del lavandino con il sedere, percependo sulla pelle il freddo di quella sottile striscia di acciaio. Si fregò energicamente il volto con la mano. Decisamente era tutto meno che sveglio.
«A casa, Jack. Dove vuoi che sia a quest’ora?»
«Siamo già  in ritardo. Fra dieci minuti sono da te».
Non ebbe tempo di replicare. Il telefono gli restituiva di già nelle orecchie il suono di linea occupata, segno che dall’altra parte avevano già messo giù. Si rigirò l’apparecchio fra le mani per qualche attimo, buttando fuori l’aria dai polmoni in un lungo respiro che gli fece fremere le narici. Quando rialzò lo sguardo vide sull’uscio della cucina Charlie, stretta in una camicia nera in cui sarebbe entrata almeno due volte. Christopher sorrise. Non riusciva a capacitarsi di quanto quella ragazza potesse essere pudica al mattino presto, dopo che avevano condiviso il letto. In fondo, quando gli si era presentata davanti la sera prima, indossava praticamente il nulla.
«È mia, quella camicia. E mi serve».
«Non è il tuo stile. Tu sei più un tipo da magliette dei Rolling Stones e jeans strappati. Neanche ti ci vedo, con questa roba addosso».
Charlie indugiò a lungo ad osservare la figura di Christopher, che da canto suo non sembrava aver problemi a girare per la casa senza neanche un paio di boxer addosso. Non che la cosa le dispiacesse, però. Lui l’osservò con aria seria.
«Charlie, te ne devi…»
«… andare. Lo so». Lei completò la frase con estrema naturalezza, quasi leggendogli nel pensiero, con un sorriso sulle labbra. «Nessun problema. Io sono la tua scopata e via, tu sei la mia. Coccole e simili non sono comprese nel pacchetto».
«… già».
Lei gli si avvicinò, ancheggiando con quella sensualità che in lei era innata. Una femmina nel vero senso della parola, pensava Christopher. Schiuse un poco i lembi della camicia, accostando il proprio corpo a quello di lui, fino a sentire sulla propria pelle il suo calore. Le sue labbra puntarono pericolosamente quelle dell’altro, ma le sfiorarono appena, deviando bruscamente in direzione del suo orecchio.
«Anche se ho la netta impressione che preferiresti che restassi qui», sussurrò voluttuosamente, mordendogli il lobo col preciso intento di provocarlo.
Lui la strinse a sé in un gesto possessivo, afferrando le sue natiche col palmo pieno delle mani, accentuando volontariamente il contatto con lei che potè così percepire con maggiore prepotenza quello che era un segnale inequivocabile. Le parti basse di Christopher erano decisamente ben più sveglie ed attive di quanto fosse lui stesso.
«Mi sveglio sempre così, al mattino, Charlie. Non c’entri tu, non ti esaltare», soffiò con un filo di voce, fissandola direttamente negli occhi con spavalderia.
«Fortunata chi sceglierai per svegliarsi vicino a te tutte le mattine, allora… perché prima o poi succederà, eroe». La voce di Charlie era poco più di un sussurro sulle labbra di Christopher.  «Vado a rivestirmi e sparisco».
Gli stampò un forte bacio sulla guancia, facendo schioccare le labbra al contatto con la sua pelle, e si voltò correndo verso la stanza da letto coi capelli biondi che ondeggiavano dietro la schiena.
Christopher sorrise scuotendo il capo. Avrebbe quasi voluto richiamarla indietro, seguendo le voglie di quello che era un puro istinto animale, ma il suo cervello glielo impedì categoricamente. Jack odiava aspettare. E se aveva fatto bene i conti, non gli restavano che cinque miseri minuti dei dieci concessi per rendersi presentabile e pronto ad uscire di casa.

 

 
ANGOLO AUTRICE:

  

Mi odiate per questo capitolo? 
Nel senso, Christopher non è proprio come ce l'aveva data ad intendere...
Una cosa è certa, a letto ci sa fare, eccome.
Chi sarà il misterioso Jack che gli telefona ogni tre per due, 
peggio di una madre apprensiva?
La risposta nelle prossime puntate.
PS: spero amiate Anthony Mercer quantomeno la metà
di quanto lo amo io. Me lo sposerei.
Al diavolo la differenza d'età!

Vi lascio recapiti vari per contatti/insulti/complimenti (?)/rotture di scatole:
Pagina Facebook: Codivilla Vicariosessantanove Efp
Gruppo Facebook: La Canonica del Vicario
Ask: Chiedi e (forse) ti sarà detto

Alla prossima e grazie a chiunque passi di qui.

       


 
   
 
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