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Autore: cup of tea    01/12/2013    0 recensioni
Inghilterra, 1848. L’istruito e razionale Blaine Anderson viene assunto nella casa del riservato e di ampie vedute signor Hummel, come gestore della biblioteca della sua tenuta nella brughiera. La casa però, nasconde un segreto: ogni tanto si sentono delle urla di donna. Le signorine Rachel, Santana, Brittany e Mercedes saranno le sue colleghe e il Signor Hummel forse più di un semplice datore di lavoro.
Dal capitolo 4:
“Signor Hummel,” cominciò la ragazza, “lei ha davanti a sé un futuro colorato. Vedo del verde… e un'altra sfumatura, più scura e calma. Ma è lontana al momento. Un impedimento. Vedo un impedimento. Come un’ombra che incombe."
Genere: Dark, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Rachel Berry, Sebastian Smythe, Un po' tutti | Coppie: Blaine/Kurt, Blaine/Sebastian
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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LA TAVOLA DI CUP OF TEA

Ehi!! Wow, non sapete che gioia ho provato nel vedere che il primo capitolo vi è piaciuto!! Vi ringrazio tutti, da quelli che hanno recensito (qui e in pagina), a quelli che mi hanno letto in silenzio, a quelli che hanno ricordato, preferito, seguito… vi meritate tutti un cupcake gigante!
Beh, Eccoci al secondo. Qui troverete un po’ di Seblaine… ZAN ZAN! Ahah la cosa buffa è che inizialmente non era proprio in programma che entrasse nella storia… alla fine, invece, è diventato uno dei personaggi principali! Sarà la mia parte profondamente innamorata di Sebastian che prende il sopravvento sulle mie azioni, sì sì.
Ehm ehm.
Bene, vi lascio alla lettura. Ovviamente vale il discorso che ho fatto per il primo capitolo, ovvero che qualsiasi affermazione, soprattutto quelle che riguardano religione e omosessualità, è da contestualizzare, e ribadisco che non parlo attraverso i personaggi, né intendo urtare la sensibilità di nessuno.
Buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate. Qui o sulla mia pagina Facebook.
Un abbraccio.
Cup of tea
 

 
A SHADOW HANGING OVER

CAPITOLO 2



Blaine si svegliò presto. La luce fredda dell’alba entrava a stento dalla finestra, ma lasciava sperare che la pioggia avesse deciso di dare una tregua almeno temporanea alla brughiera. Fece un bel respiro, di quelli che gli venivano ogni volta che era entusiasta per qualcosa di nuovo, e si ritrovò a sorridere da orecchio a orecchio di prima mattina.

Andiamo, è solo un lavoro! E con molta probabilità sarà anche piuttosto noioso, si disse, ma il fatto era che era veramente veramente eccitato. Avrebbe cominciato una nuova attività, con un vero datore di lavoro e dei veri compiti, per di più in mezzo ai libri, il suo mondo. Non come alla Dalton, dove gli avevano garantito un posto come insegnante solo perché aveva studiato lì e che per questo non credeva di avere meritato davvero.
Sgranchì le dita dei piedi e sentì un dolore acuto attraversargli le ossa, dolenti per il freddo del viaggio del giorno precedente; eppure non smise di sorridere, perché era un male dolce, che gli riportò alla mente la calda merenda e i sorrisi che gli erano stati offerti al suo arrivo. Tutt’altra cosa rispetto al pane posso e il caffè freddo che riceveva a merenda quando era bambino, all’accademia.
Quando notò i raggi del sole filtrare con più potenza nella stanza, si alzò dal letto per avviare la sua giornata. Spense ciò che era rimasto del focolare, buttando qualche goccia d’acqua sulla cenere ancora ardente. Poi si lavò e si vestì con i suoi abiti modesti, e, prima di lasciare la sua camera, aprì la finestra per far entrare l’aria frizzantina nell’ambiente. Nello sprimacciare i cuscini e nel sistemare le coperte e le lenzuola, fu percorso da un brivido lungo la schiena: se la pioggia era cessata, di sicuro il freddo era ancora lungi dal lasciare spazio alla primavera.
Richiuse il vetro con un altro brivido, e cercò di allontanare il pensiero del suo vecchio insegnante di calcoli, che, quando trovava qualcuno dei suo compagni intirizzito dal freddo mentre facevano i compiti ognuno sulla propria piccola lavagnetta, era solito ricordare loro che un brivido non era altro che la morte che li attraversava ma li risparmiava.
La rigida e cristiana accademia maschile Dalton era stata la sua casa per nove lunghissimi anni, a partire da quando i suoi ricchi e aristocratici zii Anderson - che lo avevano allevato alla morte dei suoi genitori – si erano stufati della sua presenza. Non era sicuro che “stufati” fosse la parola giusta. Forse era meglio “spaventati”, “terrorizzati”, “preoccupati che con il suo ‘modo di fare’ traviasse i loro due teneri e indifesi bambini”. Ovviamente, Mary Jane e James non erano né teneri, né indifesi, per lo meno non lo erano con lui, ma questo i suoi zii non volevano vederlo. Quando erano piccoli, James lo isolava nei giochi con i suoi coetanei undicenni, mentre Mary Jane, che all’epoca aveva dodici anni, cioè due più di lui, lo prendeva in giro quando lo trovava a fare dolci con la cuoca di casa, andandosene in giro per le stanze dicendo : “Testa-Di-Cespuglio fa i dolci come le sguattere!”, “Testa-Di-Cespuglio fa i lavori da donna e da servitù!”. Essere tagliato fuori e definito un cespuglio, una donna, o una sguattera, faceva male. Faceva male perché lui aveva solo dieci anni e aveva appena perso i genitori; faceva male perché si sentiva solo e aveva solo bisogno di un amico; faceva male perché l’unico amico che aveva trovato era proprio la cuoca che gli stava insegnando a fare i dolci. Ma soprattutto, faceva male perché si sentiva già di per sé inadeguato sotto ogni punto di vista.

Sapeva già, in cuor suo, di essere diverso. Diverso da James, che già a undici anni destava l’interesse di madri facoltose perché si combinasse un matrimonio con il giovane rampollo di casa Anderson e le loro belle figlie, e che andava già in giro pavoneggiandosi a grande rubacuori. Ma anche diverso da Mary Jane, che poteva permettersi di ammirare gli ufficiali durante le parate senza aver paura che qualcuno potesse accorgersi dei suoi occhi sognanti. Perché, anche se fosse successo, sarebbe stato ritenuto normale. Anche Blaine sognava quando li vedeva, eccome. Ma non sognava di diventare uno di loro quando ne avesse avuto l’età giusta: sognava di sposarne uno. Sogno alquanto inaccettabile, eppure un sogno veramente forte e incomprensibile anche per lui, che era solo un bambino.
Fu quando Mary Jane lo scovò a pettinare una sua vecchia bambola, che pensava di aver buttato via ma che Blaine aveva recuperato in segreto per tenerla per sé, che le cose peggiorarono drasticamente.
La bambina andò dalla signora Anderson a fare la spia, deridendolo e facendo smorfie di disgusto che furono per Blaine come un colpo al cuore, come se la paura di essere qualcosa di sbagliato avesse preso la forma delle labbra di sua cugina, increspate per il ribrezzo che ora vedeva anche sul viso di sua zia. Non nutriva per quella signora grande affetto, perché da lei non ne riceveva affatto, ma quello sguardo ammonitore lo uccise. Corse via dal salotto dove aveva rincorso Mary Jane poco prima per pregarla di non dire niente, e si rinchiuse in uno sgabuzzino dove le serve riponevano le scope e gli stracci dopo averli usati. Sentiva delle voci fuori, in corridoio, ma non distingueva le parole, fino a che non calò il silenzio. Si accovacciò sul pavimento abbracciandosi le ginocchia, come se occupare poco spazio avrebbe significato sparire e non essere più costretto a sentirsi come si sentiva. Non ebbe mai idea di quanto tempo passò in quell’angusto nascondiglio, ma a un certo punto lo tirarono fuori. Era arrivato qualcuno per lui, gli dissero, e, intimorito ma curioso, Blaine scoprì di chi si trattava.

Sua zia, che davanti all’ospite si mostrò molto più amorevole e docile del solito, gli spiegò con dolcezza che quel signore che aveva davanti era il direttore di un collegio dove lo avrebbe mandato per correggere il suo “comportamento” e dove con la preghiera e il sacrificio avrebbe potuto ottenere perdono. In Blaine, la rabbia era salita fino alle orecchie quando sentì quelle parole, perché non capiva cosa non andava in lui e nessuno voleva spiegarglielo; comunque, prese la notizia della sua partenza con quieto entusiasmo.
Lasciare casa Anderson significava lasciare gli scherzi di James, la cattiveria di Mary Jane e la freddezza dei suoi zii.

Così il giorno successivo fu caricato su una carrozza che lo portò alla rigida Dalton Academy, dove sarebbe rimasto fino alla fine della sua istruzione. Lì scoprì che i suoi compagni erano per lo più bambini orfani o ragazzi i cui genitori non erano riusciti ad educare a dovere. Anche solo per questo, si sentì più a casa in quel luogo di sacrificio che nel lusso di casa Anderson, considerato che lui era di fatto entrambe le cose – orfano e da correggere. Fece amicizia in fretta: Sebastian, di un anno più grande di lui, era stato mandato alla Dalton per temperare la sua indole presuntuosa e “curare” una cosa che Blaine scoprì di avere in comune con lui. Anche Sebastian, per così dire, sognava gli ufficiali. Fu il ragazzo stesso a raccontarglielo, perché non vi vedeva nulla di male. Gli fece notare che nell’antica Grecia era normale che due uomini si amassero, e anzi era ritenuta la forma di amore più pura. “Dove l’hai letto?” gli aveva chiesto Blaine, nel buio del dormitorio. “Non sui libri che ci fanno studiare qui.” Gli aveva risposto lui. Blaine a tutta prima era rimasto dubbioso, ma vedere Sebastian così fiero e sicuro di sé lo aveva convinto a fidarsi di lui, al punto che un giorno gli confessò che anche lui era attratto dagli uomini. Sebastian non ne fu affatto sorpreso; al contrario, gli restituì un sorriso di dimensioni gigantesche, che scaldò un po’ il cuore di Blaine. Finalmente si era liberato di un peso, e c’era chi lo capiva. Non avrebbe mai più dovuto affrontare nulla da solo.

Alla Dalton, Blaine scoprì anche che i metodi utilizzati per “correggere il comportamento” erano piuttosto discutibili. Umiliazione davanti ai compagni, vessazioni fisiche e psicologiche, digiuno forzato… tutte cose che Sebastian aveva sperimentato su di sé, ma che non lo avevano affatto piegato. Blaine era affascinato dalla sua forza d’animo. “Sto solo aspettando di uscire di qui” gli aveva detto una volta dopo essere stato percosso davanti alla classe per non aver ripetuto la lezione a dovere. Aveva le lacrime agli occhi, mentre parlava con Blaine, dopo, fuori in giardino. La schiena gli faceva male dove era stato colpito, ma si era sforzato di non darlo a vedere. Blaine non aveva risposto, gli aveva preso una mano e gliela aveva stretta forte. Sebastian però la aveva ritratta subito, dicendo che non voleva che qualche insegnante li vedesse e punisse anche Blaine, e che non avrebbe sopportato di vederlo subire quello che subiva lui da anni. C’era una luce nei suoi occhi, mentre parlava, e non si trattava di riflessi nelle lacrime. Era una luce che Blaine non aveva mai visto in nessuno, e nessuno lo aveva mai guardato come Sebastian in quel momento: c’era preoccupazione, c’era affetto, c’era protezione, avrebbe osato dire che ci fosse anche amore.

Col passare dei mesi, Blaine si ritrovò ad arrossire quando le sue dita venivano sfiorate da Sebastian più o meno accidentalmente, o ad avere il batticuore quando sentiva il suo respiro nel sonno e desiderava che i loro letti fossero più vicini. Sebastian, probabilmente senza saperlo, gli stava insegnando cosa volesse dire vivere e amare sé stessi, e Blaine stava sentendo crescere dentro di sé la fiducia necessaria per innamorarsi davvero di qualcuno.

Ogni Natale, alcuni dei bambini tornavano dalle loro famiglie, quindi all’accademia rimanevano solo gli orfani e pochi docenti. Blaine e Sebastian non tornavano a casa perché là non erano ben voluti, quindi passavano le giornate di vacanza insieme a scuola.

Il Natale del sesto anno fu speciale. Sebastian gli bendò gli occhi e lo condusse in una delle aule vuote dell’accademia. Blaine non seppe mai come riuscirono ad arrivarci senza essere visti dagli insegnanti nei corridoi o dai compagni rimasti come loro alla Dalton, ma sapeva che Sebastian era sempre pieno di risorse e molto del suo fascino derivava proprio da questo. Quando fu liberato, Blaine si ritrovò in mezzo all’aula spoglia, confuso da quel gesto e dal sorriso di Sebastian che lo guardava con intensità. Lo vide mettere una mano nella tasca dei pantaloni della divisa e tirarne fuori qualcosa che non riuscì a distinguere fino a che non l’ebbe tra le dita. Erano un tasto bianco e uno nero di un vecchio pianoforte scordato, che – spiegò Sebastian – aveva visto abbandonato in una delle aule all’ultimo piano, chiuso agli studenti e agli insegnanti per via dei danni causati al tetto dalla pioggia e dalla neve degli ultimi inverni.
“So che ti piace suonare”, aveva detto, “lo vedo da come ogni tanto tamburelli le dita. Lo so che non sono movimenti casuali: mia sorella suonava sempre il pianoforte alle feste organizzate dai miei, prima che si trasferissero in un’altra contea per via dei pettegolezzi sul mio comportamento scandaloso e che mi spedissero qui.” Blaine era arrossito nel realizzare due cose: che Sebastian gli aveva appena fatto un regalo, e non uno qualsiasi, e che doveva essere un ottimo osservatore, perché aveva capito una cosa di lui che non gli aveva mai raccontato. Amava suonare il piano. Ma nessuno glielo aveva mai insegnato e per imparare da solo aveva dovuto ascoltare di nascosto le lezioni di Mary Jane per poi provare gli esercizi su ogni superficie: tavoli, sedie, le panchine la domenica in chiesa. A volte era riuscito a suonare perfino il vero pianoforte di casa, quando erano tutti fuori per fare compere e rimanevano solo i servitori ad ascoltarlo. Era un pubblico senza molte pretese e generoso nei complimenti e a Blaine questo bastava per essere fiero dei suoi lenti progressi. Mentre sorrideva al pensiero di essere importante per Sebastian almeno quanto lo era per la servitù degli Anderson, aveva visto il ragazzo avvicinarsi un poco verso di lui.

“Non oso immaginare che cosa combinassi a quei party…” aveva commentato quindi, scherzando. “Magari ti appartavi con il cameriere più carino della servitù, o non perdevi occasione di abbordare il giovane pupillo di qualche ricco signore…” Aveva continuato più nervosamente, notando che Sebastian stava riducendo sempre di più la distanza tra loro. A ogni parola aveva avuto il fiato più corto, a ogni passo di Sebastian il suo cuore aveva martellato più forte. Dopodiché era accaduto. Le labbra di Sebastian si erano appoggiate con fermezza sulle sue, in un unico, lungo, deciso bacio, che lo aveva lasciato senza fiato.

“All’epoca avevo solo tredici anni, ma il giovane Lord Pennyngton già mi trovava interessante. Era un viscido porco, ma ero troppo ingenuo per accorgermene. Ci trovarono nel locale della cucina adibito alla conservazione dei cibi, mentre stava infilandosi le mie mani nei pantaloni. Diede la colpa a me, ovviamente. ‘Sebastian Smythe ha un cuore perverso!’ disse, così mi spedirono qui, mentre lui a quest’ora avrà ereditato le terre e la tenuta della sua famiglia.” Aveva detto, senza allontanare il viso dal suo, quasi in un sussurro sofferente.

“Non posso crederci… mi dispiace.” Era stata l’unica cosa da dire, mentre sentiva il sangue pulsare nel collo contro la mano che Sebastian vi aveva appena appoggiato.

“Non devi dispiacerti. Quella vicenda mi ha insegnato che non bisogna fidarsi di nessuno. Ma poi ho incontrato te, che sei una creatura con una tale purezza di cuore che disarma.” E lo aveva baciato di nuovo, più volte, e Blaine si era lasciato travolgere. Aveva risposto con naturalezza a quel gesto che ormai non considerava più sbagliato. Come poteva essere sbagliato, se lo rendeva felice? Se lo faceva sentire importante e desiderato? Aveva messo le braccia intorno al collo di Sebastian, lo aveva stretto a sé, e, meravigliandosi della sensazione di quel corpo contro il suo, aveva liberato tutta la gioia che provava in un sospiro rumoroso.

Dopo quel Natale, la Dalton sembrò un luogo completamente diverso. O forse era Blaine ad esserlo.
il loro amore clandestino non fu mai scoperto, nemmeno la notte precedente alla partenza di Sebastian. Avendo completato la sua istruzione e avendo recitato a regola d’arte la parte di quello che lui e Blaine avevano chiamato ironicamente “3P” – “Perfetto Pervertito Pentito” – aveva ottenuto il permesso di lasciare la Dalton e di trovare la sua strada nel mondo, con i pochi soldi gli avevano lasciato i suoi. La notte in questione era una notte di gennaio. Il dormitorio era quasi deserto per via dell’epidemia di tifo che aveva colpito l’istituto. Blaine non riusciva a dormire e sentiva Sebastian girarsi e rigirarsi nel letto, il fruscio delle lenzuola assordante come i suoi pensieri. Decise di alzarsi e di raggiungerlo, in silenzio e senza fare rumore. Fu felice di trovare Sebastian già compresso in un’estremità del materasso, come se avesse saputo che quella notte non sarebbe stato da solo e che avrebbe dovuto lasciare lo spazio per qualcun altro. Si infilò sotto le coperte, accanto a lui, e per un po’ rimasero così, l’uno accanto all’altro a fissare il soffitto nel buio. A un certo punto, Blaine si sentì afferrare una mano, forte, e non poté fare altro che stringergliela a sua volta. “Vieni via con me.” Sussurrò Sebastian. Il cuore di Blaine fece una capriola. “Non posso.” Soffiò. “Lo so.” Rispose rassegnato Sebastian. “Vorrei solo che non fosse così.” Blaine si girò su un fianco, verso di lui, e gli circondò la vita con la mano libera, il resto del corpo si confondeva con quello dell’altro. Sentì una mano accarezzargli i capelli. “Fammi sapere dove ti sarai stabilito e appena sarò fuori di qui verrò a cercarti.” Disse, come in una supplica, contro il suo petto. Sebastian non rispose, ma lo strinse a sé. “Sei un uomo meraviglioso, Blaine Anderson.” E fu l’ultima cosa che sentì, prima di sprofondare nel sonno e in quelle braccia sicure.
Alle prime luci dell’alba, Sebastian lo svegliò, così che potesse tornare nel suo letto senza essere notato. Lui non aveva dormito. Strappò un bacio a Blaine, lungo e dolce, e un abbraccio da togliere il fiato, dal quale Blaine non avrebbe mai voluto liberarsi. Ma dovette farlo. Blaine scese dal letto di Sebastian per entrare nel suo e contare i minuti che mancavano alla loro separazione.

Quando arrivò l’ora, tutti gli allievi non costretti all’infermeria si stiparono davanti al cancello dell’accademia, per salutare uno di loro che ce l’aveva fatta. Blaine era tra loro, ovviamente, e vedere Sebastian salutare le istitutrici e i compagni ebbe uno strano effetto su di lui. Domande e dubbi si insediarono nel suo cuore al punto da fargli tremare le ginocchia. Come avrebbe fatto senza Sebastian? Dove sarebbe andato lui? Si amavano? Si sarebbero ritrovati? Nessuna risposta, ma un sorriso dolce, da lontano, e un saluto con la mano che tante volte aveva stretto. Sebastian sparì dentro una carrozza diretto nessuno non sapeva dove.
Blaine passò i mesi successivi immerso nello studio. Non si fece distrarre da niente. Perfino nel tempo libero rimaneva concentrato nella lettura. Romanzi, saggi, poesie… imparò quante più cose poté. Risultò impeccabile nei calcoli, nella lettura a voce alta e nella stesura di brevi testi scritti. Ci volle poco perché terminasse i suoi studi e che ottenesse il permesso di lasciare la Dalton, e così, nelle ultime settimane di permanenza, collezionò una serie di annunci di offerte di lavoro che giungevano all’accademia. Tuttavia, non rispose a nessuno di essi. Sperava che arrivasse una lettera per lui da parte di Sebastian, in cui ci fosse scritto dove fosse e come raggiungerlo… ma non arrivò mai.

Trascorse un anno.

Nessuna lettera.

Blaine occupava le sue giornate come supplente alla Dalton, un po’ per giustificare la sua permanenza finiti gli studi, un po’ per occupare le sue giornate, un po’ perché di fatto si sentiva perso. Non sapeva cosa fare della sua vita. Sebastian non si faceva vivo. Negli ultimi nove anni era vissuto all’interno delle mura fredde ma a loro modo rassicuranti dell’accademia, protetto dal mondo esterno, dalla vita reale.

Un giorno si fece forza. Prese in mano la situazione e accettò l’idea che Sebastian probabilmente non aveva più bisogno di lui. Si asciugò una lacrima davanti al cassetto pieno di annunci e rispose ad uno di essi.
 
Il signor Kurt Hummel ricerca un bibliotecario per la sua tenuta.
Inviare le proprie referenze a:
 signorina Rachel Barbra Berry,
 Hummel Place,
contea di N***

 
La sua assunzione fu pressoché immediata e si ritrovò a partire, lasciando quella che, tra alti e bassi, era di fatto diventata casa sua.
 
***
 
“Blaine? Mi sta ascoltando?”

“Come? Oh signorina Rachel, le chiedo perdono. Ero perso in mille pensieri.”

“Non si preoccupi. Stavo dicendo che siamo arrivati. Questa è la biblioteca.”

Era così. Una grande porta di legno pesante e scuro era appena stata aperta dalla signorina Rachel, e nascondeva una biblioteca che a Blaine parve immensa. Va bene, forse ci voleva poco a sembrare immensa se si era abituati a quella della Dalton, ma quella di Hummel Place era davvero, davvero enorme – se non nelle dimensioni, almeno nella quantità di libri contenuti. Blaine non aveva mai visto tanta ricchezza.

“Il signor Hummel desidera che qualcuno ora se ne prenda cura. Sa, è rimasta chiusa da quando sua madre è morta e non ha avuto il coraggio di aprirla da allora.” Spiegò Rachel. “Ma ora vuole che sia riportata all’antico splendore.”
Blaine la ascoltava appena. Era affascinato da quel luogo, seppur coperto di polvere e puzzolente di chiuso.

Entrò, con un rispetto quasi religioso.

L’ambiente era circolare e il soffitto alto. Gran parte dello spazio era occupato dagli ampi scaffali, il pavimento coperto da tappeti che donavano al tutto un’aria accogliente, mentre tende di velluto rosso coprivano le finestre quanto bastava per impedire l’entrata di troppa luce e quindi l’ingiallire dei libri, ma abbastanza da illuminare un poco l’ambiente.
Alcuni libri erano chiusi dietro i cristalli delle librerie, ma in molti scaffali Blaine trovò allineate tutte le opere scolastiche desiderabili, insieme a libri di letteratura, di poesia, di viaggi e a qualche biografia. Si trovavano anche, in quella stanza, un pianoforte vissuto ma ben tenuto e d’ottima marca, un cavalletto per dipingere e un paio di mappamondi.

Era l’inizio della sua nuova vita, e odorava di carta inchiostrata e paradiso.

 

 
 
********
Note: Nell’annuncio per l’offerta di lavoro firmata da Rachel,viene detto di rispondere inviando una lettera all’indirizzo “Hummel Place, contea di N***”. Ebbene, non ho voluto specificare di quale contea si trattasse perché era così che si usava nei romanzi inglesi del Settecento e dell’Ottocento. Jane Eyre è pieno di esempi di questo tipo, così come Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen. Ho voluto mantenere quest’usanza anche io.
 
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Ricordo inoltre il Calendario dell’Avvento di Kurt e Blaine, dategli un’occhiata, se vi va!
Intanto, a domenica prossima con ASHO!
Cup of tea
   
 
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