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Autore: aXa 22    30/11/2013    6 recensioni
Un uomo complicato, una donna all'angolo della strada, parole che non si sentono, occhi che non si staccano, una porta a vetri che rischia di abbattersi sulla nostra faccia, le relazioni umane basate sullo stress e l'indecisione, un mini racconto ironico e leggero adatto a tutti i gusti, un esperimento narrativo ritrovato nel cassetto.
cit. Fermo, imbambolato come un ebete a guardare fiori. Io odiavo le piante, facevo morire perfino i cactus ed era impossibile far morire i cactus, okay? Presi una cosa a caso e la portai alla cassa. Cosa avevo preso? Mmm... Orchidea gialla maculata -Orchidales Orchidaceae. Sembrava il nome di uno shampoo per cani ed io non capivo un accidente di piante...
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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NdA. Esperimento narrativo ritrovato per caso nel cassetto e riproposto senza correzioni, pertanto lo stile ed il contenuto si discosteranno per forza di cose dal mio modo attuale di scrivere.
Chi mi conosce lo noterà subito. Nonostante non mi convinca per niente, credo che si debba sempre dare spazio alle creazioni pertanto… al diavolo!!
Buon tutto a tutti voi,
22

 
 
 
 



 
Occhi e Cuore
di 22volteME










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osting by TinyPic
 
 
 
 
 
 
 
 



Non ho mai capito le donne.
 
Non mi è mai importato davvero e probabilmente il motivo è sempre stato legato allo stimolo. Lo stimolo, sì. Quello stimolo che ti fa ridere al mattino senza un vero motivo, quello stimolo che ti fa sperare in una parola, in un sussurro, in un maledetto qualcosa. Belli, brutti, senza senso ma stimoli. E lo stimolo giusto, quello che ti fa pensare di buttarti, di darci dentro, di metterti in gioco perché è arrivato il momento, quello stimolo io non l’avevo mai conosciuto. Tra l'altro, giusto per capirci, io non ho mai avuto vie di mezzo. Con le donne facevo schifo, ero pessimo in fatto di rapporti umani. Di solito rimediavo una ragazza in un bar, mi dimenticavo il suo nome, scopavo e tornavo a casa, in questo ero bravo, sì.
“Non hai richiamato.”
No, in effetti non l’ho fatto.
 
“Uho! Parlo con te! Passami quel ferro!”
Puzzare di benzina ventiquattro ore su ventiquattro ha il suo fascino, così dicono, ero un meccanico da otto anni, il classico lavoro che si ama e si odia. Olio, pausa pranzo, motori, letto. Prima di rincasare solitamente andavo a correre per distrarmi, l’inquinamento rendeva l’aria pesante e sporca, irrespirabile e schifosamente appiccicosa pertanto preferivo la palestra ai marciapiedi. Massimo, detto Max, lavorava con me ed era il mio migliore amico. Avevamo messo su insieme la ditta e la gestivamo come pareva a noi.
“Ho fame, lo sai che io alle dodici e trenta impazzisco!” mi disse Max, puntando il dito verso l’orologio da polso.
Raggiungemmo la tavola calda "Centofiori" ad un isolato di distanza, con Max che mi parlava del suo nuovo cane ed io che mugugnavo cose incomprensibili in risposta. Aprendo la porta di vetro, il puzzo di sigaretta e mozziconi consumati dell'esterno si mescolò con quello dei maccheroni ed io venni colto da un senso di nausea tremendo.
Max mi piantò il gomito in un fianco. “Mi siedo.”
“E devo andare io a prendere il vassoio?”
“Sei intuitivo.”
“Posso sputarci dentro?”
Lui si mise a ridere di gran gusto. “Non provarci, principessa. Ti ricordo che ieri hai perso a bowling e lo sai che la penitenza...”
“Lo so, lo so.”
Mi voltai e guardai la fila interminabile, le persone in fila, la cassiera che avrebbe voluto tirarsi i capelli. Santa pazienza. Max sorrise e mi fece un cenno divertito indicandomi i vassoi, come a dire che dovevo muovermi.
Okaaay. La prossima volta lo avrei lasciato sotto un motore.
 
Le donne, lì dentro era pieno di donne! Di tutti i tipi. Alte, basse, more, rosse, grasse, magre, c'era solo l'imbarazzo della scelta. Alcune erano uno spettacolo divino, altre dovevano essere uscite da un quadro di Picasso o Dalì. E poi, c'era lei, la mia vicina di negozio.
La vidi anche quel giorno, indossava un vestito azzurro chiaro, un paio di scarpine col tacco e pochissimo trucco. Mangiavamo a pochi metri di distanza da due mesi ormai, era la ragazza più graziosa della strada, lo avevano notato tutti. La meno appariscente e la più graziosa, dieci mani di capelli e boccoli nocciola, le gambe sottili, lo sguardo vivace e intelligente, le labbra grandi e rosa che sembravano essere state create apposta per essere consumate da miliardi di baci. Vedevo quella donna ogni martedì, mercoledì giovedì, era un continuo di occhiate durante l’ora di pranzo e mezzi sorrisi, ma nient'altro. Ormai mi ero abituato a questa stravaganza, il che non significava che la condividessi. La cosa più stupida di tutte? Anch’io la guardavo senza parlare, anche mentre lavoravo perché la portafinestra spalancata dell’officina me lo concedeva. Era primavera e la vicinanza con il suo negozio mi faceva invaghire del suo modo di sistemare le piante sul banchetto espositivo del suo locale.
Sì, lo so, è patetico, ogni persona sana di mente avrebbe definito freudianamente psicolabile il nostro modo di rapportarci. Avevo perfino imparato a memoria i suoi orari lavorativi, insomma avevo dei seri problemi di comportamento!
Il punto era che mi aveva colpito qualcosa di lei, cosa esattamente non avrei saputo dirlo, forse gli occhi grandi e lucidi, oppure le gambe, così armoniose che prenderla in braccio sarebbe stato un gioco da ragazzi per uno come me. Sembrava sempre felice e serena, sorrideva, appariva spensierata e gaia, e considerato il mio pessimo umore intravederla anche solo per un istante migliorava la mia giornata, mi sembrava di riuscire a lavare via i brutti pensieri, le noie, di poter rinchiudere il grigiore quotidiano in un barattolo.
Quel giorno lei uscì prima del solito ed io restai lì a magiare, fingendo che non me ne importasse un accidente di niente. Devo ancora capire cosa a volte spinge gli eventi ad incastrarsi in modo tale da renderti la vita un casino, amano farlo, sono davvero bastardi.
Finito il pranzo, Max scappò lasciandomi il conto come stabilito dal bowling ed io pagai senza battere ciglio. Uscito dalla tavola calda, attraversai la strada e passai davanti al negozio di fiori di donna X. Ormai mi stava antipatico quel posto e BAM, la porta del negozio si aprì davanti al mio naso, per poco non mi prese in faccia. Buon pomeriggio, stronzo.
Donna X mi guardò allucinata, si scusò senza dire una parola, i suoi occhi si agitarono. "Tutto okay, tutto bene."
La mia osservazione era davvero stupida, una scimmia probabilmente sarebbe stata in grado di formularne una migliore, ma del resto s’iniziano così le conversazioni, giusto?
Lei mi guardò in modo strano, sorrise senza mostrare i denti, portò una mano al cuore e si dileguò lasciandomi lì come un imbecille.
Beeenissimo.
Cosa avevamo detto sul non capire le donne? Un 'scusa, idiota, stavo per stenderti con la porta' non mi avrebbe fatto schifo.
 
Il giorno dopo, alla tavola calda, io ripensai a quello che era successo in strada. La vidi entrare verso mezzogiorno ma non la salutai e non la guardai più. Me ne andai portando via il pranzo in un sacchetto, la parte buona del cervello a gridarmi di restare, una Jaguar XF da sistemare ed un cliente rompicoglioni a chiamare ogni due minuti e mezzo. Già troppi input per uno come me.
Donna X sembrò restarci male per il mio atteggiamento, ma in fondo non avrei saputo offrirle molto di più, mi doveva ancora delle scuse ma per settimane, niente di niente.
Il suo orario lavorativo incontrò le mie pause lavorative, certo, occhiate e silenzi, un mutismo con il potere di innervosire. Alla fine, era anche piacevole.
Lavorai come un matto per tutta la settimana a venire, lanciando sempre delle occhiate verso il negozio di fiori di Donna X. E si fa così nella vita, giusto? Si cercano questi controsensi, no? 
Un pomeriggio, i nostri sguardi s’incrociarono prepotentemente, la curiosità durò più del previsto. Troppo ‘più del previsto’, così troppo in ‘più del previsto’ che per un attimo mi sembrò di averla già conosciuta. Donna X mi sorrise, sollevò la mano e salutò senza parlare lasciandomi allibito. La imitai per principio, iniziando a covare altri dubbi. stavo rincretinendo per una donna, ma sul serio?
“Francesco!” Massimo mi chiamò in quel momento. “Che ore sono?”
“Sì, arrivo.”
“Cosa… ma… cosa stai guardando?”
“Sì, arrivo.”
Max gettò gli occhi al cielo, si avvicinò e mi scrutò chiedendosi quale strana malattia mi avesse colpito.
“Nuova fiamma?”
“Mmm, non direi, No. Mi guarda e non parla mai. L'ultima volta mi ha quasi sbattuto la porta in faccia e non ha nemmeno chiesto scusa. E ora saluta. Forse è pazza.”
Max inclinò il capo di lato. “Forse è muta.”
Mi voltai di scatto verso di lui come se mi avessero appena rovesciato addosso un secchio di acqua gelata. “Muta?”
“Eh, già, niente voce, zero assoluto.”
“Mi prendi in giro?”
“No.”
Porca. Puttana.
“Le hai detto qualcosa per caso?”
“Le ho parlato, sì, volevo… Tu come sai che è muta?”
“Poco tempo fa sono entrato nel negozio per comprare dei fiori a mia madre per il suo compleanno, c’è un cartello.”
Ah, fantastico…
Beh, le parole forse non sarebbero mai servite a molto tra noi, ci bastava uno sguardo ed eravamo fregati però avrei dovuto porre rimedio alla situazione che si era creata tra noi o per il resto della vita mi sarei sentito un imbecille. Perché? Perché mi piaceva, ecco perché. Nonostante non ci fossimo mai parlati, io sentivo di esserle legato in qualche modo, le settimane trascorse a rincorrerci ormai erano diventate la mia medicina, tra noi non si era mai intessuto alcun filo di parole ma la mia mente s’illuminava comunque come un albero di Natale nel vederla.
Così, quando il mio turno terminò, io lanciai subito un’occhiata verso il negozio di fiori e mi passai una mano sulla nuca per darmi coraggio. Non c'era più nessuno, stava chiudendo, era ovvio, ed io non sapevo cosa fare, era una situazione strana, avrei voluto dirle un sacco di cose ed al contempo stare zitto, un meccanismo poco razionale.
Lei arrossì subito nel vedermi entrare nel negozio ma l'adolescente ero io lì dentro, perchè feci i primi passi e la deglutizione si bloccò. Fermo, imbambolato come un ebete a guardare fiori. Io odiavo le piante, facevo morire perfino i cactus ed era impossibile far morire i cactus, okay?
Presi una cosa a caso e la portai alla cassa. Orchidea gialla maculata, Orchidales Orchidaceae, sembrava il nome di uno shampoo per cani ed io non capivo un accidente di piante.
“Ciao.”
Lei arrossì di nuovo.  
“E così lavori qui… io invece sono dell’officina all’angolo.”
Lei stese un dito e indicò la mia maglietta.
Io mi accorsi solo allora della scritta a caratteri cubitali. ‘Motori & Gomme’. Sì, beh, non ero di certo un giardiniere.
“In effetti... Ehm, non ci siamo mai presentati, io mi chiamo Francesco.”
Allungai una mano e lei imitò la gestualità dopo un attimo di titubanza. Cercò di sillabare subito il nome ma io la fermai.
“Melina” dissi, serio. “È scritto sul tuo cartellino.”
Lei sorrise subito, un sorriso magnifico, delizioso, dolcissimo, caldo. Ogni frammento del mio buon senso si mise a fare strani suoni, una bomba nucleare nello stomaco più o meno.
“Senti… Ti vedo sempre e so di essere inopportuno ma mi chiedevo... voglio dire, mi piacerebbe portarti fuori uno di questi giorni, a bere un caffè magari. Solo se ti va naturalmente, non voglio sembrare invadente. Magari hai un fidanzato.”
Lei scosse il capo in segno negativo poi si portò una mano alla fronte, s’intristì, si morse un labbro.
Sillabò molto lentamente la risposta ed io mi concentrai.
“Non è questo.” aggiunse le mani, gesticolò. “Come potremmo parlare?”
Io inclinai la testa di lato. Lo stavamo già facendo! Lo facevamo da due mesi senza usare la voce, nelle ultime settimane poi c’era stato un bombardamento di messaggi invisibili, ci eravano riempiti di schiaffi e carezze.
“Potresti insegnarmi qualche gesto, cosa ne dici?”
Melina s’illuminò, s’intristì di nuovo. Era confusa, felice, angosciata all’idea che un uomo le chiedesse tanto ed era davvero illogico, perché era una donna bellissima.
“Mi piacerebbe.”
Io sorrisi, adoravo le sue labbra, avrei potuto fissarle per ore senza esserne stanco. “Venerdì sera sei libera?”
Lei annuì subito. “Sì.”
“A che ora finisci?”
Usò le dita. Sette.
“Ti passo a prendere alle sette e mezza, allora.”
 
 
Riuscimmo a parlare tutta la sera. A modo nostro, certo, ma comunque funzionò. A casa mi ero studiato qualche gesto e Melina me ne insegnò molti altri.
Non era lei quella che doveva cercare di comunicare con me, ero io che dovevo imparare a farlo nel modo giusto. All’inizio avevo pensato di non farcela, che sarebbe stato troppo complicato trovare il modo di interagire ed invece fu semplicissimo, tra noi si frappose e s’intrecciò subito quel solito filo invisibile fatto di sguardi e mezzi sorrisi, un’intesa silenziosa, impegnarsi un pò non faceva poi così schifo.
Perché cazzo mi stavo ficcando in una situazione del genere? Era come passare da una vodka liscia ad una lemon soda. Credo si chiami pazzia.
Comunque io e Melina avevamo molte cose in comune e non mi sentivo a disagio nel parlarle di me, mi veniva spontaneo. Prendemmo un caffè poi camminammo per le strade della città, Melina aggrappata forte al mio braccio. Quando voleva farmi notare qualcosa o chiacchierare, aumentava la pressione sulla mia giacca ed io la guardavo in viso.
Passammo davanti un locale del centro verso mezzanotte ed io la invitai subito ad entrare per terminare la serata con un pò di musica. Urlare? Non ne avevamo bisogno ed era tutto a nostro vantaggio. Un uomo un pò ubriaco le prese contro quasi subito ma fu Melina a scusarsi con lui, sollevò le mani, tentò di spiegare che non lo aveva visto ma quello replicò in modo davvero maleducato.
“Non si chiede scusa? Cosa sei, scema? Handicappata?”
Melina fece immediatamente un passo indietro, si nascose dietro di me senza nemmeno accorgersene e giuro che in un altro contesto io non mi sarei mosso ma uno schiaffo in faccia a volte non si sente. Sollevai quell’estraneo per la maglietta e lo spinsi via con forza, facendolo scivolare su un paio di tavolini e poi per terra. Melina mi tirò subito per i fianchi con ambedue le mani, cercò di farmi desistere ma io me ne andai solamente quando intervenne il buttafuori del locale minacciando di sbatterci tutti fuori a calci. Bene, grazie mille.
Una volta fuori, Melina mi rimproverò subto. “Non avresti dovuto farlo!”
“Se lo meritava”
“Sono abituata a certe cose, succede, le persone sono sprezzanti e superficiali ma non farlo mai più.”
Io la guardai, terribilmente serio. Col. Cavolo. “Lo vuoi un altro caffè? Venerdì prossimo sei libera?”
Lei portò le mani ai fianchi ed assottigliò lo sguardo. “Non cambiare discorso.” Gesticolò, nervosa. “Non puoi aggredire tutti quelli che mi offendono anche se sei nel giusto. Non avresti pace.”
Io restai impassibile. “Mettimi alla prova.”
Lei scosse la testa. “Spesso le persone usano le parole a casaccio, ormai ho fatto i calli anche a questo.”
“Non mi piacciono i calli.”
Lei si passò le mani tra i capelli. “Basta. Mi spaccherai il cuore.” E si toccò il petto per enfatizzare il concetto.
“Come?”
“Finirò per innamorarmi di te, lo capisci?”
Io feci un mezzo sorriso. Ah, davvero? “E non va bene?”
Lei sospirò, scuotendo il capo. “No. Non voglio fare pena alle persone. Sei uscito con me perchè ti sentivi in colpa per la storia della porta. Perchè hai capito il mio problema.”
“No, non sono uscito con te per questo motivo, fidati.”
Lei restò in silenzio per un attimo infinito. “Sai quante volte ho pensato di fermarmi al tuo tavolo, Francesco? Non ho mai trovato il coraggio di salutarti a causa del mio problema, credevo non avresti capito.”
“Avresti dovuto farlo due mesi fa invece, ti saresti sorpresa del risultato.”
“Due mesi?”
“Sì, è da quando hai iniziato a lavorare accanto alla mia officina che spero in un tuo saluto.” Lo ammisi senza remore e lei arrossì.
“Uomini... Non dovresti trovarti una donna normale?”
Io la scrutai, non vedevo un solo difetto.
“Scusa? Sei bellissima e devi avere anche un cuore immenso perché hai detto di essere abituata a situazioni come quella di prima. Hai visto invece cosa ho fatto io, vero? Non ne lascerò passare una. Vuoi rischiare?”
Melina si aggrappò al mio braccio e per me quello fu sufficiente.
 
 
 

 
Fine.
 
 
   
 
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