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Autore: yelle    27/11/2013    5 recensioni
[Olicity]
Raccolta di one shots a tema "bacio".
25.09.2015: aggiunta la quinta one shot - storia fluff.
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Felicity Smoak, John Diggle, Oliver Queen
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2. Non riuscivo a svegliarti.


 
Felicity buttò le chiavi della macchina nella grande borsa che le appesantiva la spalla e appoggiò il telefono all'orecchio. Il numero dall'altra parte della cornetta squillava.
“Queen.”
“Oliver, sono Felicity.”
“Scusami,” lo sentì dire a chiunque si trovasse insieme a lui in quel momento. “Devo rispondere.” Qualche istante dopo era di nuovo in linea, e sembra piuttosto incazzato. “Felicity! Dove diavolo sei stata?! Ti ho telefonato dozzine di volte!”
“A dire il vero erano solamente sei, e giusto in questo momento sono fuori dal parcheggio. Arriverò in ufficio fra circa una quindicina di minuti.”
“sono curioso di sapere che tipo di persona ci mette 15 minuti a prendere un ascensore e salire al diciottesimo piano.”
“Una persona molto impegnata. Sul serio, Oliver, se la smett-...”
Ma Felicity non terminò mai la frase. Ad Oliver fu dato solamente di udire attraverso la cornetta lo stridio degli pneumatici e l'urlo di una voce sconosciuta. Grida, un urlo di dolore che era senz'altro di Felicity. E poi il nulla.
 
 
 
 
 
Felicity perse ogni cognizione del dove e del quando. Avvertì un corpo gettarlesi addosso da dietro, buttandola a terra in avanti sul marciapiede. Sentì le ginocchia e i palmi delle mani scorticarsi mentre tentava di frenare la caduta su cui non aveva però alcun tipo di controllo. Quando finalmente si fermò e alzò la testa, il tempo sembrò essersi fermato insieme a lei, carponi per terra. Si sentì come racchiusa in una bolla insonorizzata che la separava dallo sconosciuto il cui volto riempì improvvisamente la sua visuale. Vedeva le labbra dell'uomo muoversi, i suoi occhi guizzare sul suo volto con preoccupazione, ma al suo udito non arrivava suono di alcun genere. Strizzò gli occhi, ma nulla cambiò. La gente, improvvisamente assiepatasi intorno a lei, le afferrava le braccia, aiutandola a rialzarsi mentre lei cercava di sentire le parole che la circondavano. Una donna le porse gli occhiali persi durante la caduta e miracolosamente ancora intatti. Allungò la mano, e si accorse solo in quel momento di tremare. Un altro signore le porse la borsa; data la sua improvvisa leggerezza, era pronta a scommettere che metà del suo contenuto era sparso sul manto stradale.
Stordita, Felicity sbatté le palpebre e si voltò lentamente verso il punto della strada dove Diggle stava uscendo velocemente dalla propria macchina, gli occhi spalancati in un'espressione shockata e preoccupata.
“Che cosa è successo?” chiese lei rivolta a nessuno in particolare, la voce sottile e fragile, tremante come il resto di lei. Si accorse di vacillare sulle ginocchia. “Ho bisogno di sedermi.”
Le sconosciute mani che la reggevano la condussero ad un'enorme fioriera e la spinsero a sedervisi sul bordo. Il sole che puntava timido dalle nubi le scaldava la pelle fredda per lo shock.
Questa volta il viso che riempì il suo campo visivo le fu familiare. Diggle aveva perso l'espressione spaventata e ora la guardava con una calma che le trasmise attraverso il contatto delle mani poggiate sulle sue spalle.
“Stai bene?”
Lei aprì la bocca, ma nessun suono fu in grado di uscirne. Questa volta, però, non era l'udito il suo problema.
“Felicity? Dì qualcosa. Stai bene? Sei ferita? Devo chiamare un'ambulanza?”
Lei scosse la testa, non fidandosi del suo stesso corpo di riuscire a fare altro. Lui la esortò a parlare.
“No.” Scosse la testa, trasalendo al dolore che l'attraversò. “Sono un po' contusa, ma sto bene.”
“Non lo so,” intervenne lo sconosciuto che poco prima le aveva passato la borsetta. “È stata una brutta caduta... è sicura di sentirsi bene?”
“Certo! Ho solo la pelle un po' scorticata; ho bisogno di un kit di pronto soccorso, non di un ospedale con i loro dottori, e i camici, e i bisturi, e i ghigni nascosti dalle mascherine, e-”
“Felicity, per caso hai paura degli ospedali?”
“Io? No, Diggle, perché dovrei? Sono una persona adulta e coscienziosa che affronta ciò che le fa paura e lo trasforma in un punto di forza.”
“Okay,” sorrise lui. “Allora vieni, ti porto a casa.”
La gente riunita intorno a loro rimase a guardare mentre Diggle le porgeva la mano. Quando i loro palmi entrarono in contatto Felicity sobbalzò, completamente dimentica delle escoriazioni.
“Che cos'è successo?” Un poliziotto si fece strada fra la piccola folla e rivolse la propria attenzione su di lei. A rispondere, però, fu il primo uomo, quello che l'aveva spinta via.
“Era appena scesa dal marciapiede quando un'auto è arrivata sfrecciando e sbandando da dietro l'angolo. Sono piuttosto sicuro che il guidatore fosse ubriaco. Ho spinto la ragazza via dalla strada appena in tempo. Spero di non averle fatto troppo male, signorina,” aggiunse.
Felicity sollevò la testa sorridendogli, ancora spaventata. “Sto bene. Credo lei possa affermare con relativa sicurezza di avermi salvato la vita. Grazie.”
Aveva rischiato la vita. Il pensiero la colpì all'improvviso con violenza, accompagnata da un'ondata di nausea. Qualcuno che non avrebbe dovuto girare per le strade alla guida di una macchina l'aveva quasi messa sotto, c'era mancato davvero poco perché non avesse più potuto tornare al lavoro.
Oliver. Stava discutendo con Oliver quando quel tizio l'aveva spinta, e probabilmente aveva sentito tutto.
Deglutì, e prima di chiudere gli occhi scorse un movimento: qualcuno alla sua sinistra le porse una bottiglietta d'acqua, che afferrò con irruenza e tracannò in pochi sorsi. Sperò che il suo stomaco si calmasse.
“Dov'è il mio cellulare?”
 
 
 
 
 
Felicity?!” Oliver gridò il suo nome al telefono, ma non ebbe alcuna risposta. Solo rumori di fondo, voci stridule e lontane, passi e ancora grida. Si voltò e vide che qualcuno lo fissava, ma -che cosa curiosa- non ricordava né chi fosse né perché si trovasse lì.
“Mr. Queen? È tutto a posto?”
No, brutto idiota, avrebbe voluto rispondere, ma si limitò a correre fuori dall'ufficio per fermarsi davanti alle porte dell'ascensore. Al telefono aveva sentito lo stridio violento degli pneumatici interrompere bruscamente la voce di lei, poi grida, e ora il niente. Il telefono giaceva inerme e muto nel pugno della sua mano.
Si gettò nell'abitacolo appena le porte si aprirono, schiacciando il tasto del piano terra con furiosa impazienza. Mentre l'ascensore si muoveva, Oliver sembrava volersi muovere insieme ad esso per accelerarne la corsa. Incapace all'immobilità abbassò lo sguardo sullo schermo del cellulare e digitò il numero di Diggle. Avrebbe volentieri gettato l'affare per terra appena sentì la voce meccanica della segreteria telefonica, se solo in quell'esatto momento non si fossero riaperte le porte. Si lanciò fuori dall'abitacolo e corse per la hall, muovendosi preciso fra le persone che lo fissavano, confuse e probabilmente spaventate.
Mentre spingeva la porta a vetri dell'edificio si costrinse a respirare, a pensare. Davanti a lui non c'era niente, solo il traffico cittadino quotidiano.
Ma poi eccolo lì. Il campanello di gente a qualche dozzina di metri alla sua sinistra fu abbastanza indicativo di dove si trovasse Felicity. Si incamminò a passo troppo veloce, ma prima che potesse raggiungerla Diggle gli si parò davanti.
“Che cos'è successo?” gli chiese trafelato.
“Sta bene, Oliver. Ha solamente avuto la sfortuna di incrociare la strada con un ubriaco.”
“Alle nove di mattina?”
l'altro scrollò le spalle.
“È ferita?”
“Solo qualche graffio, niente di troppo serio. È un po' disorientata e contusa. Dice di non aver bisogno del pronto soccorso, ma credo ne sia semplicemente terrorizzata.”
“Te l'ha detto lei?”
“No, ma è piuttosto chiaro,” sorrise. “La guardia del palazzo è corsa dietro alla macchina, ma l'ha persa dopo poco. È riuscito a prenderne la targa, ma non a vedere chi era alla guida.”
“Okay, Diggle, grazie. Ora scusami, voglio vederla.”
 
 
 
 
 
Felicity trasalì quando la ragazza –che si era presentata come un'infermiera dello Starling General Hospital di nome Brenda– le tamponò i palmi delle mani con il disinfettante. Era ancora seduta sul bordo della fioriera, mentre la giovane era in ginocchio sul marciapiede accanto a lei. Diggle era apparentemente sparito, e dinanzi a lei v'erano ora nient'altro che volti a lei sconosciuti. Fino al momento in cui lui arrivò, e per la prima volta dopo tanto tempo si ritrovò muta davanti ai suoi occhi penetranti e al suo volto quasi severo. Avrebbe voluto essere in piedi al suo arrivo, ma le girava la testa e le gambe ancora non reggevano il suo peso. Lui s'inchinò dinanzi a lei fino al punto in cui quegli stessi occhi furono alla stessa altezza dei propri. Fissandoli ad una distanza così ravvicinata, si ritrovò ammutolita dall'intensità di quello sguardo. La vide scrutarla da capo a piedi e indugiare sulle sue mani che l'infermiera era ancora impegnata a fasciare.
“Sto bene,” si sentì in dovere di rassicurarlo. “Davvero, non mi sono fatta niente, mi disp-...”
“A me quelle non sembrano niente,” esclamò serio accennando alle sue mani.
“Sono solo graffi. Sul serio, Oliver, mi faccio di peggio con la carta quando sono impegnata con quelle tue maledette fotocopie.”
Rimasero in silenzio a fissarsi per qualche minuto, il cuore di Felicity incapace di calmare il proprio battito. E poi lui la colse completamente alla sprovvista, afferrandola per i gomiti e tirandola in piedi fino a stringerla a sé. Le passò le mani fra i capelli in un gesto che a lei sembrò casuale. La testa poggiava sul petto di lui, dove il cuore tuonava forte e veloce nel suo orecchio. Il contatto fu breve, fugace, ma intenso. Lui si scostò per primo, ma non si allontanò.
“Signore?” Un poliziotto si avvicinò per rivolgere la parola ad Oliver. Era giovane, ed apparentemente intimidito dal suo interlocutore.
“Agente, salve. Avete fermato lo sconosciuto?”
“Non ancora, ma abbiamo un testimone che ha preso la targa, mentre un altro ha visto la macchina nel momento in cui ha svoltato l'angolo e pensa di riuscire a fare un identikit della persona al volante.”
“Quindi non avete niente?” La voce di Oliver era dura. Sembrava quasi seccato dal giovane.
“Signore? Le ho appena d-...”
“So perfettamente cosa ha appena detto, agente, la ringrazio.”
“Oliver...” Diggle, comparso qualche istante prima accanto a loro, poggiò una mano sul braccio dell'amico con l'intento di calmarlo. L'altro rispose scansandosi ed allontanandosi. Diggle lo seguì.
“Oliver, che ne dici di darti una calmata?”
“Sono calmissimo,” rispose accelerando il passo.
“Credo sappiamo benissimo entrambi che non è vero. Hey!” Con un paio di balzi lo superò e gli si piantò davanti. “Rilassati, Oliver. Sta bene.”
“Non so di cosa tu stia parlando.”
“Okay, come preferisci,” sbuffò lui con malcelata ironia.
“Hai parlato con il tizio che l'ha spinta via?”
“Sì, è quello con la camicia blu che parla con la polizia. Non ha avuto il tempo di vedere alcunché.”
Oliver mugugnò un'affermazione incomprensibile prima di dargli le spalle e tornare da Felicity.
Non la guardò mentre stringeva la mano dell'agente che stava prendendo la sua deposizione. Era una donna giovane, con un cipiglio severo che dedicava a tutto il mondo, la bocca chiusa in un sorriso vuoto e senza angoli.
“Lei è un conoscente della signora?” gli chiese.
“Sono il suo datore di lavoro. Era al telefono con me quando... quando è successo.”
“Bene,” disse con tono dura che lasciava intendere che in realtà niente andasse bene. “Allora la lascio a lei. Ho preso la sua dichiarazione, e per il momento non c'è altro di cui abbiamo bisogno. Se troveremo il responsabile potremmo chiamarla in centrale per un identikit, ma per ora può tornarsene a casa.”
“La ringrazio, agente.”
La donna se ne andò senza alcun tipo di cenno verso di lui. Oliver si voltò ad incontrare lo sguardo di Felicity, ma gli occhi di lei erano chiusi. A causa dello shock, della stanchezza, o forse di entrambi, la ragazza era riversa sul sedile della macchina su cui la poliziotta l'aveva fatta accomodare per porle le sue domande. Dormiva, la guancia appoggiata sulla pelle calda del sedile, le gambe penzoloni dalla portiera aperta. Il vestito a fiori che indossava quel giorno era sgualcito , strappato nei punti dove il tessuto aveva attutito in modo infinitesimale la caduta. La guardò respirare, il volto disteso in una smorfia pacifica che cancellò la paura e lo spavento, e il peso dal suo cuore.
 
 
 
 
 
Felicity si svegliò di soprassalto, per passare dal sogno che stava facendo ad un incubo. Delle labbra sconosciute poggiavano sulle sue impedendole il respiro. Colta dal panico, si ritrasse e mulinò le braccia fendendo l'aria fino a incontrare qualcosa di caldo e duro, che colpì con il pugno chiuso con tutta la forza che riuscì a racimolare. Emanava un odore di cedro, e di pulito.
“Ahi!” bofonchiò lo sconosciuto prima di allontanarsi. Ovviamente era Oliver. Lo guardò allibita massaggiarsi la mascella. “Non pensavo potessi avere tanta forza nelle braccia.”
“Non farlo mai più!” disse lei, senza fiato. Lo guardava con sospetto, come fosse un cane appena rivoltatosi contro il padrone. “Dico sul serio. Mi hai spaventata a morte.” Si strinse le braccia al petto senza perdere l'aria sospettosa, e Oliver si sentì in colpa. Solo un po'.
“Mi dispiace,” le sussurrò, senza essere sicuro che davvero gli dispiacesse. “È solo che ti ho vista dormire, e...” si bloccò. “Stavi sognando, e io non riuscivo a svegliarti.”
lei si tocco le labbra con la punta delle dita, il suo smarrimento ormai sulla soglia della disperazione. “Quindi mi hai baciata.”
“E tu ti sei svegliata. Vieni, ti accompagno a casa.”
“Io non voglio andare a casa.”
“Ma ci andrai. Avanti,” la esortò afferrandole il braccio e tirandola in piedi. Felicity si divincolò.
“No!”
“Non fare la stupida, Felicity...” Ma Oliver si accorse in fretta della pessima scelta di parole utilizzata. Il risentimento di lei fu immediato, s'irradiava da lei come umidità del mattino sotto i raggi del sole caldo. “Non fare quella faccia, sai perfettamente quello che intendevo dire.”
“No, non lo so; perché non leggo nella mente e non ho la minima idea di cosa ti passi per la testa! E sia mai che Oliver Queen riesca a dire esattamente quello che pensa!”
“Felicity, che diavolo ti prende?”
“Niente! Sono sempre la solita, vecchia Felicity, che parla troppo, e balbetta, ed è sempre nervosa quando t-...” si bloccò fissando il proprio sguardo altrove.
“Quando cosa?”
“Niente. Non ha importanza.”
“Sei sotto shock. Devi riposare.”
“Se io sono sotto shock, che dire di te?!”
“Di me?”
“Mi hai baciata! E, sul serio, credo di non aver mai sentito una scusa più stupida della tua!”
Il sorriso di Oliver fu fugace, timido, ma non sfuggì alla vista di lei. “Felicity...”
“Non disturbarti, Oliver, lo so già,” lo anticipò lei, voltandogli le spalle ed incamminandosi lungo il marciapiede. Lui la seguì con espressione costernata.
“Che cosa sai, esattamente?”
Lei si fermò e lo fronteggiò. “Non fare finta di niente, non serve. So benissimo a cosa stai pensando.”
“Non avevamo appena deciso che non ne hai la minima idea?”
“Stai pensando 'ma chi diavolo me l'ha fatto fare di baciarla, ora sono costretto a starla a sentire mentre blatera cose senza senso che non capisco perché ho il quoziente intellettivo di un bambino di cinque anni'...”
“Sono abbastanza sicuro che non sia questo, ciò a cui sto pensando.”
“Sì, beh, ho parafrasato. Ma seriamente, Oliver, non c'è bisogno che dici nulla, te lo si legge in faccia.”
“Davvero? E, dimmi, in faccia mi si legge anche questo?” E pronunciate quelle parole, Oliver le circondò il volto con le mani e si chinò a baciarla per la seconda volta. Quando rialzò il viso gli occhi gli brillavano. “E ora lascia che ti riporti a casa.”
Felicity si lasciò guidare dalla mano di lui che stringeva la sua, per una volta incapace di trovare le parole.
 
 
   
 
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