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Autore: Im_dreaming_Saffo    04/12/2013    2 recensioni
I ricordi della madre di Iris le ronzano in testa come mille api velenose, pungendola ripetutamente, riaprendo ferite del passato. La madre, Katherine Host, era il soggetto numero 5 di un'importante ricerca medica sui disturbi mentali. La paziente, malata di schizofrenia, dopo la somministrazione del Siero Mind risulta priva di qualsiasi sintomo della malattia mentale. Così il dipartimento decide di studiare i soggetti, dopo la somministrazione del siero, in campo sociale, spedendoli a Carson City, nel Nevada, continuando a sorvegliarli giorno e notte.
Ma la dottoressa Lauren Stark aveva avvertito il dipartimento degli eventuali effetti collaterali del Siero, in passato esposto a radiazioni per cercare di modificare la psiche stessa dei pazienti. Il dipartimento però assicura la sicurezza del Siero.
Mai avrebbero potuto immaginare che gli effetti collaterali si sarebbero ripercossi sui figli dei soggetti e sull'intera cittadina.
-Dopotutto i pazzi non sanno di esserlo, giusto?-
Genere: Angst, Dark, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-Katherine- mormorò l'amica di mamma, Charlotte, a voce molto bassa come se cercasse di non farmi udire la conversazione. Ricordo che veniva spesso a trovare la mamma. Era una donna molto piccola e esile, portava sempre un paio di treccine che cadevano sulle spalle. Spesso, quando la mamma non si sentiva molto bene, mi faceva da babysitter e giocavamo sempre con le mie costruzioni. All'epoca avevo solo cinque anni. I ricordi di quegli anni erano sfumati e confusi, quel giorno, però, lo ricordavo bene. La mamma mi aveva spinto verso il salotto dicendomi di guardare i cartoni. Lei e Charlotte si sistemarono nella cucina, parlottando sottovoce. Spinta dalla curiosità, in punta di piedi, mi ero nascosta dietro lo stipite della porta, origliando la conversazione, allungando il collo per osservare la mia mamma.

Charlotte aveva il viso pallido, quasi cadaverico -Katherine..- ripetè abbassando gli occhi.

La mamma sbuffò, era sempre stata una donna molto impaziente, per quanto ricordi. -Lottie, ti prego, raccontami cos'è successo.- le mise una mano sulla spalla, incoraggiandola con un piccolo sorriso.

-Katherine..- mormorò per l'ennesima volta, gli occhi le si riempirono di lacrime. -Paul è morto.-

Mamma contrasse il volto a quelle parole e le mani iniziarono a tremarle, mentre lo sguardo si perdeva nel vuoto. I tremori le si diffusero pian piano in tutto il corpo e crollò in ginocchio. Charlotte si alzò di scatto, avventandosi su mia madre, dandole pacche sulle spalle.

-Katherine!- gridò in preda al panico. -Per l'amor di Dio!-

La mamma iniziò a ridere, una risata aspra e acuta che mi fece accapponare la pelle. Aveva gli occhi che fissavano il soffitto, come se vedessero qualcosa che però era invisibile ai miei occhi.

-L'hanno ucciso, Charlotte.- disse continuando ad emettere quell'agghiacciante risata. -Lo sapevo! Ci uccideranno tutti! Tutti!- si mise le mani sul volto, le unghie che si conficcarono nelle sue guance. Delle gocce scarlatte scivolarono sul volto, gocciolando dal mento.

-Mamma!- strillai correndole in contro. -Mamma!-

Charlotte alzò lo sguardo verso di me, gli occhi sgranati e impauriti. Si alzò, prendendomi per mano. -Vai in camera tua, Iris.- disse con calma innaturale spingendomi verso la porta.

-Ma la mamma sta male!- gridai ancora, cercando di girarle intorno e raggiungere la mamma. Charlotte mi impediva di vederla, anche se continuavo a udire la sua risata. Le passai tra le cosce, strisciando a terra, e mi avvicinai alla mia mamma. Lei spostò lo sguardo su di me, senza vedermi davvero. Gli occhi verdi erano vacui, distanti e folli.

-Mamma!- cercai di chiamarla, scuotendola per le spalle. -Mamma sono qui! Mamma!- delle lacrime calde mi riempirono gli occhi, appannandomi la vista.

Charlotte mi trascinò via prendendomi in braccio. Chiuse la porta della cucina alle sue spalle per poi mettermi giù e accompagnarmi nella mia stanza, in fondo al corridoio.

-Cosa sta succedendo alla mamma?- singhiozzai raggomitolandomi sul letto, affondando la testa nel cuscino, cercando si soffocare le lacrime.

-Starà bene..- mormorò Charlotte abbassando lo sguardo. -E'.. solo un effetto collaterale.-

 

 

Il ricordo mi sfuggì dalla mente come acqua tra le dita. Sospirai spostando lo sguardo sulla matita che avevo tra le mani. Probabilmente avevo fissato il vuoto durante la mia visione sul passato. Appoggiai la fronte sul tavolo freddo, fissando la parete bianca della stanza in cui ero rinchiusa da ormai sei anni. Non sapevo perchè mi trovavo li: mi ci avevano portato degli uomini con dei lunghi camici bianchi quando erano venuti a prendere la mamma. Però non avevano trovato altro che una signora invecchiata velocemente, con qualche sporadico ciuffo di capelli rossi sulla nuca. Ricordo che mamma si strappava i capelli durante i suoi attacchi. Rimembravo poco o niente del suo viso ma gli attacchi.. quelli li ricordavo maledettamente bene. Mi alzai dalla sedia, rimettendo a posto i colori sparsi sul tavolo. Odiavo disegnare ma gli uomini con i camici bianchi mi obbligavano ogni giorno a disegnare qualsiasi cosa mi passava per la testa. Ma anche quel giorno il foglio era rimasto bianco, non avevo tracciato neanche una linea. Sospirai di nuovo sedendomi sul letto, passandomi le mani tra i capelli rassegnata. Era un inferno passare le giornate in quel luogo ma ormai mi ero abituata.. dopo tanti anni quella stanza era diventata una prigione. I primi tempi gridavo invocando mia madre anche se sapevo che ormai aveva lasciato questo mondo. Avevo il sospetto che l'avessero uccisa come quel Paul che Charlotte aveva nominato dando il via ad una valanga di eventi disastrosi. L'ultima volta che avevo visto la mamma era mentre mi portavano via, la vedevo li che tendeva la mano nella mia direzione, invocando il mio nome. Poi la mia visuale era stata coperta da un gruppo di camici bianchi, che l'avevano circondata, un tonfo, così forte da lasciarmi un fischio nelle orecchie, era rimbombato in tutta la casa.

I camici bianchi, in seguito, si erano presentati come ''dottori'' dicendo che volevano ''curarmi''. Dicevano che ero malata e che volevano salvarmi per non farmi diventare come la mamma. Per me però non erano dottori, affatto. I veri medici erano sorridenti, rassicuranti, come il pediatra che mi aveva visitato da piccola: aveva occhi allegri e labbra sorridenti, ispirava fiducia. Invece i camici bianchi avevano ucciso mia madre, non l'avevano salvata, non l'avevano curata e quindi non erano per niente dei dottori.

Sentii un ronzio: era la telecamera all'angolo della stanza che zoomava sul mio viso coperto dai capelli. Quanto odiavo quella telecamera, l'avrei volentieri staccata dal muro per poi farla a pezzi. Mi mordicchiai il labbro perdendo di nuovo lo sguardo nel vuoto, mentre un altro ricordo si faceva strada nella mia mente.

 

 

Eravamo nel supermarket ad un isolato dalla nostra piccola casetta, la mamma mi teneva per mano mentre le indicavo sorridendo una scatola di cereali che all'apparenza sembravano deliziosi. La mamma sorridendo depositò la scatola nel carrello e si diresse verso la cassa. Lì, in coda, c'era un uomo alto con i capelli scuri che salutò mia madre sorridendo, dandole due baci sulle guance.

-Jason!- sorrise la mamma abbracciandolo con calore. Mi nascosi dietro le sue gambe, timida. L'uomo di nome Jason però mi notò e mi sorrise con calore, scostandosi, rivelando una bambina, della mia età, che come me si stava nascondendo dietro il proprio genitore.

-Oh!- mia madre sorrise ancor di più. -E' tua figlia?- chiese, con gli occhi verdi che le scintillavano.

Jason annuì -Si.- sorrise ancora poggiando la mano sulla testa della bambina, che aveva lunghi capelli neri e degli enormi occhi azzurro-ghiaccio, proprio come il padre. -Dì come ti chiami, piccola.- la invitò con dolcezza.

La bambina lo guardò e annuì con decisione, fece un passo avanti e mi tese la mano paffuta. -Mi chiamo Aradia- ripetè come se fosse una cantilena. -Tu come ti chiami?-

Mia madre mi spinse dolcemente verso la bambina, così le afferrai la mano stringendola timidamente. -Io sono Iris..- mormorai per poi tornare a nascondermi dietro la mamma.

Aradia ridacchiò, girandomi intorno e osservandomi con aria curiosa.

-Il padre?- chiese Jason mettendo una mano sulla spalla di mamma.

Lei sospirò, appoggiandosi al carrello, scuotendo il capo. -Non so che fine abbia fatto John. E' sparito poco dopo la sua nascita...-

 

 

La voce della mamma si perse nella mia mente, mi strofinai gli occhi con i palmi delle mani, stendendo le gambe e tendendo le braccia sopra la testa, stiracchiandomi.

Sobbalzai quando dei tonfi sordi, provenienti da dietro la porta blindata della stanza, mi strapparono completamente dagli ultimi ricordi di mamma che svolazzavano nella mente.

-Posso entrare?- chiese la voce di una donna. Rimasi impietrita. Non c'erano donne tra i camici bianchi.. o almeno non le avevo mai viste.

Rimasi in silenzio fissando la porta che poco dopo si spalancò, rivelando una donna con lunghi capelli biondi, il volto segnato da alcune rughe di espressione. Si avvicinò al mio letto sorridendo, inarcando le sopracciglia, come se fosse sorpresa.

-Sei identica a tua madre..- mormorò prendendo una sedia e sistemandola vicino a letto. Si schiarì la voce e mi osservò con intensi occhi castani. -Sono la dottoressa Lauren Stark.- si presentò tendendomi la mano.

Osservai la sua mano, sospettosa. Dopotutto lei era un camice bianco, si trovava e lavorava in quel luogo maledetto. Così rimasi immobile, spostando lo sguardo sul suo volto.

La dottoressa sospirò accavallando le gambe e ritirando la mano. -Come ti chiami?- mi chiese sorridendo ancora.

Le risposi con un'occhiata eloquente, sapevo che già conosceva il mio nome, era così ovvio. Loro mi osservavano giorno e notte, studiandomi. Anche se probabilmente la dottoressa era nuova, l'avevano già sicuramente informata su tutto, anche gli orari dei miei bisogni.

Lei si accorse del significato della mia occhiata ed emise una risata nervosa. -E' vero, so già come ti chiami, Iris.. ma già prima di venire.. convocata..- pronunciò quella parola in un sospiro. -Me ne parlò Katherine, tua madre. Era innamorata di quel nome.-

Aggrottai la fronte continuando a fissarla in silenzio. Aveva parlato di mia madre come se fosse una vecchia amica. Ingoiai, non sapevo se fidarmi o meno di quel camice bianco.

La dottoressa intuì di nuovo il significato del mio sguardo e il sorriso svanì dal suo volto, si avvicinò a me allungandosi sulla sedia, appoggiando la mano sul mio ginocchio. -Ascoltami, Iris.- mormorò a voce bassa, gli occhi pieni di dispiacere e consapevolezza -Non voglio farti del male, ti porterò via da questa..- si guardò in giro, fissando le pareti. -..stanza. E sarò la tua tutor personale in una scuola.. speciale. Starai con altri ragazzi, Iris. E potrai muoverti con libertà, non sarai più..- abbassò ancor di più la voce, come se stesse facendo delle osservazioni -..Spiata e studiata come un esperimento.-

Qualcosa, in quella donna, ispirava fiducia. Mi aveva parlato con schiettezza, il suo tono non era impregnato di fredda cortesia.

Annuì alzandomi dal letto, porgendole la mano. -Va bene, dottoressa Stark, come vuole lei, l'importante è che mi portiate fuori di qui.-

Lei sorrise, stringendomi la mano -Te lo prometto, Iris. Mi prenderò cura di te in onore del bene che provavo per tua madre.- mi accarezzò i capelli ricci e rossi con dolcezza e affetto. Mi diede un ultimo buffetto e indicò il bagno, passandomi una grande busta, intravidi un fagotto di vestiti all'interno.

-Vai a cambiarti, Iris. Spero che i vestiti ti stiano bene e non siano troppo piccoli.-

Abbozzai un sorriso dirigendomi in bagno e pescando dalla busta una maglietta nera. Mi sfilai quella bianca gettandola nel cestino dell'immondizia, indossando quella nuova. Velocemente gettai via anche il resto dei vestiti da ''laboratorio'' e infilai il jeans e la felpa nera, insieme alle scarpe da ginnastica. Uscì dal bagno, felice di avere, dopo tanto tempo, un po' di colore.

-Grazie, dottoressa.- Le dissi mentre mi spingeva verso la porta, mi fermai un secondo per osservarla.

Lei mi sorrise e io ricambiai. -Iris, è il mio dovere.-

Non capii il senso della sua risposta, ma mi limitai a sorridere, varcando quella porta tanto odiata. La dottoressa mi guidò lungo diversi corridoi, quel luogo sembrava un terribile labirinto. Quando finalmente uscimmo dall'edificio mi accorsi che Carson City, negli anni in cui ero stata rinchiusa, era cambiata totalmente. Era come se fosse invecchiata di colpo, era troppo silenziosa e non c'era un anima viva in quella strada. I negozi di fronte al parcheggiò erano abbandonati, con delle erbacce che fuoriuscivano dalle vetrate rotte.

-Cos'è successo qui?- chiesi alla dottoressa, mentre ci avvicinavamo alla sua macchina. -Dove sono tutti?-

La dottoressa aprì lo sportello, prima di entrare mi guardò. -E' un informazione riservata, Iris. Per il tuo bene è meglio se rimani all'oscuro di tutto.-

Stavo per replicare quando un urlo stridulo e agghiacciante irruppe in quella quiete innaturale. Fissai la dottoressa Stark con un nodo alla bocca dello stomaco.

-Entra in macchina.- disse avviando il motore e chiudendo lo sportello.

Corsi al lato del passeggero filando nell'auto senza fiatare. Sprofondai nel sedile scossa. La dottoressa uscì dal parcheggiò, tamburellando le dita con nervosismo sul volante. Evitai appositamente di guardare fuori dal finestrino, non volevo osservare quella città fantasma così familiare. Chiusi gli occhi pregando che quel viaggio finisse presto.

Sentii la serratura della macchina serrarsi con un click. 

  
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