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Autore: GenGhis    28/11/2013    1 recensioni
Domenico ha dodici anni: troppo pochi per comprendersi interamente, ma abbastanza per indagare sulla complessità dei legami umani, che si basano sì sull'amore, ma anche sulla dipendenza, la paura, l'egoismo e, paradossalmente, la solitudine. Ansioso di costituire rapporti autentici, conosce Pietro, suo coetaneo: con lui instaura una relazione unica; attraverso la voce del protagonista si spiegano le fila di un racconto di formazione che ha come fulcro l'età della purezza e dell'incoscienza, della scoperta, della frenesia, della speranza. L'infanzia, appunto, come tutti la conosciamo.
Inizialmente, "Infanzia" era parte di un progetto più vasto, ed era solo uno dei tanti tasselli del mosaico: ma non ho potuto non affezionarmi al melanconico punto di vista di Domenico, e ai suoi teneri ma significativi episodi di vita vissuta intensamente. Spero che anche voi, come me, possiate innamorarvene.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"La mia vita dagli undici ai dodici anni"
di Bonavà Domenico


 
"E anche se ce lo restituissero,
questo paesaggio della nostra gioventù,
non sapremmo più che farcene."
 Erich Maria Remarque
Niente di nuovo sul fronte occidentale





PROLOGO



 
 E io mi chiedo se fossimo davvero amici, o forse soltanto un surrogato di qualcos’altro, di un’idea, che ci riempiva entrambi: se ripenso a quegli anni, non credo che il piccolo Pietro Pelotti ed io ci saremmo mai cercati, se non avessimo avuto entrambi la condanna di una solitudine profonda, talmente invadente da sciupare anche il più felice degli attimi. Nulla di male in questo - molti rapporti nascono dalla frenetica, avara ricerca di compagnia - ma c’era qualcosa, fra di noi, che trascendeva i confini dell’ordinaria fratellanza e regrediva nella dipendenza. Io la provavo, vivida ed intensa, la provavo la spasmodica smania di avere Pietro accanto; e, se qualcuno me l’avesse domandato, avrei anche potuto ammetterlo - seppure con gli occhi bassi della mortificazione - ma mai avrei creduto che fosse possibile il contrario. Che lui - lui! - avesse bisogno di Domenico Bonavà, lui che era il centro della mia anima e l’anima della nostra coppia, lui che era una monade pur dentro una diade, lui che aveva la mia stima, la mia soggezione, il mio cuore?
  Davanti agli occhi foschi di Pietro io mi scioglievo, diventavo un’unica lamella rigida che vibrava come una corda pizzicata in un violino, nell’involucro odioso del mio corpo. Conservo il ricordo di alcuni pomeriggi davvero beati, in giorni di pioggia in cui nessuno dei due aveva voglia di uscire, e stavamo semplicemente riversi l’uno accanto all’altro, flosci sul divano con i soli calzettoni ai piedi, a fissare instupiditi lo schermo convesso del televisore. Seguivamo diversi sceneggiati polizieschi, e nel mentre parlavamo poco: io tacevo, ma il mio petto si riempiva di una tale letizia da traboccare; a volte la pace era talmente concreta da portarmi al parossismo della contentezza, quasi all’acme della commozione, eppure reputo questi attimi di assoluta serenità come alcuni fra i più felici della mia vita intera. Avrei voluto che continuasse per sempre così, che il tempo congelasse le nostre esistenze complementari in quell’istante perfetto: ma qualcosa interveniva sempre a crepare la nostra armonia.
  Ammetto di averlo amato, anzi: adorato, addirittura. Il mio era un sentimento puro, dedito, vivissimo, del tutto a-romantico. Queste passioni - che adesso mi appaiono così uniche e straordinarie - allora le nutrivo con una certa incoscienza, senza distinguere fra l’affetto elementare che provavo per i miei genitori e quello più articolato ed indefinibile che mi legava a Pietro. Se dovessi condensare in una definizione sola la natura del nostro rapporto, direi che era quanto di più penoso e malsano mi sia mai capitato di sperimentare: talmente era innocente il mio bene per lui, e il suo per me, che quello che avrebbe schiacciato chiunque altro nel nostro caso ci servì a crescere e ad imparare, infine, a convivere col demone dentro noi stessi.
  Con Pietro trascorsi alcuni fra gli anni più complessi della mia vita, eppure ho memoria solo di una certa indeterminatezza sommersa, più che altro un senso di indistinta confusione che, d’altra parte, non avrei saputo definire a parole. Ho sempre creduto di essere, per indole, troppo duro con me stesso - solo più tardi compresi la labile ma sostanziale differenza fra magnanima durezza e semplice vigliaccheria, e a me piaceva molto concedermi il perdono - anche allora professavo un’idea precisa di chi fosse Domenico Bonavà: e chi era questi per gli altri?
  Solo un ragazzino qualunque, credo io, nonostante un certo talento per le discipline sportive, che però aborriva per via di quella sadica violenza che tutti gli agonismi sottintendono; il primo nome sul registro di classe, il più basso fra i maschietti ma, seppur mansueto, alquanto ben piazzato per essere solo un undicenne; la copia spiccicata di suo fratello maggiore, forse un po’ meno lavativo; uno studente volenteroso ma non particolarmente brillante: una presenza piccola e sospettosa dietro un banco di scuola, con una bocca tirata in un broncio e un paio di grigi occhi velati di melanconia.
  E Pietro, Pietro... Accidenti, allora davvero credevo che fosse destinato a grandi cose, e cullavo l’innocuo, timido auspicio che potessi esserci anch’io, con lui, quando queste gli fossero cascate fra le braccia! Era un tipo talmente in gamba che, talvolta, avrei voluto stritolarlo come un pupazzo fino a svuotargli l’aria dai polmoni, e urlargli “Parla! Parla, per la miseria! Altrimenti nessuno capirà mai quanto vali!”. A questo proposito, solo poi feci ammenda della mia ingenuità: le parole che mi ferirono, le prime della mia vita, fu la sua voce a pronunciarle, e i primi, insopportabili silenzi fu lui a somministrarmeli, con atroce crudeltà, centellinando ogni sillaba come gocce d’acqua su un paio di labbra asciugate. Però avrei sopportato anche questo stillicidio, se come premio avessi avuto lui. Mi immergevo nei suoi occhi neri, lucidi e tondi come biglie d’onice, e sentivo il bisogno di prendergli una mano e intrecciare le sue dita con le mie: non molto, quindi, volevo solo che lui mi guardasse e mi dicesse “siamo amici”.
  Ricordo questo: dal momento in cui lo vidi, tutto ciò che desiderai fu che mi lasciasse essere il suo compagno, la sua spalla, il suo confidente, il suo alleato, il suo complice. Chiunque volesse, per lui lo sarei diventato; mi sarei abnegato, mortificato, avrei perso la mia identità in cambio della sua attenzione: ma tu chiamami amico, Pietro, chiamami amico anche se non lo siamo, anche se non c’è nulla di più lontano da ciò che siamo veramente...
 
 
 
CAPITOLO I

Immersione
 

 
  Capitò per caso; ma, in fede, non credo che si sia trattato di una coincidenza. Io credo piuttosto che ogni cosa caduta, crollata, edificata fino ad allora, nei miei primi dodici anni, fosse stata orchestrata lungo quella scesa impennante affinché concorresse in quel solo, singolo giorno: un giorno straordinario e unico, un giorno in settembre in cui Domenico Bonavà piegò le ginocchia e spiccò un salto nel buio, superò il baratro - o forse ci sprofondò dentro, ma mentre il cuore pareva collassargli in petto, poiché aveva volato, il tempo di sollevarsi dal terra e sospendersi nell’aria, aveva volato, finalmente libero dalle catene del suolo.
  Il prima è, per me, motivo di un esame ancor più tormentoso: ritorno al mio passato con una scrupolosità che definirei maniacale, sfogliando e risfogliando gli almanacchi della mia esistenza, in preda ad un’ansia incontrollabile. Non sopporto quest’irrazionalità, quest’incertezza! Io voglio stabilire giorno ed ora, quel battito di ciglia in cui il mio destino venne scritto, l’istante preciso, isolarlo, chiuderlo fra le mani come un gheriglio fra le due concavità di noce. Perché voglio capire se fui io a scegliere: se ci andai di mia volontà, su quel circuito folle, oppure mi ci gettarono a forza, e allora fui costretto a correre.
  Allungo le dita, ed ho sotto i polpastrelli la ruvidezza di una strada viscida, un labirinto di viuzze, un budello di gradini affilati che conducono all’ingresso della terra, una scala sotterranea per una stazione ferroviaria. Divarico le narici e sento il fumo delle ciminiere; le orecchie mi si riempiono del clangore di macchine, quel lamento gracidante del metallo piegato. In bocca, assaporo il gusto ferroso del sangue, e quello agro della saliva. Infine apro gli occhi: mi fisso i palmi, grossi e screpolati, che tremano mentre perlustrano il palato e scovano, tastando con dita massicce, il dente estratto.
- Oddio, cos’ho fatto... - questa è la mia voce, che piagnucola, ridotta ad un pigolio, mentre mi rigiro il molare fra indice e pollice.
- ... È andato da questa parte, prendiamolo! - incita qualcuno, rabbioso - Aggiustiamogli la faccia! Sì, aggiustiamogli la faccia!
  Mi raddrizzo, e mi trascino sgusciando fra i petti prominenti delle fabbriche e dei cantieri: pochi passi e i miei piedi slittano sulle pietre sabbiose, zigzagano fra le impalcature scheletriche, accavallate le une sulle altre in un contorcersi di graticci. Oltre i cancelli di ferro, oltre i lucernari sporchi degli stabilimenti si girano volti coriacei, e mi osservano superare i muri scrostati dei tralicci a bande bianche e rosse: gli operai mi urlano dietro, e ad ogni colpo di reni mi sento venir meno, ad ogni scalpiccio alle mie spalle allungo una falcata e sparisco in un cunicolo, nella fenditura angusta fra due costruzioni.
- Corri, corri, cacasotto! Tanto ti prendiamo!
  Ma oramai sono lontano: mi insinuo in passaggi sempre più stretti ed opprimenti, finchè svanisco in coda ad una galleria, mentre mi latrano contro pieni di rincrescimento. Mi sembra di volare, per Dio! In mezzo a tutto quel grigio cemento che mi sfila innanzi, indistinto, mi inerpico su scale di sabbia e scavalco steccati di travi fradice, aggrappandomi alla teste dei chiodi ritorti, e con le ginocchia sbucciate atterro in un caleidoscopio di strettoie, le une dentro le altre come una scatola in un’altra scatola più grande. Dei manifesti zuppi d’acqua pendono dalle pareti di mattoni, alcuni squarciati, altri gonfi di umidità, e gli occhi oramai lattiginosi degli uomini ritratti contemplano la strada con aria sinistra: mi pare di leggervi una certo conforto, in quei pollici retti e in quei sorrisi sgretolati, allora mi fermo e, ansante, poggio i palmi sulle cosce scoperte.
- ...Cos’ho fatto? - gemo, in un sospiro - ...Cos’ho fatto, accidenti a me! Maledetto, maledetto!
  Ma non ho più voglia di parlare, se non posso fare niente; distendo il pugno destro e studio il dente, ora di una consistenza quasi levigata: ancora le inflorescenze sanguinanti delle radici rimangono aggrappate all’osso. Non resisto alla voglia di farlo saltare in aria come un fagiolo messicano ma poi, colmo solo di disprezzo per chi sono, lo ripongo nella tasca dei pantaloncini, sconsolato.
  Oramai non avevo più timore: però la densa esecrazione non sarebbe bastata un’immersione nell’acqua bollente a farla squagliare, in gocciole turgide di ripugnanza. Sulla mia pelle avrei recato i segni del passaggio, così come la cera che fonde si aggrappa al candeliere, finchè non è più possibile staccare l’uno dall’altro, o l’altro dall’uno. E senza alcuna soddisfazione avrei ricordato, ancora a lungo, il colore rosso che sgorgava dal naso di quel bambino, e gli tingeva il colletto celeste di sangue scuro: come ha potuto, la mia mano, colpire un altro uomo?, mi chiesi. Poi, sollecito fino alla più incoerente frenesia, cominciai ad urlare le mie scuse: che mi perdonasse, piangevo, pulendogli il sangue col bordo della manica. Ma lui sgusciò via dalla mia presa brutale e scappò, troppo orripilato per aggiungere peso al peso: ma le sue lacrime in bilico sulla punta delle ciglia io già le avevo scorte.
  Poi la villeggiatura, disteso su una sedia a sdraio a righe bianco e azzurro, col costume intriso di acqua salata, ma la mente sempre rivolta ad uno stesso tarlo: caro, caro Vincenzo, come esprimere l’immenso dispiacere che sto provando?... Gli scrissi anche una lettera, al fine di alleviare il fardello accumulatosi sul mio cuore. Se avessi scritto anche solo una riga senza tener conto della mia viltà, se avessi azzittito le mie ansie da codardo, frenato i miei palpiti colpevoli e mi fossi scusato e basta, forse, allora, avrei avuto qualche speranza di redenzione. Non la imbucai, comunque, perché troppo meschino anche per questo: mi acciambellai sulla rena e presi a meditare su come sottrarmi allo scotto che avrei pagato, una volta di ritorno in città.
  Ma perché lo colpii?, me lo chiesi spesso, in quei giorni. Accidenti, che domanda idiota! Forse che qualcuno si chiede mai perché le sue mani si incurvino nell’atto di mangiare, o in quello flessuoso di pettinarsi i capelli, o si congiungano in una preghiera? Perché volli colpirlo e, per Dio, l’avrei percosso fino a fargli perdere ogni senso, se il panico o - meglio ancora - il timore di essere punito non mi avessero frenato le dita ed ottenebrato l’intelletto.
  Così, accucciato ai piedi di un manifesto stracciato, singhiozzavo non tanto prevedendo il giorno in cui avrei corso più lentamente, né tantomeno calde lacrime di contrizione, ma piuttosto piangevo l’inconcussa miseria del mio animo, così povero e gretto, così sordido. Mi sentivo così immensamente solo, fino al punto da non riconoscermi più in me stesso, che provai un senso di infelicità talmente nudo e semplice che anche il mio lamento mi risuonò stucchevole ed avulso, quasi povera cosa di fronte al mio dolore.
  Mai avrei creduto che da lì a poco ogni lacrima, ogni singulto solo a lui l’avrei dedicato; che avrei dimenticato anche il mio nome, ed offerto ogni attenzione a chi, dalla prima lettera di questo racconto sentimentale, cocciutamente insiste per aprire la porta e lasciarsi scoprire. Ed eccolo, lo distinguo da lontano: capelli di sabbia, grandi occhi scuri, le guance lucide, scavate, gambe smilze che attraversano la strada con piglio fiero: sì, è lui, ecco il mio Pietro.
  Riavvolgiamo il nastro e ritorniamo ad allora, prima che io conoscessi te, e tu me; prima del noi, prima di sprofondare; torniamo a prima, a quand’eravamo piccoli, Pietro mio, a quand’eravamo felici. Al nostro primo incontro, prima di ogni altro ancora.
 
 
  Stavo ancora rincantucciato lì in basso, asciugandomi occhi oramai asciutti, mentre la testa molle del manifesto, sopra di me, pareva rincuorarmi col fruscio e lo scricchiolio delle carta sferzata dalla raffiche di vento. Quel suono lento mi risuonava nelle orecchie come una pietosa nenia; congiunsi le ginocchia, intirizzito da un misto di freddo e spavento e disprezzo. Nel mentre, cominciava a tramontare: il sole tremolava oltre l’arco dell’orizzonte, quasi il riflesso di una falce di luna che affoga nell’acqua di un pozzo. Mi alzai in piedi, prima che le luci si spegnessero, e osservai un cielo grigio e sospeso, gonfio di vapore, livido, inevitabile.
 - ...Carogna! Piccolo pezzente! Merdaccia fetente!
 - ...Eh lasciami, lasciami! - un suono stridulo e lamentoso - Io non ci torno a casa con te! Dovrai costringermi in catene! Dovrai uccidermi!
 - Quanto è vero Iddio, Pietro, non darmi una buona ragione se no non controllo più le mani!
 - Io ti odio! Ti odio! Muori! - passi scivolosi sulla strada.
 - Pensi che io sono come tua madre, Piè? Pensi che ti rincorro? Io me ne fotto se tu torni o no! Tuo padre non è un cretino che puoi prendere per il culo! Tuo padre è...
  La voce si disperse fra le gallerie, in un’eco sempre più sfuggente; io mi accucciai di nuovo contro il muro, chiedendomi che sensazione si provasse ad essere chiamati “merdaccia fetente”, e all’improvviso mi sentii pervaso di una rabbia nuova, cupida e velenosa. Forse, se mio padre mi avesse picchiato la prima volta che la mia bassezza si era manifestata, come un morbo occulto ed evasivo che affligge l’anima ma non il corpo, sarebbe riuscito a sanarmi! Invece mi lasciava sopravvivere, impunito, e quelle volte che, schiaffeggiandomi, gli mancava il coraggio di guardarsi colpire, il contatto della mia guancia con la sua mano era colmo d’indifferenza; avrei voluto afferrare quelle dita grinzose e premerle sul mio viso; avrei voluto far incrociare le traiettorie dei nostri occhi grigi, e trasmettergli in silenzio tutta la mia angustia. Ma rimanevo a strofinarmi la faccia, mentre tentavo di assaporare quel dolore flebile, e a mio padre sfuggiva un sorriso di rammarico: questo è ciò che accadeva le rare volte che l’inadeguatezza di lui si sforzava fino al punto di picchiarmi, carezzandomi.
  Ricordo d’estate: mio fratello, mio padre ed io, tre figure tozze e muscolose disposte attorno ad un tavolo di paglia, che giochiamo a ramino senza una parola, mentre gli angoli delle carte schioccano, e mio padre esala una nube di fumo dalla bocca polposa, e mio fratello si asciuga perle di sudore che colano dalla fronte con un lembo della canottiera. Io li osservo - pensoso, irrequieto - da sopra le teste piatte delle donne di cuori e di picche, e mi sembra che intorno a quel tavolo si stia giocando la partita della mia esistenza: c’è mio padre, quasi vecchio, mio fratello, quasi adulto, e infine io, che ancora non so come etichettarmi, a chiusura del cerchio. Voglio vincere, ma perdo: allora corro fino al mare a raffreddare la mia stizza. “Dove vai, Domenico?”, urla Fabiano, ma io non riesco a rispondergli perché avrei voluto batterli, le mie tre età, avrei voluto superarle.
  Tutt’ad un tratto mi era ritornato alla mente: mi tirai in piedi con il rumore delle onde imprigionato nelle orecchie, ancora intatto. Ammollo nell’acqua, gli occhi rovesciati che incontrano il sole, e quella luminosità abbagliante, che strina il cielo contenuto nelle mie palpebre: caro, caro Vincenzo, come esprimere l’immenso dispiacere che sto provando?...
 - Vaffanculo!... Finocchio! - mi urlò un ragazzo, di corsa.
  Raggiunse la palizzata, poi tentò goffamente un saltello e ci si aggrappò con le unghie. Mentre sfregava il legno con le suole delle scarpe per tirarsi su, io mi alzai, meditando di spingerlo in basso: questi sollevò di scatto i piedi quel tanto che bastava a sedersi sul sottile bordo dello steccato.
 - Ma per caso ti chiami Domenico? - mi chiese, squadrandomi dall’alto.
 - Io?... - mi poggiai una mano sul petto, diffidente - E allora?
 - Ve l’ho trovato! L’ho trovato! È qui lo stronzo! È QUII!
 - ... No, zitto! Zitto, per piacere! - ma quello era già scivolato via.
 - ... Avete sentito? L’ha trovato!... Ahh, adesso lo conciamo per le feste! Adesso gliele suoniamo! - rumore di passi che grattano le pietre - Forza, forza, prendiamolo!
  Prima d’avere il tempo di spaventarmi, già i miei pollici si erano avvitati attorno alle punte acuminate dei chiodi: uno, rimasi in bilico sostenendomi alle assi, due, mi lasciai cadere, tre: corro di nuovo per la strada, le gambe che si inseguono, le dita che si serrano, i denti che si digrignano sulle gengive scoperte. Devi correre, Domenico Bonavà! E allora corre, salta, saetta, slitta, galoppa e quasi vola, e anche il ragazzo davanti a lui - ma è lento.
 - Tanto non ci scappi! Tanto ti prendiamo! - grida dappresso.
  Devi correre ancora di più, Domenico Bonavà! E lui spinge ancora di più, corre come non ha mai corso, e intanto pensa: se lo prendo lo ammazzo, se lo prendo lo ammazzo, se lo prendo lo ammazzo. Poi è tutto un ciac - ciac contro la strada, smette di pensare e corre e basta. Poi è talmente vicino che può afferrarlo per il collo, allungando le mani. Poi lo fa, e la carogna cade a terra con uno strillo suino, nella polvere. Poi la supera con un balzo, e continua a correre. Poi pensa di essere salvo. Poi infila un vicolo, alla cieca. Poi la carogna lo abbranca per le gambe e lo fa crollare al suolo.
  Si azzuffano, mentre rotolano insieme; ruzzano urlando:
 - Vaffanculo! Pezzo di merda! - pugno nello stomaco.
 - Finocchio! Brutto stronzo! - morso ad un polpaccio.
 - Crepa, maledetto! - ceffone in pieno viso.
 - Prima tu! Tieni, culattone! - calcio nei testicoli.
 - E questo a te, merdaccia fetente! - testata contro le tempie.
  Lo vidi barcollare, poi capovolgersi ed atterrare in ginocchio con un guaito, mentre si sosteneva la testa fra le mani. Mi chinai a raccoglierlo, e lo afferrai per le spalle: lui mi graffiò le braccia e mi spintonò violentemente indietro.
  Eravamo entrambi doloranti, arruffati, sudici, e quando ci guardammo fu chiaro che le ostilità erano finalmente terminate.
 - ... Come mi hai chiamato? - gracchiò lui, con un filo di voce.
 - ... Merdaccia... fetente - sospirai io.
 - ... Anche mio padre... anche lui mi chiama così - ridacchiò sotto i baffi, e mi tese la mano - Pietro.
 - Piacere, Domenico - risposi, quasi meccanicamente, avvolgendo le sue dita con le mie.
 
 
  Shh, basta...! Chiudiamo la porta, lasciamoli qui, Pietro e Domenico, a riposare l’uno con il capo abbandonato sulla spalla dell’altro. Roteano in quelle orbite lisce due biglie bianche dallo sguardo meravigliato: non sciupiamo quella meraviglia, non guastiamo quello sguardo! Non svegliamoli, non ancora. Lasciamoli dormire, almeno un altro poco.
  Fra poco è già mattino. 


 

 

Note dell'autrice:
Dopo un lavoro certosino - ma, sono sicura, ancora migliorabile - per scrivere il capitolo, lascio qualche riga per chi fosse curioso della gestazione di questa storia. In principio era solo uno dei tanti elementi a comporre un progetto più vasto, ed era ancora solo al suo stato embrionale; Domenico aveva una voce più matura, più asettica e meno tormentata, ma scrivendo, scrivendo e riscrivendo, l'impasto si è trasformato in questi primi capitoli - ma non escludo che, sviluppandosi, l'intreccio possa cambiare ancora. 
Oltre al vocabolario Treccani online, mio inseparabile compagno, un grazie va ad M, per essere un'attenta lettrice, e ad F, per l'ispirazione.
Per chi avrà letto e continuerà a farlo, grazie; a presto.

GenGhis
  
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