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Autore: sensibility    01/12/2013    2 recensioni
Alison è una ragazza tranquilla, di quelle che non amano uscire tutte le sere per bere, ballare e finire, ubriache, con qualche ragazzo di cui il mattino dopo non si ricorda nemmeno il nome. Lavora con la sua migliore amica, Emma, in un albergo e lì conosce un ragazzo. E' carino e ci prova con lei che però continua a rifiutarlo finché la sua amica non le propone una sfida, una scommessa che Alison spera, quasi, di perdere. Ma è proprio a causa di quella scommessa che si ritrova a comportarsi come non aveva mai fatto prima e presto si rende conto che quel weekend ha cambiato per sempre la sua vita...
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Chiedo scusa per il ritardo ma gli ultimi giorni sono stati piuttosto frenetici; tra il lavoro, che mi ha richiesto di stare fuori casa quasi dodici ore al giorno, e la laurea della mia migliore amica non ho trovato il tempo di pubblicare prima di oggi.
Ma finalmente eccolo qui!
Siamo arrivati all’epilogo di questo breve racconto. Sono passati dieci anni da quel folle weekend in cui Simone e Alison si sono conosciuti ma la loro storia ha saputo resistere al tempo e alla distanza? Voi cosa pensate? Leggete e lo scoprirete…
Grazie a tutti quelli che hanno letto questa storia e un grazie speciale a chi ha recensito.
Buona lettura!
Sensibility


Epilogo - Dieci anni dopo


Dopo quel folle weekend Simone e Vanessa tornarono a casa, a Roma. Io e Simone provammo a mandare avanti una storia a distanza ma dopo qualche mese non ce la facemmo più. Stavamo solo facendoci del male, inutilmente.
Per un mese non ci vedemmo né ci sentimmo, trentadue giorni per la precisione, ma nemmeno così le cose funzionarono. Fu un mese da dimenticare. Emma e Chris non fecero che preoccuparsi per me, finendo per seguirmi ovunque andassi. Persino in bagno mi avrebbero seguito se non li avessi minacciati di prenderli a calci se ci avessero anche solo provato.
Quando non ce la feci più, saltai su un treno e andai a Roma. Fu una pazzia ma, in fondo, era nata così la mia storia con Simone, quindi perché cambiare ora…
Viaggiai per tutta la notte e la mattina seguente. Quando arrivai a Roma, presi un taxi e andai direttamente negli uffici dell’azienda di famiglia. Era un martedì, quindi sapevo che avrei trovato Simone al lavoro, non certo a casa.
Non avevo chiamato nessuno una volta arrivata a Roma, e non avevo detto a nessuno che ci sarei andata. Non avevo detto nulla nemmeno a Vanessa. Folle, ecco cosa fu ma per la prima volta dopo un mese mi sentivo viva e sorridevo di nuovo.
Arrivai in azienda e salutai la segretaria senza nemmeno fermarmi. Ormai mi conosceva e non mi chiese nulla, non era la prima volta che capitavo nei loro uffici. Lo avevo fatto spesso nei pochi mesi in cui io e Simone eravamo stati insieme.
Salii le scale di corsa e una volta davanti al suo ufficio spalancai la porta senza nemmeno bussare con un sorriso e il fiato corto.
L’ufficio era vuoto.
Mi guardai intorno con la speranza di trovare Simone nascosto da qualche parte ma quando capii che non lo avrei trovato accucciato dietro la scrivania o nascosto dietro la porta, decisi di chiedere a qualcuno.
E così affrontai il padre di Simone. Per la prima volta.
Non scorderò mai lo sguardo che mi lanciò appena misi piede nel suo ufficio.
“Buongiorno signore” lo salutai con un sorriso, educata, cercando di non far trasparire la mia paura. Sembrava un predatore pronto ad azzannare alla gola la sua preda. E la sua preda ero io. “Vorrei parlare con Simone” continuai, vedendo che l’uomo non diceva nulla, limitandosi a guardarmi in silenzio. “Può dirmi dove lo posso trovare?”
L’uomo rimase in silenzio per qualche minuto ancora e mi sentivo sempre più a disagio sotto il suo sguardo serio e concentrato.
Alla fine parlò e le sue parole mi raggelarono. “Lei è…?”
La risata di Simone mi riporta alla realtà. Sono passati dieci anni da quel giorno e molte cose sono cambiate ma alcune sono rimaste le stesse, come la considerazione che suo padre ha di me.
“Mio padre pensava che suo figlio meritasse di meglio di una cameriera senza istruzione né soldi.”
Sbuffo e Simone mi trascina sulle sue gambe, ridendo. Siamo a casa nostra, la casa che abbiamo comprato qualche giorno dopo il mio viaggio a Roma.
“Mio padre non è mai stato bravo a capire le persone” mormora Simone con un’alzata di spalle. “Si è sempre fermato alle apparenze e per questo ha finito per prendere una cantonata pazzesca.”
“L’unica cosa su cui aveva ragione era il mio lavoro” commento con un sorriso, scuotendo la testa. “All’epoca ero veramente una cameriera.”
“Peccato che tu non fossi né senza istruzione né tanto meno senza soldi” ridacchia Simone divertito, stringendomi piano i fianchi. “La più giovane laureata della Columbia e con il massimo dei voti. Per non parlare del vertiginoso conto in banca. Decisamente mio padre aveva preso un abbaglio.”
Annuisco e poso la testa sulla sua spalla, sorridendo.
“Comunque il gelo con cui ti accolse mio padre non è niente rispetto allo sguardo scioccato di Rasputin. Ti ricordi di Rasputin? Il tuo vecchio e rinsecchito direttore di sala.” Scuotendo, la testa esclama: “Quello sì che è stato memorabile.”
Mi ritrovo a ridacchiare con Simone. Ho riso fino alle lacrime quando me l’ha raccontato la prima volta.
“Mentre tu eri a Roma, io entravo nell’albergo in cui lavoravi. Mi ero fermato alla reception solo il tempo di chiedere di te. Fui indirizzato verso il direttore di sala. Attraversai l’atrio e la sala da pranzo di corsa, guardando ogni cameriera nella speranza di incontrarti ma non fui fortunato.”
“Difficile incontrarmi visto che io ero a Roma” ridacchio.
Simone sorride e continua a raccontare.
“Trovai il direttore di sala che impartiva ordini ai camerieri. Non mi fermai finché non fui davanti a lui.
“Buongiorno signore” lo salutai con un sorriso. “Sto cercando Alison. Può dirmi dove posso trovarla?” chiesi gentile ed educato.
L’uomo mi fissò in silenzio, scocciato. “Se è uno scherzo, ragazzo, non è divertente” borbottò e l’occhiataccia che mi lanciò mi fece paura.
“Non sto scherzando” balbettai.
Il vecchio direttore mi fissò sorpreso. Era la prima volta che vedevo un’emozione sul suo volto segnato dal tempo, un’emozione che non fosse disgusto o rabbia.
“La signorina in questione ha preso tre giorni di ferie” disse l’uomo, guardandomi divertito.
“E dov’è andata? Lei lo sa?” chiesi contrariato. Ero partito senza pensare, credendo che ti avrei trovato al lavoro ma non mi ero mai fermato a pensare a cosa avrei fatto se non fosse andata secondo i miei piani.
“Non sono solito impicciarmi negli affari degli altri o ascoltare i pettegolezzi che girano. Ho di meglio da fare io. Ho un lavoro. Un albergo da mandare avanti. Non ho tempo da perdere, ragazzo” borbottò, poi però sembrò accennare un sorriso. “Ma se ascoltassi i pettegolezzi, e io non lo faccio mai, ricordatelo, ti direi che è partita ieri sera per Roma.”
“Roma??” esclamai, spalancando gli occhi per la sorpresa.
L’uomo, compiaciuto della mia reazione, annuì. “Secondo i pettegolezzi, se avessi il tempo di ascoltarli” aggiunse in fretta divertito, “è andata dal suo ex fidanzato.”
Lo fissai in silenzio, scioccato.
“Ah, voi giovani d’oggi” borbottò Rasputin, ridacchiando. “Con tutte le nuove tecnologie che hanno inventato, non vi è venuto in mente di fare una telefonata prima di gettarvi a capofitto in una simile pazzia? Vi sareste risparmiati un viaggio inutile.”
In quel momento ne fui sicuro: il vecchio direttore di sala, sempre rigido e composto, trovava tutta quella situazione esilarante.”
Come ogni volta che Simone ripeteva quella storia, mi ritrovo a ridere.
Io ero andata da lui. E lui era andato da me.
Appena uscii dall’ufficio di suo padre, quel giorno, Simone mi chiamò. “Solo a noi capitano queste cose, non è vero?” mi chiese e nella sua voce sentii il sorriso.
Ridendo, ci mettemmo d’accordo per trovarci a metà strada e così, alcune ore dopo, cenammo insieme a Verona.
Dopo quel giorno andammo a vivere insieme. Avevamo capito che una storia a distanza non eravamo capaci di mandarla avanti senza farci del male a vicenda ma lasciarci era stato anche peggio. La soluzione era una sola.
Simone si trasferì da me tre giorni dopo. Per la gioia di suo padre che ancora oggi, dopo ben dieci anni, non me l’ha ancora perdonata.
Dopo aver lasciato l’azienda di famiglia, Simone tornò a studiare e si diplomò al conservatorio come aveva sognato mentre io lavorai come cameriera per quasi tre anni prima di trovare il lavoro che volevo.
“Sono stato mantenuto agli studi dalla mia ragazza… che vergogna!” mi prende in giro Simone, ritornando su uno dei pochi motivi di litigio che abbiamo avuto in quegli anni.
“Scemo” rispondo, ridendo.
Ora io insegno inglese nella stessa scuola in cui Simone insegna musica. Nel pomeriggio, inoltre, da lezioni di piano a quei bambini che mostrano un particolare talento o interesse.
Tra questi c’è anche la piccola Lilian, il piccolo Mozart di casa. Ha imparato a suonare prima che a parlare e a cinque anni era già più brava di Simone mentre a sette è entrata al conservatorio.
“Mamma! Mamma! Mamma!”
Sospiro e sorrido. “La calma è finita” dico, sistemandomi meglio sulle gambe di quello che, a Verona, in un momento di follia di cui non mi sono mai pentita, è diventato mio marito. Vanessa ed Emma ci hanno tenuto il muso per quasi un mese. Promemoria per il futuro: mai togliere a quelle due un pretesto per festeggiare.
La porta del soggiorno si apre e tre bambini urlanti entrano di corsa nella stanza. Sono sporchi, sudati e puzzolenti ma sorridono felici e questo è tutto ciò che m’importa.
“Andata bene la giornata?” chiedo con un sorriso.
“Sì!” urlano in coro.
“Gli zii dove li avete lasciati?” chiede Simone ma prima che possano rispondere vedo uno sfinito Chris entrare in casa seguito a pochi passi di distanza da Vanessa che, a sette mesi, è ormai visibilmente incinta.
“Sono distrutto” sospira Chris, lasciandosi cadere spossato sul divano. Vanessa lo raggiunge poco dopo mentre i bambini raccontano la loro giornata a una velocità che ha dell’impossibile. A volte ho l’impressione che non respirino nemmeno.
“Che ne dite di fare un bel bagno?” esclamo, alzandomi dalla poltrona e porgendo le mani verso i miei piccoli angeli che le afferrano con forza. “Dite buonanotte agli zii.”
“Buonanotte!” urlano. Quando sono felici, diventano incapaci di contenersi e finiscono per urlare tutto il tempo.
“Notte piccole pesti” augura loro Chris, dando una carezza sulla testa a Andy, il piccolo di casa, un soldo di cacio alto un metro ma già capace di far girare la testa alle bambine. E ha solo quattro anni.
“Quelle piccole pesti sono i miei bambini” lo riprende Simone, lanciandogli il tappo della bottiglia di vino che abbiamo aperto qualche ora prima. “Attento a come parli.”
Chris afferra il tappo al volo e lo rilancia a Simone. Li lascio che litigano come bambini sotto lo sguardo ormai rassegnato di Vanessa.
“Trent’anni per niente” sospiro mentre salgo le scale ma mi sentono bene tutti e due.
Dopo aver fatto il bagno ad Andy, lo porto a letto tenendo d’occhio gli altri due. Ormai sono grandi e capaci di lavarsi da soli ma non posso fare a meno di preoccuparmi.
Quando Andy si è addormentato, torno in bagno dagli altri due e per poco non mi uccido scivolando sul lago che è improvvisamente diventato il mio bagno.
Lily e Mattia sono in piedi, in mezzo a quel disastro, con i loro bei pigiamini indosso e un sorriso innocente sul volto.
“Vi avevo chiesto di lavare voi, non il bagno!”
Mi guardano con i loro occhioni grandi, che avrebbero sciolto anche un ghiacciolo, a cui nemmeno mio suocero riesce a restare indifferente, e mormorano dispiaciuti: “Scusaci, mamma.”
Sbuffo e sorrido. “Forza, andate a letto.”
Dopo il bacio della buonanotte, s’infilano nei loro letti e si addormentano in meno di un minuto. Devono essere davvero stravolti. Di solito mi pregano sempre di raccontare loro una storia e non c’è verso che si addormentino senza.
Resto a guardarli per qualche minuto. Ancora non riesco a credere che sono i miei bambini.
Lilian, per tutti Lily, è nata nove mesi esatti dopo il nostro matrimonio ed è la mia fotocopia in tutto e per tutto. Una sola cosa l’ha presa da suo padre: l’amore per la musica.
Andy, diminutivo di Andrea, è l’ultimo nato ed è tutto suo padre. Capelli neri e occhi blu. Ha persino lo stesso sorriso malizioso di Simone, quel sorriso che mi ha fatto innamorare di lui tanti anni prima.
Mattia, invece, è l’angelo di casa, l’unico che non fa confusione, che non corre in giro, che non combina mai disastri. Nemmeno da piccolo ci ha mai dato problemi, dormendo tutta la notte già dopo solo un paio di settimane. Ama i libri e passa tutto il suo tempo libero a leggere. A sette anni sa più cose di tutti i suoi compagni di classe messi insieme. Un piccolo Einstein silenzioso e tranquillo.
Quando scendo in salotto, trovo Simone e Chris che si abbuffano di patatine che Simone deve aver preso dalla dispensa segreta, l’unica a cui i bambini non riescono ancora ad arrivare.
Mi riaccomodo sulle gambe di Simone e mi servo anch’io una manciata di patatine.
“Com’è andata la giornata?” chiedo a Vanessa. “Non ti sei stancata troppo, vero? Possono essere davvero difficili da tenere a bada.”
“Sono stati bravissimi” mi assicura Vanessa con un sorriso. “E Lily mi ha dato una mano con i più piccoli.”
“Beh, amico, dovrai abituarti” lo avvisa Simone e lancia un’occhiata alla pancia della sorella. “Quando nasceranno i gemelli, rimpiangerai i bei tempi in cui potevi dormire otto ore di fila.”
Chris fa una smorfia che mi fa ridere. “Ma i gemelli avranno due zii fantastici che si occuperanno di loro quando i loro poveri genitori avranno bisogno di una pausa.”
“Voi avete passato bene la giornata?” chiede Vanessa con un sorriso e dallo sguardo malizioso che mi lancia, capisco subito a cosa sta pensando.
Sorrido e annuisco, facendole l’occhiolino.
Vanessa ride divertita.
“Ho visto che vi siete bevuti un’intera bottiglia di vino” dice Chris, giocando con il tappo di sughero che si sono lanciati lui e Simone poco prima.
“Quella è opera di Simone” lo correggo. “Io mi sono limitata a un analcolico.”
“Ti sei bevuto una bottiglia di vino da solo??” esclama Chris scioccato, guardando Simone con gli occhi spalancati. “Che volevi fare? Ubriacarti?”
“Dovevamo festeggiare” risponde Simone con un’alzata di spalle e, sorridendo, aggiunge: “E poi quando ho comprato la bottiglia, non credevo di berla da solo.”
Chris mi guarda confuso. Non amo il vino ma bevo sempre un paio di bicchieri per festeggiare il nostro anniversario e Chris questo lo sa bene.
“Non posso bere alcolici” spiego, vedendo lo sguardo confuso di mio cugino ma Chris ancora non capisce.
“Perché? Non stai bene?” chiede preoccupato.
Simone ridacchia divertito. “Non ti facevo così stupido, amico.”
Chris guarda Simone, corrugando la fronte senza capire, e poi torna a guardare me, sempre più confuso. Quando vuole, sa essere veramente lento nell’afferrare un concetto.
“Diciamo che tra poco meno di nove mesi starò meglio” rivelo con un sorriso eloquente, rispondendo alla sua domanda.
Impiega qualche secondo ma alla fine capisce. “Sei incinta??”
Annuisco con un sorriso felice, portandomi una mano al ventre. Sono incinta solo di poche settimane e ancora non si vede niente ma è un riflesso automatico.
Vanessa mi fa le congratulazioni mentre suo marito, nonché mio cugino, cerca di digerire la notizia. Fa sempre così, l’ha fatto ogni volta che gli ho detto di aspettare un bambino. Non oso immaginare cos’è successo quando è stata Vanessa a dirgli di essere incinta. Conoscendolo, con molta probabilità è svenuto.
“Ve lo hanno mai detto che ci sono altri modi per passare il tempo?” ci prende in giro Chris, quando ha finalmente metabolizzato la novità. “Tipo… non lo so… mai provato a giocare a carte?”
“Noioso” risponde Simone con un sorriso.
“A scacchi?” continua Chris.
“Noioso!” esclamiamo io e Simone in coro, attenti a non alzare troppo la voce per non svegliare i bambini che dormono al piano di sopra, e scoppiamo a ridere. E Chris si unisce a noi. Quando torna serio, mi abbraccia e mi bacia, facendomi le congratulazioni.
Quel weekend ha cambiato le nostre vite. Sono stati due giorni di follie, alcune dettate dall’alcool, altre semplicemente dall’esuberanza e dall’incoscienza tipiche della nostra età. Dare la colpa all’alcool non sarebbe stato giusto.
La maggior parte delle pazzie che ho commesso nella mia vita, compreso partire per Roma senza dire niente a nessuno, l’ho commessa sapendo perfettamente cosa stavo facendo, e questo è ancora più folle.
E pensare che è partito tutto da una scommessa.
E da un malibu ananas. Anzi, tre malibu ananas.
Da quel giorno è diventato il mio cocktail preferito… devo forse spiegarvi il motivo?
  
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