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Autore: Vegeta_Sutcliffe    22/11/2013    1 recensioni
Salve a tutti. Propongo questa storia molto introspettiva e diversa dal solito, o almeno così penso.
Cit: Aveva ucciso, aveva sbagliato e per questo stava per essere punita. Avrebbe dovuto uccidere, avrebbe dovuto sbagliare e se non lo faceva rischiava di essere punita.
Esistevano criteri incorruttibili di verità? Gli uomini erano lunatici, volubili, cambiavano e con loro il mondo, ma la giustizia erano loro o la giustizia trascendeva loro?
“Perché l’hai fatto?”
“Ti avevo promesso che saresti uscita di prigione, se non sbaglio.”
“E non c’era un altro modo?”
“Anche più di uno.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Un po' tutti, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Il cambiamento è inevitabile, la crescita personale è una scelta
Bob Proctor

A lui non piaceva il volontariato; a lei gli sport violenti.
Peccato che Bulma passasse due pomeriggi a settimana con gli anziani e Vegeta praticasse lotta greco-romana.
A lui non piacevano il film d’amore; a lei gli horror.
Peccato non poter andare al cinema.
A lui non piacevano i dolci; a lei gli aperitivi alcolici.
Peccato che quel pomeriggio Vegeta si fosse presentato con una bottiglia di vodka e non con una torta al cioccolato.
Che rimaneva per poter parlare? Per potersi apprezzare?
“Che bel tramonto.” Provò a rompere il ghiaccio imbarazzante lei.
“Non mi piacciono i tramonti.” Si diceva che le ragazze fossero di gusti difficili: sicuramente quel tale non aveva mai conosciuto Vegeta.
“Ma guarda un po’…” Fece Bulma sarcastica.
Ma perché erano usciti assieme? Quanto era stato stupido uscire con un ragazzo qualsiasi pur di mettere a tacere le pressioni delle presunte amiche e pur di accontentare il suo ego narcisistico e provarci con il ragazzo che l’opinione pubblica aveva dipinto come irraggiungibile.
Era senza dubbio bello, come dicevano tutte, ma era troppo freddo per i suoi gusti e poi non pareva avere altro interesse per lei che non fossero le sue tette e si era vivamente pentita di aver messo quella camicia troppo provocante.
Non era teso quel loro appuntamento, solo noioso, ma nessuno dei due voleva che lo fosse: equivaleva a fallire le loro previsioni.
“Fumi?” Vegeta aveva tanto voglia di una sigaretta e gli domandò quel paradossale permesso solo per avere un minimo di conversazione, per salvare quella merda di appuntamento.
Non era abituato a trattare con verginelle restie.
“Fumare è sbagliato.”
Alzò gli occhi al cielo e mimò un’ imprecazione: quanto valeva finire quell’appuntamento e non scoprire un’altra delle innumerevoli fisime da salutista della Brief.
Gliel’avevano detto che quella ragazza era pedante, ma lui non aveva fatto troppo affidamento sugli altri, come sempre: li riteneva stupidi.
“Ma guarda un po’…” Le fece il verso.
A lui non piaceva il rigoroso virtuosismo che privava dei piaceri e degli sbagli; a lei non piaceva sbagliare e il piacere a quanto pareva.
“Senti caro scimmione, sono stata la presidentessa del comitato anti-fumo della mia scuola media e poi la salute è il bene più prezioso dell’uomo, bisogna preservarla.” Era convinta lei.
Vegeta la guardò sconcertato: non aveva mai visto nessuno mentire così spudoratamente, nessuno così senza coscienza e senza pensiero da far in maniera magistrale proprie le convinzioni di un altro.
“Anche mangiare frittura fa male. Che fa non mangi la frittura? Anche parlare al cellulare fa male. Che fa non parli al cellulare?”
Bulma conosceva, e nemmeno così bene, la retorica non la dialettica, invece quel ragazzo pareva essere l’avvocato del diavolo.
Che rispondere?
“Ma ti fai i cazzi tuoi?” Solitamente non diceva brutte parole, ma Vegeta le ispirava.
Però quell’atteggiamento inviperito e il non sapere addurre giustificazioni alla sua causa ideologica stavano dando vantaggio a lui.
Sorrise sghembo e prese il pacchetto di sigarette dalla tasca del giubbotto, mettendoglielo sotto il naso, facendole annusare l’inebriante odore di tabacco e di nicotina.
“Perché non provi a fumare? Si cambia idea nella vita.”
Bulma si morse il labro: la voleva quella sigaretta?
Cazzo sì! Quante cose stavano cambiando?



Voleva una sigaretta. Ne sentiva il bisogno.
Cucinare, o meglio aver provato a cucinare senza raggiungere l’obiettivo della commestibilità, l’aveva stressata e stancata.
Nervosamente, con le mani tremanti, se ne portò una alla bocca e inspirò con avida ingordigia.
Perché non sapeva cucinare? In tv sembrava così facile e invece finiva sempre con il mettere a soqquadro la cucina e a farsi prendere per il culo da Vegeta.
Non che fosse mai stato un problema, ma per una volta ci teneva a non farsi considerare una completa incapace e poi non poteva permettersi di ordinare ad ogni pasto una portata d’asporto.
Non poteva proprio permetterselo: tutti quei cibi gustosissimi erano anche super calorici e quasi sempre poco sani e lei non poteva permettersi di approvarli come giusti, non ora che era diventata madre.
Non si ricordava se sua figlia avesse mai mangiato un pasto sano in tutta la sua vita che non fosse pizza o la fettina di carne bruciacchiata e annerita.
Si spostò i capelli attaccati alla fronte sudata, aveva faticato sui fornelli!, e arrendendosi, decise che fosse meglio chiamare il ristorante, magari quella sera avrebbero mangiato cinese.
Avrebbe dovuto chiedere cosa volesse Vegeta, prima di ordinare, eppure non lo fece.
Era chiuso nel suo ufficio da due ore ormai e aveva detto abbastanza esplicitamente di non voler essere disturbato e Bulma non aveva nessun intenzione di contraddirlo per quella volta: che restasse solo, finchè non avesse sbollito il nervosismo!
Ultimamente era più intrattabile della norma, più silenzioso e paranoico e lei non ne aveva voluto sapere il motivo: aveva intuito ci potessero essere problemi lavorativi, se poi mai il lavoro di lestofante potesse essere senza rischi e pericoli, ma aveva scelto, ormai da cinque anni, di tirarsi fuori da tutta quella situazione.
Aveva dovuto e voluto: non era quello l’esempio che voleva dare a sua figlia, non era quella la vita che quando era figlia lei avrebbe voluto.
Non aveva sofferto per quella decisione alla fine: l’unica paura, ancora più tremenda dei sensi di colpa e dell’agitazione di essere scoperta, era stata la noia: aveva avuto paura che senza un lavoro, quando sua figlia sarebbe stata abbastanza grande da andare a scuola e non volere più essere totalmente dipendente da lei, non avrebbe avuto più niente da fare.
Aveva avuto paura di impazzire tra la monotonia, tra le mura di casa, tra l’ipocrisia di quelle cene d’affari in cui doveva fare sempre la parte della donna sofisticata e perfetta sotto la prepotente e totalitaria giurisdizione dell’uomo di potere, ma fortunatamente aveva avuto vicino Vegeta.
Benché sempre con la sua solita delicatezza, una mattina di puro ozio, interrotta solo dalla cambiate di pannolino, le aveva buttato sul letto tomi immensi di ingegneria e di meccanica, farciti di informazioni sulle varie università del paese.
Aveva abbandonato da adolescente gli studi senza volerlo: aveva dovuto sopravvivere e tra un problema e l’altro il suo ingegno non aveva mai trovato terreno fertile per crescere.
Era diventata una mamma studentessa ed era paradossalmente divertente venire corteggiata dai suoi colleghi di quasi dieci anni più giovani.
“Salve, sono la signorina Brief: vorrei ordinare il solito.” No, non c’era bisogno di ulteriori specificazioni: tutti i ristoranti della città conoscevano lei e le sue ordinazioni e il suo indirizzo.
Riagganciò dopo aver salutato cordialmente e decise di apparecchiare la tavola: almeno quello lo sapeva fare.
Sua figlia era la sua copia in tutto e per tutto e nei lineamenti fenotipici e nelle cattive abitudini: come era disordinata sua figlia, lo era solo lei.
“Bra, vieni subito a levare i colori dal tavolo della cucina!”
Mettendosi le mani sui fianchi, inclinò la testa per osservare meglio quei disegni: fosse stata almeno brava a disegnare, l’avrebbe incoraggiata nel perseguire e perfezionare il suo talento, invece era proprio negata o forse era la rappresentante di una forma di astrattismo particolare e di difficile comprensione.
La bambina arrivò correndo dalla sua stanza, facendo ondeggiare le codine e la gonnellina del vestito.
“Mamma ti piacciono i miei disegni?” Domandò speranzosa la bambina.
“Sei sicura di non volere fare danza o canto? Magari ti piacciono di più.” Ci sperava davvero, almeno non sarebbe inciampata sui colori a matita.
Bra si mise a ridere, divertita e abbracciò le gambe di sua madre.
Quella bambina aveva una serenità e un’allegria particolari, tanto da non far pensare di chi fosse figlia, eppure anche se a Bulma suonava strano e malinconico, era felice che sua figlia fosse diversa e sorridente.
Apparecchiarono la tavola assieme, rompendo un bicchiere di vetro e parlando della giornata, delle maestre isteriche della figlia e dei docenti decrepiti della madre.
Il cibo cinese era buono, peccato che il fattorino ogni volta perdesse tempo inutile a cercare la strada, facendo arrivare il cibo sempre freddo.
Vegeta entrò in cucina, ignorandole entrambe, come sempre, e prendendosi una bottiglia di birra fresca; ne stappò il tappo e incominciò a berla, centellinando ogni sorso, appoggiato al bancone della cucina.
Erano passati cinque anni e lui non era cambiato per nulla, proprio come quando lo rivide dopo dieci anni. Il tempo sembrava avere avuto effetto solamente su di lei, ma quella volta le aveva fatto solamente bene: le aveva ridato colorito al viso, il sorriso alle labbra, vitalità alla membra, maturità alla bellezza.
Quando aveva quindici anni guardava ai trent’anni come la soglia della vecchiaia, invece a trent’anni si sentiva meglio che a quindici.
“Stasera non ceno a casa.” Continuava a tenere fisso lo sguardo verso un punto indefinito della parete opposta e muoveva le labbra come fosse un automa.
Già non era particolarmente espansivo e reattivo agli stimoli esterni di solito, ma ultimamente stava toccando le soglie dell’apatia preoccupando la bambina.
A cinque anni si poteva mai ragionare sulla diversità delle persone? Sui problemi esterni oltre la famiglia? Sul mondo degli adulti?
Tutto quello che percepiva Bra era che il padre fosse distante e assente, quasi irriconoscibile.
“Ti giuro che non ho cucinato io, ci ho solamente provato.”
Il tempo aveva regalato a Bulma o la maturità di andare avanti in una vita banale o di tornare a ridere e a prendersi in giro: tutto pareva essere diventato perfetto.
“Non m’importa. Io devo uscire.” Buttò la bottiglia di birra nella pattumiera e scosse la testa come per svegliarsi.
“E dove dovresti andare?” Domandò inquisitoria.
All’università aveva imparato a domandare e voleva sempre avere una risposta che la soddisfacesse.
Era la convinzione di poter tutto che l’aveva fatta arrivare ad avere una media perfetta; facendo scienze aveva anche imparato i principi dell’analisi: ogni singolo sguardo, ogni gesto, ogni movimento lo passava al setaccio con quegli occhi curiosi.
“Ho un appuntamento di lavoro.” Rispose con astio mal celato per quella invadenza che non aveva mai sofferto.
Male, era stato un male farla studiare, ora era troppo serena e troppo forte per non dargli fastidio.
“Sono quasi le dieci di sera. E’ tardi.”
Vegeta morse aria e serrò i denti senza avere l’intenzione di volerli aprire.
Aveva tanta, tantissima voglia di sfogarsi, di urlare bestemmie e menare le mani, ma non avrebbe concluso assolutamente nulla: non prendendosela con Bulma, non facendo il pazzo davanti a sua figlia.
“Sta tranquilla. Vai a dormire senza problemi, non aspettarmi sveglia.”
“Papà mi avevi promesso che avremmo guardato i cartoni assieme.”
Spostò lo sguardo all’altezza delle sue ginocchia: poteva vedere Bra con la stessa espressione contrariata e delusa della madre, solo più innocente e meno colpevolizzante.
Non gli fotteva nulla dei cartoni, anzi perderli era una fortuna, ma anche se sarebbe voluto restare con la figlia, non poteva proprio e la cosa lo fece ancora più incazzare: non poter fare quello che voleva.
C’erano delle regole pure per disobbedire alla società e non se n’era mai curato finchè c’era stato Freezer.
Si pentiva ogni giorno di averlo ucciso!
“Lo faremo domani mattina che è sabato e non devo lavorare.” Lo sperava per lo meno.
“Me lo giuri?” Chiese imbronciata.
Chissà perché i bambini avevano un senso sacro della promessa. Forse non conoscevano ancora le casualità. Vegeta non sarebbe mai e poi mai voluto tornare bambino.
“Sì, sì.”
Scocciato si allontanò dalla cucina e si avviò verso l’uscita.
“Ciao papà, divertiti e non stancarti troppo che domani mattina i cartoni iniziano alle sei.”
Che male aveva fatto per meritarsi i cartoni per bambini idioti? Non lo sapeva, ma sorrise di un sorriso tragico e lo regalò a Bulma.
Sperava anche lui di non stancarsi troppo o di essere per lo meno a casa per le sei o Bra sarebbe stata una furia incontenibile.
Ma certe volte le speranze erano inutili: bastava impegnarsi e uccidere velocemente quei figli di puttana.

Non era stato un lavoro veloce, no proprio no.
Erano le cinque e mezza del mattino quando stava risalendo, piano, piano, barcollando, le scale di casa.
Non era stato nemmeno un lavoro facile.
Ma come mai era successo tutto quello? Non si stava bene come prima? Assolutamente no.
La paternità pareva averlo parzialmente ravveduto: basta morti, se non per lo stretto necessario; basta scontri con altre bande di trafficanti, se non quando fortemente minacciati; basta provocazione delle forze dell’ordine.
Quel sistema pacato aveva influito negativamente sull’economia dell’ex impero Ice e troppa gente era rimasta scontenta di non aver più soldi di quanti gliene servissero per condurre una vita tra sfarzo e lusso.
Molti si erano ribellati, molti miravano a farlo scoprire e Vegeta non era in grado di congiurare contro tutti questi fattori associati.
Preferiva fare il sicario che la mente: era una scelta pressoché da mente.
Sicuramente non era stato nemmeno un lavoro indolore.
Era stato attento a uccidere nel solito modo magistrale, ma qualche bastardo prima di spirare gli aveva conficcato un coltello nel fianco: niente di letale, solo fottutissimamente doloroso, sanguinante e purulento.
Cercò di aprire la porta, avendo la testa che girava vorticosamente e la vista annebbiata, ma non era facile.
Sarebbe stato più salutare farsi curare, ma con quale scusa andare all’ospedale a farsi curare una ferita d’arma da taglio a quell’ora del mattino?
L’opinione pubblica si stava insospettendo e non serviva dare alito a ulteriori sospetti; decise saggiamente e incoscientemente al tempo stesso di aspettare Zarbon, che sarebbe tornato di tutta fretta dal suo viaggio di piacere solo nel tardo pomeriggio, e farsi medicare da chi conosceva bene.
La serratura scattò per suo sommo piacere: voleva solo coricarsi a letto e addormentarsi nel caso quella ferita l’avesse ucciso.
Si diresse nella sua camera da letto, senza curarsi di aver lasciato una scia di sangue per tutto l’appartamento, e si distese sul materasso con cautela e per non svegliare Bulma e per non sforzare troppo la parte lesa.
Avrebbe voluto soffrire in silenzio e in solitudine, ma la paranoia di lei l’aveva portata ad avere un sonno estremamente leggero o forse quella notte, troppo apprensiva, non si era mai realmente addormentata.
Aprì gli occhi ancora socchiusi dal sonno e mise a fuoco la sagoma di Vegeta, senza prestare mente a quel colorito smunto e pallido.
“Ma che ore sono?” Aveva sonno, ma era più la voglia di dirgliene quattro per l’orario del suo rientro.
Solo che non ricevette risposta, se non respiri agitati e corti, quasi frenetici.
“Ma sei diventato sordo?” L’acidità l’aveva fatta tornare vispa, ma non attenta: era una donna pratica, ma praticamente certe volte viveva in un mondo suo.
Non sarebbe dovuto tornare a casa, questa era la verità! Ma dove andare mezzo morente?
Dopo l’ennesima insistenza per sentire la sua voce, il fastidio fu più del dolore.
“Porca puttana, devi stare zitta. Torna a dormire.” Però forse lo disse con una voce troppo tremante tanto da destare più curiosità che paura o, nel caso di Bulma, rimostranza.
Lei si stropicciò gli occhi e finalmente vide lucidamente. Guardò la sveglia sul suo comodino e si ritenne soddisfatta di aver conosciuto quel che voleva sapere.
“Sono quasi le sei, ora verrà tua figlia a rompere le palle. Spero per te non sia troppo assonnato per stare con lei.”
Si voltò nuovamente verso di lui con un sorriso cattivo di chi ricorda la punizione al dannato e notò quella chiazza di rosso che stava macchiando le lenzuola del letto e che sembrava uscire dal punto che la mano di Vegeta stava malamente tamponando.
“Che cazzo ti è successo?” Si poteva dire tutto di Bulma: che fosse egocentrica e superba e talvolta egoista e quasi sempre insopportabile, ma si levò subito la camicia da notte preferita per bloccare la perdita dalla ferita.
Ci si scordava di tutto, quando si temeva la perdita di una persona cara: pure di tutte le cose poco care e carine che quella persona aveva fatto contro gli altri e contro lei.
“Tutto bene?” Che domanda stupida!, eppure aveva bisogno di sapere che a Vegeta non sarebbe successo nulla perché nonostante tutto, anzi proprio per quel tutto, l’amava.
Si chinò e lo baciò sulle labbra anelanti; non si ricordava di averlo mai visto così malaticcio: solitamente era lei quella debole e cagionevole delle coppia.
Vegeta avrebbe voluto dire che stava bene, che certe piccolezze arrestavano solo i deboli, ma fino a prova contraria era steso a letto agonizzante, senza riuscire a pronunciare parola, se si escludevano i versi gutturali di dolore.
“Andiamo che ti porto in ospedale. Maledetti tu e i tuoi giochi strani.”
“No, l’ospedale no.” La bloccò per il polso e le impedì di alzarsi dal letto o meglio lei si sentì bloccata da quel tocco inaspettatamente debole e leggero.
“Vuoi morire come un coglione?” Domandò esasperata.
“Non voglio finire in prigione come un coglione.” Cazzo!, che fatica a parlare, ma senza un motivo che a lei sembrasse valido, se lo sarebbe caricato di peso sulle spalle e l’avrebbe mandato al patibolo e non in sala operatoria.
Bulma si rabbuiò e spense le sue espressioni.
Rischiava ogni giorno di perdere il suo uomo, perché quello continuava a fare cose sbagliate e illegali.
Non poteva nemmeno aiutarlo perché sarebbe stato subitamente condannato, non si poteva fare niente, perché lui doveva fare sbagliato altro.
“Sai che ti dico? Spero che muoia dissanguato.”
Quelle riflessioni le avevano preso la testa: vedeva Vegeta e non vedeva futuro, vedeva il futuro e non vedeva Vegeta: pareva essere inconciliabile quella personale felicità che aveva raggiunto.
Quelle riflessioni le avevano preso pure le sensazioni: rabbia, paura, preoccupazione; solo non sentiva più freddo, e aveva i capezzoli intorpiditi, né altro rumore esterno, come il respiro emesso da sua figlia.
“Bra…”
Quanto era triste che l’avesse vista prima Vegeta che era tanto dolorante da essere quasi incosciente che lei che pure era così sveglia.
Bulma si sentì una merda: era completamente assente, avulsa dalla realtà e non andava bene: c’era qualcosa di sbagliato.
E seppe cosa quando abbassò lo sguardo e vide sua figlia tremante che abbracciava disperatamente l’orsacchiotto con gli occhi lucidi e il labbro tremante.
Le bambine dovevano piangere per un brutto sogno non perché vedevano il proprio padre stillare copiosamente sangue; non avrebbero dovuto avere i piedi e l’orlo del pigiama bianco sporchi di rosso.
“Papà…” Disse tra i singhiozzi.
Bulma si inginocchiò alla sua altezza e la strinse al suo seno nudo, proprio come quando era bambina.
“Tranquilla amore, non è successo niente. Papà sta bene.”
Vegeta stringeva gli occhi dal dolore e solo di tanto in tanto li apriva per guardarle e la sua faccia non era mai stata così espressiva e umana come in quel momento.
Non stava bene e lei aveva mentito, ma l’aveva fatto per bene, per non fare preoccupare una bambina di cinque anni.
Eppure la stava illudendo e non era giusto, non era giusto negarle la realtà. Vegeta sarebbe potuto anche svenire o morire da un momento all’altro e lei non avrebbe capito il perché, perchè prima sua madre le aveva detto che stava bene.
Ed era così ogni volta che Vegeta andava a lavoro: le dicevano che suo padre faceva l’avvocato e tutti a lavoro lo rispettavano perché era bravo, ma Bulma sapeva che c’era il rischio che non tornasse più a casa, che tutto gli sfuggisse di mano, e quella coltellata ne era il sentore, e avesse svelato i loro inganni alla bambina.
Era stato sbagliato mentire a Bra e Vegeta l’aveva sempre detto, solo che lei non aveva voluto sentire ragioni:  non poteva corrompere una bambina.
“Mamma, che è successo a papà?”
Le si bloccò il cuore nel petto: dirgli la verità o mentire ancora?
Doveva scegliere.
Le accarezzò i capelli dolcemente. L’istinto era quello di mentire: forse sua figlia avrebbe accettato la verità che suo padre fosse un criminale, ma sarebbe stato anche probabile che l’avesse voluto emulare: Bra amava suo padre e Bulma era sempre stata contraria a parlare di bene e male e altre cazzate esistenziali a una bambina di cinque anni; si era sempre rifiutata di crescere sua figlia come Freezer aveva cresciuto Vegeta.
La testa di Bra profumava d’albicocca e Bulma si ricordava bene che in prigione non c’erano shampoo all’albicocca.
S’immaginò l’immagine di sua figlia in prigione e tremò dentro.
Non voleva che sua figlia andasse in prigione, non voleva che sua figlia sbagliasse, ma come fare?
D’un tratto fece la sua scelta: sarebbe stata dolorosa, ma era per il bene di Bra.

Bulma non era mai stata così contenta di vedere Zarbon, come in quel momento.
Aveva medicato alla bene e meglio Vegeta e aveva insistito nel portarlo a casa sua dove avrebbe potuto in una maniera abbastanza consona, ricucire la sua ferita.
Quella piccola stanzetta nella sua villa non era un ospedale e Zarbon avesva preteso di tenere l’avvocato in cura per una settimana, nel caso si fossero riaperti i punti, nel caso si fosse sentito male.
Bulma rise di nascosto, quando seppe che per una settimana avrebbe avuto la casa vuota.
La mattina Bra andava all’asilo e lei aveva deciso di non frequentare i corsi: aveva preferito mettere sottosopra la casa per cercare quella maledetta chiave dello studio di Vegeta e quando la trovò si sentì sporcamente felice.
Che stava per fare? Si sentiva una bastarda.
Per cinque giorni cercò, cercò dappertutto, cercò senza sosta e poi trovò: trovò quella che credeva essere la soluzione definitiva a tutti i suoi problemi e alle sue angosce di madre.
Sospirò stanca, ma si alzò ugualmente e rimise apposto tutta la casa: doveva non pensare per non pentirsi.

Quanto era stronza!
Eppure se doveva fare una bastardata, voleva farla bene.
Chiese un colloquio direttamente con Goku.
Faceva sempre strano vedere quella specie di cognato vestito da poliziotto, sarà che non l’aveva mai visto esercitare correttamente il suo lavoro, ma quella volta sarebbe stato costretto a farlo.
I sensi di colpa la divoravano, ma si consolava pensando a quella ulteriore rivincita postuma su Freezer: aveva sempre pensato che era una donna stupida e poi aveva sempre pensato che una donna fosse inutile: quanto si era sbagliato.
“A cosa devo questa piacevole visita?” Chiese Goku sorridendo sinceramente.
Sembrava contento quel giorno e Bulma si doleva leggermente di rovinarglielo.
“Sono venuta qui per far avanzare la tua carriera.”
“E come?” Domandò curioso.
“Ho pensato che se tu riuscissi a incastrare Vegeta, potresti fare il salto di qualità.”
A Goku pareva strano quel discorso, ma era mattina presto e ancora non aveva bevuto il suo caffè e, per quanto lo riguardava, avrebbe potuto anche fraintendere il colore del cielo.
“Non è facile. Si sa nascondere bene.” Alzò le spalle e non smise di essere allegro: in fondo era orgoglioso di quel genio cattivo di suo fratello.
“Ma se ci fossero delle prove non ci sarebbero dubbi.” Dove voleva andare a parare?
“Non ho prove, ti ho detto.”
Bulma prese la borsa, poggiata sulla sedia accanto, e vi trafficò dentro. Ne estrasse dopo subito una cartella voluminosa e la porse a Goku.
Curioso l’aprì e quello che vide lo lasciò sorpreso e anche un po’ inquieto.
C’erano proiettili. Lettere minatorie. Messaggi in codice tra Vegeta e altri. Le fatture dei bordelli.
C’era tutto quello che avrebbe potuto condannarlo alla colpevolezza pubblica.
C’erano le prove di quasi tutto quello che sapeva suo fratello avesse fatto, ma adesso era un poliziotto, sebbene attonito per quello sviluppo inatteso.
Goku alzò gli occhi dalle prove e guardo quelli freddi e glaciali di Bulma: non la riteneva capace di tanto, né così incosciente.
“Perché?” Sussurrò.
“Ha fatto tante cose sbagliate, non può continuare così. Qualcuno lo deve fermare ed è giusto che sia la legge a farlo.” Si stava costringendo a pensare e a parlare così.
Lo pensava solo in minima parte, ma era giusto persuadersi di quell’idea.
“Le indagini potrebbero scoprire qualcosa anche su di te e sulle persone che hai ucciso tu. Non ci hai pensato?” Aveva sempre detto con fermezza che avrebbe arrestato Vegeta con le prove alla mano, perché esitava?
Cercava di temporeggiare, cercava di far rinsavire Bulma.
“Ho la fedina penale totalmente pulita. Quando hanno accollato ad Irene i miei omicidi, Freezer si è preoccupato di far sparire tutte le prove contro di me e ha falsificato quelle per far processare Irene. Per la giustizia io sono una persona giusta.” Anche se tradire così spudoratamente la persona amata era sbagliato. “Non troverete assolutamente nulla contro di me.”
Goku si passò una mano tra i capelli e poi se la schiaffò sul volto: non gli piaceva dover arrestare Vegeta, eppure doveva.
“Ci mobiliteremo al più presto per effettuare le opportune indagine. Grazie per la tua collaborazione.”
Goku era distrutto, Bulma si sforzava ad essere soddisfatta.
Lo salutò sorridendo, mandandogli un bacio con la mano: fino a prova contraria la loro era pur sempre una famiglia.
“Prego. Ci vediamo Domenica a pranzo.”



Ave popolo di Roma!
Come va la vita? =)
Io sto diventato bravina a giocare a pallavolo e mi sento soddisfatta. U_u
Cooomunque il terzultimo capitolo di questa storia, che ve ne pare?
Io lo trovo strano, ho cercato di fare un esperimento: parlando del cambiamento, ho provato a cambiare il tono della storia.
Teoricamente dovrebbe essere più leggero e meno tragico, ma non credo di esserci riuscita.
E poi so che non sarà nulla di particolarmente entusiasmante, non sarà come quei capitoli pieni di colpi di scena, però credo che verso la fine ci stia pure incominciare a svelare gli altarini…
Bra…vi chiederete il motivo, giusto?
Bè semplice: per un lieve e poco accennato complesso di Elettra e poi perché inevitabilmente la madre dall’infanzia infelice cercherà sempre di proiettare su sua figlia specialmente i progetti falliti.
Amo Trunks ma per una volta diamo un ruolo importante a Bra. xD
Per quanto riguarda la ferita di Vegeta: non so se con una coltellata nell’addome si muore o no, penso dipende anche dalla profondità della ferita…in ogni caso: non sono dottore, anche se probabilmente ho scritto stronzate, lasciatemele passare.
Facciamo finta che una coltellata nel fianco, non così profonda, abbia questo effetto. xD
Io ringrazio voi tutti!
Tutti quelli che leggono, che seguono, che ricordano, che preferiscono e specie che recensiscono la storia.
Grazie a PZZ20 e a Micky_Heidi che non si perdono un capitolo, quando io fossi in loro me ne sarei persa più di uno. <3
Buona notte e alla prossima! <3
  
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