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Autore: nicky__    24/11/2013    0 recensioni
Margaret e Ryan avevano una vita perfetta, avevano un sacco di amici, un sacco di problemi adolescenziali, una sacco di dubbi, un sacco di allegria, una sacco di felicità da portarsi appresso.
Fu uno sguardo, un’occhiata sfuggente ad una festa che li fece notare.
Erano agli opposti.
Lei aveva sedici anni, lui diciannove.
Lei era quella calma, lui quello sempre pieno di energie.
A lei non piaceva mettersi in mostra, per lui lo spettacolo era tutto.
Lei preferiva la luce spenta, lui quella accesa.
Eppure, erano tutto l’uno per l’altra. Avevano ogni cosa. Di nuovo la vita era perfetta, ma basta un momento qualsiasi di un giorno qualsiasi a cambiare ogni cosa, per sempre.
**
-Serve una mano?-
-Decisamente si.- alzai lo sguardo su di lei. Aveva un aria familiare. Sapevo di conoscerla.

**
Girai la testa dall’altro lato e guardai oltre il vetro.
Fu lì che mi accorsi di Ryan, aldilà del vetro.
Mi vide ed io ero debole.
Non doveva decisamente andare così.

**
Puntai i miei occhi nei suoi, mentre le forze mi venivano meno. Mi diede un bacio carico di amore, poi sorrise, confortandomi.
Dopo, ci fu solo buio.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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1. Perchè dovrebbe essere tutto perfetto?
 
3 settembre 2012
 
Ryan.
Come ogni lunedì, quello era il giorno della lavanderia. Il problema vero e proprio era che io non ero mai stato in lavanderia. Sapevo dov’era solo perché leggevo ogni giorno la scritta azzurra ‘lavanderia’  incollata al vetro traslucido del locale mentre andavo a scuola.
Di nuovo, mia madre mi aveva fatto la ramanzina perché avevo passato il test di fisica per tredici punti e quello di matematica per un punto e mezzo. Davvero, a me non me ne fregava nulla né di matematica, né di fisica. Non penso che quando ordinerò una pizza da portare a casa loro mi diano lo scontrino con il totale calcolato in radici quadrate. Ma chiaramente, mia madre non era d’accordo.
Entrai nella stanza ed un forte odore di ammorbidente mi riempì le narici. C’erano ben tre file di macchinari, ognuna da circa otto lavatrici. O forse erano asciugatrici? Non ci capivo assolutamente nulla, l’unica cosa ben chiara al mio cervello era l’ennesima certa sfuriata di mia madre su quanto io le avessi rovinato il bucato e su quanto io fossi un buono a nulla. Cercai almeno di imparare da tutte le altre persone lì presenti. Mi fermai ad osservarle cinque minuti ciascuno, giusto per capire almeno da dove io dovessi cominciare. Non sembrava difficile. Butti la roba da lavare dentro l’oblò di plastica, estrai il mini cassetto sovrastante l’oblò e dentro ci versi la polvere rosa prendendola dalla scatola con su scritto ‘detersivo’, poi chiudi tutto e giri la manopola.
Si, ce la potevo fare.
Mi avvicinai titubante ad una di quelle macchine con gli oblò, rendendomi conto fin da subito che in realtà la faccenda era molto più complicata di così.
-Serve una mano?- una voce femminile cristallina mi risvegliò dai miei pensieri. Sembrava divertita.
Non mi domandai nemmeno da chi provenisse quel suono. Molto probabilmente mi aveva visto così spaesato e voleva darmi qualche preziosa nozione su come si facesse la lavatrice, salvandomi davvero dal dover dire addio alla macchina per un mese.
-Decisamente si.- risposi, grattandomi la nuca, mentre continuavo a fissare il cerchio in plastica trasparente della lavatrice.
Rise, evidentemente divertita dalla pessima figura che stavo inscenando. Alzai lo sguardo su di lei. Aveva i capelli biondi, ma le lampade alogene li facevano sembrare quasi grigi, vecchi; erano mossi, con qualche boccolo morbido qua e là ed arrivavano fino a metà della sua schiena. I suoi occhi erano dipinti di azzurro, un azzurro cielo. Sulla bocca, in basso a destra, risaltavano il paio di piccole palline metalliche del piercing che aveva. Era alta, quasi quanto me e anche se non era particolarmente prosperosa, la sua assenza di curve la rendevano… interessante.
Aveva un aria familiare. Sapevo di conoscerla, eppure il mio cervello non riusciva bene a collocarla.
-Piacere, Ryan.- mi presentai, rendendomi conto che non potevo rimare lì a fissarla inebetito per il resto della giornata.
-Margaret. Allora, cosa dovresti fare di preciso?- lì capii. Capii che razza di coglione fortunato fossi e ringraziai mille volte mia madre per avermi mandato in lavanderia proprio quel lunedì e non quello dopo, o quello prima.
Era la stessa Margaret che avevo accompagnato a casa qualche settimana prima.
-Dovrei lavare questi.- indicai con una mano la borsa che mi portavo sotto braccio.
-Bene, vuoi darmi? Così faccio io.- tese le mani verso di me, prendendo la sacca.
La vidi dividere diligentemente la roba bianca da quella nera e da quella colorata in tre lavatrici differenti. Mi spiegò che era per non disperdere i vari colori e per evitare che rimanessero macchie distinte sui capi. Per ogni lavatrice mise tre detersivi diversi. Per i panni colorati usò quello in polvere rosa, per quelli bianchi ne usò uno del medesimo colore e per quelli neri utilizzò un liquido bianco perlaceo.
Mi ritrovai a sorridere come un idiota di fronte a lei, mentre la guardavo svolgere il compito che era stato destinato a me. Lei sembrò accorgersene subito, visto che anche sul suo volto si aprì un sorriso confuso, lasciando comparire una ruga in mezzo alle sopracciglia ed un bellissimo paio di fossette sulle guance. Non le avevo notate, prima.
-Che hai da ridere tanto?- mi chiese, divertita anche lei.
-Stavo solo pensando che grazie a te, mia madre non mi toglierà la macchina.
Rise scuotendo la testa, alla confessione che le avevo appena rivelato. Perché capì che nonostante la mia età, avevo ancora paura di mia mamma, a volte.
Si fermò e si sedette vicino a me, mentre aspettava che le varie lavatrici finissero il loro lavaggio. La vidi incrociare gambe e braccia, la fronte corrugata alla ricerca di qualche pensiero. Dopo pochi minuti, parlò.
-Sai, speravo tu te ne ricordassi, ma… Alla festa studentesca di qualche settimana fa, mi hai riaccompagnata a casa. Non che mi aspettassi che tu ti saresti ricordato di me, certo, era solo per fartelo sapere.- la vidi gesticolare, mentre mi esponeva il proprio monologo che si era appena preparata nella sua testa.
-Io me ne ricordavo.- dissi semplicemente, perché quella era la verità.
Lei non disse nulla, alzò entrambe le sopracciglia e dischiuse leggermente la bocca, tornando alla sua posizione iniziale, ora molto più rilassata.
-Ti va se andiamo a prenderci un caffè, ogni tanto?- me ne uscii io, che nemmeno mi piaceva il caffè.
-Beh io preferirei una tazza di tè, ma sì, va bene.- si voltò verso di me, sorridendo ancora una volta, facendo scintillare i suoi occhi azzurro mare.
 
Margaret.
-Non lo conosci nemmeno!- mi ammonì per la terza volta in quindici minuti.
-Si chiama Ryan e vive a due isolati da casa mia.- le risposi diretta. Ero scocciata per il suo comportamento, infondo, che ne sapeva lei?
-E poi? Quanti anni ha? Lavora? Studia? Magari spaccia e nessuno lo sa.- continuò ad inventarsi scuse su scuse per non farmi uscire con lui.
-Elèna… Smettila. Non è un tossico, né un alcolista. E’ apposto.- non la sopportavo più. Era la mia migliore amica e per me voleva solo il meglio, certo, ma non poteva nemmeno permettersi di giudicarlo così.
-Lo hai visto due volte in vita tua, in una delle quali non eri neanche del tutto lucida. Non sai se è apposto.- enfatizzò l’ultima parola caricando un paio di virgolette con le mani.
-Andiamo a berci qualcosa assieme, non ad concerto reggea!- esclamai, alzando gli occhi al cielo. Davvero, quando faceva così non la sopportavo.
-Però mi prometti che se qualcosa va storto mi chiami? Perché io corro da te immediatamente.- mi implorò a sguardo basso, le mani raccolte in grembo, arrendevole.
Risi, perché nonostante lei fosse una delle persone più esasperanti, megalomani, prepotenti e testarde della mia vita, era la mia migliore amica e non l’avrei scambiata con nessun altra.
 
 
20 settembre 2012
 
Margaret
Era la prima volta che uscivamo ed ero particolarmente nervosa per un’uscita con un semplice amico. Avevamo continuato a vederci solo in lavanderia, stringendo amicizia lì. Il luogo e l’ora erano stati concordati il giorno prima, quando gli avevo nuovamente fatto il bucato. Inutile dire che quel ragazzo fosse davvero imbranato per quanto riguardava le faccende domestiche.
Dovevamo incontrarci alle dieci all’entrata del Baker Park a meno di cinque minuti da casa mia, ma erano già le dieci e mezza ed io cominciai a sospettare che non si sarebbe presentato. Sentii una leggera punta di irritazione mista a cosa? Delusione? Farsi strada nella mia mente. Molto probabilmente mi aveva preso in giro.
Girai lo sguardo in direzione della strada di casa, quando una voce mi distrasse dai miei pensieri.
-Ehi! Dove stai andando?
Mi girai e lo vidi. Aveva le guance arrossate dal vento freddo che soffiava quel giorno, gli occhi color miele erano lucidi a causa della temperatura, le labbra più rosse del solito. In testa portava un cappello grigio per evitare di congelarsi la testa e di scompigliarsi i capelli dritti castani e la giacca a vento nera gli impediva di sentire particolarmente freddo al busto.
Non mi resi conto subito della reazione involontaria che la sua presenza aveva provocato al mio corpo. Mi sentivo rilassata, forse anche troppo perché sentivo le gambe molli e deboli, il respiro era regolare, nonostante l’anormale ritmo delle pulsazioni cardiache.
-Sei in ritardo, Ryan.- lo accusai in partenza, rispondendo anche alla sua domanda.
-Lo so, scusami. Non è un granché inizio, vero?- rispose colpevole, grattandosi la nuca.
Scossi la testa ridendo, sinceramente divertita.
-Ti va una cioccolata calda?- sviai il discorso, per non metterlo ancora di più in imbarazzo.
Alzò gli occhi e mi sorrise, scoprendo i denti bianchi. Poco dopo annuì, incamminandosi verso la caffetteria più vicina.
 
Ryan
Riuscimmo davvero a parlare di tutto.
Scoprii che aveva un fratello più grande di lei, Eros,  di ventidue anni.
Che i suoi genitori si chiamavano Rose e Matt Jhonson e che si erano sposati all’età di venticinque anni, quattro anni dopo la nascita di Eros.
Che quando aveva cinque anni il gatto che le avevano regalato era scappato di casa dopo poco di un mese, inutile dire quando Margaret fosse rimasta traumatizzata da quel fatto.
Mi disse che quel piercing che aveva sul labbro inferiore non le piaceva affatto e che voleva toglierselo perché se lo era fatto solo sotto la costrizione della sua migliore amica Elèna.
Mi disse che almeno una volta a settimana doveva far sloggiare una ragazza dal letto di suo fratello e che ogni volta loro si sentivano umiliate e che ogni volta Eros poi si complimentava con lei per la poca pazienza che utilizzava con loro.
Mi confidò il fatto che avesse ancora paura del buio e che ogni volta che usciva di casa d’inverno per andare a scuola aveva sempre la sensazione di essere seguita da un qualche mostro.
E anche che le piaceva un sacco andare alle feste, soprattutto quelle che organizzavano gli amici di Eros perché erano più divertenti e perché così la facevano entrare gratis.
Le piaceva leggere e scrivere, a scuola aveva la media dell’otto e odiava ogni suo professore, ognuno per un motivo diverso.
Mi disse che ogni volta che riusciva a mettere assieme più di novanta dollari andava a fare shopping in centro con Elèna e che ogni volta entravano nei negozi di marchi firmati solo per prendere in giro tutti gli snob con la puzza sotto il naso.
Le scappò per sbaglio di dirmi che aveva fatto sesso solo una volta.
Scoprii che le piacevano i cani grandi e che quando avrebbe avuto una casa tutta per sé ne avrebbe adottato uno.
Che quando aveva undici anni aveva sbirciato nella stanza di suo fratello mentre era assieme ad una ragazza non riuscendo però a capire bene cosa stessero facendo.
Che il suo sogno da grande era di fare la psicologa, perché le è sempre piaciuto dover scoprire le persone attraverso quello che loro dicono, come se le stessero lasciando degli indizi per invogliarla a fare conoscenza e che suo fratello non approvava affatto perché aveva paura che durante una seduta incontrasse uno psicopatico che voleva farle del male.
Mi disse che lei e suo fratello erano sempre stati inseparabili fin da quando era appena nata, perché lui aveva sei anni più di lei e si sentiva in dovere di proteggere la sua sorellina e che per questo motivo i suoi genitori, quando hanno traslocato, hanno scelto una casa che potesse avere due camere da letto comunicanti così da potersi controllare a vicenda e che anche adesso erano divise solo da una porta scorrevole di vetro.
Mi disse che Elèna viveva un isolato più in là di me, una volta averle spiegato dove abitassi io.
Io, dal canto mio, le avevo parlato di me come solo Mark sapeva, probabilmente.
Le dissi che odiavo la scuola e che infatti mi avevano rimandato in due materie e che la massima lettura in cui riuscivo a cimentarmi erano le istruzioni su come si giocava ai videogiochi.
Le raccontai di quando da piccolo ero rotolato a faccia in giù sull’asfalto rompendomi quasi una caviglia e di quanto avessi riso con Mark quel giorno per la figuraccia che avevamo fatto di fronte a tutti.
Che avevo una sorella più grande anche io, Phoebe, di venticinque anni e che se ne era andata di casa a diciannove, appena ne aveva avuto la possibilità lasciandomi da solo con mia madre.
Le confidai che mio padre aveva lasciato mia madre per una puttanella notevolmente più giovane e più attraente quando io avevo quattordici anni e che ogni notte potevo sentire mia madre piangere nella sua camera da letto e che quindi andavo a dormire assieme a lei per non farla sentire sola, perché mi sentivo anche io in dovere di proteggerla.
Le raccontai che quando avevo nove anni i miei genitori mi regalarono un acquario con dentro una decina di pesci rossi, che però morirono tutti entro tre mesi, uno dopo l’altro e che non ci rimasi particolarmente male, perché poi me ne ricomprarono di altri.
Le dissi che Mark era il mio migliore amico da quando avevo tre anni e che viveva di fronte a casa mia.
Che mi piaceva la musica house e che ogni volta che andavo in discoteca per poterla sentire, non l’ascoltavo più per giorni perché mi aveva stufato.
Che avevo un tatuaggio sulla schiena con scritto “E’ meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente” solo perché quando me lo ero fatto era l’unica cosa che mi piaceva e che volevo farmi un piercing sulla lingua entro i vent’anni.
Che mia sorella mi aveva chiesto di accompagnarla all’altare quando si sarebbe sposata e che avrei fatto da padrino a suo figlio.
Che mia madre mi aveva pagato il corso di guida per i miei sedici anni e la macchina per i miei diciassette.
Anche io mi lasciai sfuggire il fatto di aver scopato per la prima volta a sedici anni, ma che di certo non l’avevo fatto solo in quel momento.
Le dissi che non mi piaceva fare shopping e che qualche volta avevo rubacchiato qualche abito in qualche negozio perché costava più di venti dollari.
Le dissi che in quel momento non ero impegnato con nessuna ragazza e mi godei per bene la sua reazione scocciata quando continuai dicendo che sarei stato solo per lei per almeno il prossimo mese. Lo schiaffo che mi arrivò di rimando non mi sorprese, ma riuscii comunque ad afferrare la sua mano quando stava uscendo dal bar. La girai verso di me, in modo che mi guardasse negli occhi, poi mi avvicinai a lei e feci mie le sue labbra percependo le due palline fredde del piercing che non le piaceva per nulla. Rimase immobile all’inizio, ma non ci volle molto per farla abbandonare a me.
In quel momento realizzai che sarebbe stato più di un mese.


**spazio autrice**
Da dove comincio? Beh, intanto col dire che questo è un capitolo un po' più lungo del prologo ed è il primo vero capitolo della storia. Il carattere dei personaggi ancore non è stato ben definito, ma basterà aspettare ancora poco per quello. Ryan sembra sempre il solito guastafeste buono-a-nulla, visto che non sa ancora come utilizzare una lavatrice -su questo sono abbastanza d'accordo con sua madre- e chi corre in suo aiuto, ovviamente? Ma la nostra Mag! Okay... Forse era scontato...
Subito Ryan le dà l'impressione di uno scansafatiche che non si presenta puntuale nemmeno agli appuntamenti ed è per questo che si stava voltando per andarsene, ma come il suo solito, il Prode Cavaliere corre in soccorso con il suo solito tempismo da film smielati.
Lo scambio di conoscenze l'uno all'altra ho scelto di descriverlo senza un apparente ordine logico e non in un discorso diretto semplicemente perchè così mi sembrava di lasciare maggior spazio ai pensieri di ognuno dei due.
Sono un po' dispiaciuta di non aver ricevuto nemmeno una recensione per il Prologo, ma non mi dò per vinta e sono di nuovo qui a pubblicare un'altro capitolo.
Con questo vi lascio alla lettura -sperando di invogliare qualche commento- e mi dileguo,

Baci, Nicky <3
  
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