*entra in punta di piedi*
C’è ancora qualcuno, là fuori?
Chiedo infinitamente scusa per il tremendo
ritardo e per non aver ancora risposto alle recensioni – cosa che rimedierò al più
presto oggi; ma la tesi mi sta deliziando et uccidendo, e come se non bastasse
la press per La Desolazione di Smaug è ufficialmente iniziata e mi perdo nei
meandri di video, foto ed interviste!
Spero di farmi perdonare con questo capitolo...
o forse no? ;)
A presto! *_*
E come sempre un GRAZIE gigante a tutti coloro
che mi seguono!
Marta.
Pietra
- sequel di Betulla -
18.
24 Settembre 3019 T. E.
Era da poco passata la mezzanotte quando i Rohirrim erano
giunti sul nemico con la stessa forza e violenza di un’ondata. Gli Esterling
non si erano fatti trovare impreparati, schierandosi ordinatamente per
barricare il passaggio con le lance abbassate, mentre gli arcieri si erano
posizionati in retroguardia, pronti a far piovere frecce come le gocce di un
temporale. Ma la resistenza e il vigore dei cavalli di Rohan, sommato alla
velocità con cui si abbatterono su di loro, vennero forse sottovalutati, e i
ranghi degli Esterling si ruppero facilmente, lasciando spazio ad un
disordinato e mortale scontro. Le grida di battaglia impazzarono per i campi
intrisi nuovamente di sangue e Re Éomer spronò i suoi soldati e quelli di
Gondor affinché lo seguissero fuori le mura, per unirsi al resto dell’esercito.
Dáin e i Nani li raggiunsero poco dopo, lanciandosi con le asce in mano e
uccidendo qualsiasi cosa si muovesse e attentasse alla loro sicurezza; non vi
era pietà nei loro volti insanguinati e ciechi dalla furia, poiché lo stesso
odio muoveva il nemico.
Il profumo della vittoria si fece più pungente quando, dall’altro
lato del fiume, giunse Faramir, seguito dai Raminghi dell’Ithilien e da un
numeroso gruppi di Elfi, che si precipitarono giusto in tempo per mandare allo
sbaraglio le ultime truppe nemiche. Ma Éomer ebbe la brutta sensazione che
qualcosa stesse andando storto. Si guardò intorno, levando la lancia dal corpo
senza vita di un soldato e mosse il cavallo, scrutando il campo di battaglia e
cercando qualcuno che ancora mancava all’appello. Incontrò lo sguardo di un
guerriero, dalla lucente armatura dorata, e persino nell’oscurità notò il barlume
sinistro dei suoi occhi scuri; ma fu ciò che vide oltre le sue spalle, verso
l’accampamento ora in fiamme degli Esterling, che gli fece ribollire il sangue
nelle vene.
«Aragorn!»
Udendo quel grido disperato e irato, Elegost, che aveva
attraversato il ponte ed era giunto sulla riva opposta, levò il capo, seguendo
lo sguardo del Re di Rohan e sbarrando gli occhi nel vedere quello che un tempo
era stato il suo capo, rotolarsi su un fianco per evitare il fendente di Azdor;
si era finalmente liberato delle corde, approfittando del caos e sciogliendo
anche quelle che appendevano Boromir, ma Aragorn non aveva armi con sé, poiché
gli erano state tolte preventivamente, e si ritrovò a dover difendersi a mani
nude da quel mortale nemico.
Éomer ed Elegost cavalcarono contro la figura immobile di
Azdor, che rivolse ora la sua attenzione verso i due e si preparò
all’inevitabile scontro; strinse con forza la lancia di metallo e oro e la
conficcò sul primo cavallo che gli capitò a tiro. Elegost venne disarcionato
con violenza, atterrando su una spalla; gridò dal dolore, ma dovette
riprendersi velocemente per spostarsi e non essere travolto dal suo stesso
destriero, ormai impazzito per la ferita.
Azdor schivò la furia di Éomer, che non si fermò ma proseguì
verso i suoi amici di Gondor.
«Aragorn!» esclamò, smontando da cavallo e raggiungendoli
immediatamente. Dimenticò per un istante la battaglia che si combatteva intorno
a loro, per sincerarsi delle loro condizioni: Boromir era ricaduto sulla pozza
del suo stesso sangue e l’odore pungente del ferro gli fece storcere il naso.
«Amico mio, apri gli occhi.» mormorava Aragorn,
schiaffeggiandolo nel tentativo di farlo riprendere. Tamponò la piccola ferita
sul collo e premette con forza, affinché l’emorragia terminasse.
«Aragorn.» ripeté Éomer, preoccupato per la sorte del
Sovrintendente e per lo sguardo disperato dell’amico. «Come stai, amico mio?»
Il Re di Gondor mosse il capo con lentezza, accennando un
gesto affermativo – per quanto bene potesse stare realmente: era ferito,
dolorante e oppresso da un terribile senso di colpa. Mormorò qualcosa al suo
migliore compagno e sentì il cuore sanguinare come la sua gola.
Boromir, infatti, non pareva volersi svegliare.
A pochi metri più avanti, Elegost si rimetteva in piedi con
fatica, una spalla lussata che pulsava dal dolore. Eppure niente gli avrebbe
proibito di riprendere in mano la spada, che gli era caduta di mano, per
fronteggiare il guerriero dorato che lo aveva disarcionato. Gli fu addosso poco
dopo, tenace e adirato, ma l’affondo andò a vuoto; Azdor gli rifilò un colpo di
lancia sull’addome, che gli troncò il fiato per qualche secondo. Scansò la
punta dell’arma con la sua lama, calciandolo al ginocchio. Azdor gridò qualche
insulto nella sua oscura lingua, ma non cadde.
Era tenace, il maledetto.
Rimasero ad osservarsi per qualche istante, il pesante suono
dei loro respiri che si confondeva tra il fragore della battaglia. Elegost
strinse con più forza la spada, facendola cozzare con violenza contro la lancia
dell’Esterling. Non si rese subito conto di ciò che accadde, dopo quelli che
parvero minuti interminabili di affondi e parate; sentì solo un fastidioso
bruciore all’altezza del petto e la sensazione di avere la leggera camicia di
lana, sotto la cotta di maglia, completamente zuppa. Azdor sorrise, trionfante,
ma l’espressione vittoriosa si trasformò subito in una di puro terrore. Cadde
sulle ginocchia, insieme ad Elegost, ma per motivi differenti; il Ramingo era
infatti rimasto ferito dalla sua lancia, che lo aveva trapassato come se fosse
stato burro, ma egli era stato invece colpito da una freccia, che si era
conficcata con precisione laddove l’armatura e l’elmo lasciavano scoperto una
generosa porzione di nuca.
Faramir abbassò l’arco e si difese velocemente da un altro
paio di nemici, prima che potesse realmente cantare vittoria. Con la morte di
Azdor, infatti, il resto degli Esterling si diede alla fuga un paio d’ore dopo
l’alba, e Gondor e Rohan si concessero un sorriso per la vittoria. Ma non ci fu
gioia né vennero cantate le lodi per gli eserciti vincenti, poiché troppi di
loro erano i caduti e i gravemente feriti, e tra essi vi erano nomi eccellenti.
Il Principe dell’Ithilien si chinò su Elegost, controllando
l’entità della ferita. Ma anche lui si rendeva conto che fosse troppo profonda
per essere medicata.
«Mio signore, non badare a me... tuo fratello necessita di
cure.» mormorò, tossendo sangue.
Faramir seguì il dito del giovane Ramingo e sbarrò gli occhi
nel trovare il corpo inerme del fratello maggiore. Combatté l’impulso di
correre da lui per sincerarsi delle sue condizioni, ma non avrebbe potuto
lasciare il suo compagno a morire senza qualcuno accanto. Così gli strinse un
braccio con affetto. «Boromir è in buone mani, Aragorn e gli Elfi si
prenderanno cura di lui; necessiti di cure anche tu, amico mio.»
Elegost sorrise tristemente. «Ahimè, non credo che ci sia
cura che possa salvarmi, mio signore.» Deglutì a fatica, il sapore ferroso del
sangue che lo nauseava. «Ma ti prego di portare i miei... i miei omaggi al
Sovrintendente, se dovesse riaprire gli occhi... e alla sua sposa.» aggiunse,
con malinconia e amore.
Lacrime amare bagnarono il bel volto di Faramir quando
l’Uomo tra le sue braccia si spense. Mormorò una preghiera per la sua buona
anima e lì lo lasciò, per raggiungere il fratellone, ancora incosciente.
Incontrò lo sguardo colpevole di Aragorn, ancora chino sull’amico.
Il Re non si sarebbe perdonato quella leggerezza per il
resto della vita. Non voleva neppure pensare alla possibilità che Boromir
potesse morire a causa sua; che il suo migliore amico non potesse più riaprire
gli occhi; né avrebbe sopportato l’odio e il dolore che Brethil avrebbe provato
alla notizia, se mai fosse rientrata a Gondor.
No, non avrebbe potuto sopportare un tale fardello, poiché
sulle sue spalle vi erano già troppe preoccupazioni e le sue mani erano fin
troppo sporche del sangue della sua gente.
Così allungò una mano verso Faramir, che si chinò
immediatamente accanto a lui. «Ho bisogno del tuo aiuto per salvarlo.»
Il Principe annuì. «Qualsiasi cosa il mio Re comandi.»
In quel momento Aragorn si sentiva di tutto, fuorché Re. Ma
accantonò quei brutti pensieri in un angolo della mente, ripromettendosi di
affrontarli a tempo debito, e si concentrò sul suo amico. Sperò solo che la sua
proverbiale capacità curativa si rivelasse davvero tale, ancora una volta.
25 Settembre 3019 T. E.
Non vi fu riposo per i Nani di Erebor al lavoro sul Grande
Cancello. Il cantiere procedeva più velocemente del previsto, data la
situazione critica e le brutte notizie provenienti da Osgiliath, ma mancavano
ancora un paio di settimane alla conclusione dei lavori. Di quei tempi, la
semplice porta in legno di quercia e ferro, calata provvisoriamente
sull’entrata della città, non era certo il modo migliore per tenere al sicuro
le famiglie di Minas Tirith, né gli ospiti che conteneva – nobili e civili.
I fabbri che erano scappati dalla città in rovina si erano
uniti a quelli di Thorin, cosicché la quantità di lavoro si dimezzasse per
tutti, e le fucine si riempirono come uova di altri Nani chiassosi e
volenterosi. Trán e Káel vennero spostati nell’ala riservata al Re di Erebor e
ai suoi più stretti compagni ed entrambi ne furono contenti: non solo perché
preferivano la quiete di Thorin e la compagnia dei suoi allegri nipoti, ma era
soprattutto l’ennesima dimostrazione di quel rispetto che avevano guadagnato
con il tempo e le unghie.
«Oltre al fatto che si dice che il Re Sotto la Montagna sia
un tipo parecchio geloso dei suoi gioielli... un Nano della peggior specie,
insomma.» aveva cantilenato il gemello all’orecchio della Nana, che era
diventata paonazza e aveva borbottato qualcosa contro la sua sconfinata
simpatia.
Ma Káel non si sbagliava di certo, quando diceva che Thorin
fosse geloso; neppure la sete per l’oro e la malattia che ne era conseguita
quando era tornato ad Erebor e che aveva quasi segnato la sua fine, gli aveva
insegnato che la gelosia dovesse essere impiegata a piccole dosi. E poiché Trán
era una pietra preziosa e delicata che andava protetta, non poteva certo
lasciarla in balia di un branco di Nani rozzi e puzzolenti di sudore, sebbene
nessuno di loro avrebbe osato rivolgerle la parola per il timore che il Re in
persona potesse sfuriare su di loro. Perché anche se Thorin non glielo avesse
chiesto ancora, era palese che quella stramba Nana dai capelli rossi sarebbe
stata la futura Regina di Erebor, e tutti loro preferivano tenersi la testa
attaccata al collo e sperare di poter vedere il loro matrimonio, piuttosto che
partecipare al proprio funerale, indispettendo il burbero ed orgoglioso Re.
Anche in quel momento, tra un attimo di pausa per asciugarsi
il sudore dalla fronte, Thorin aveva alzato lo sguardo verso la ragazza e non
poté frenare un sorriso nel vederla ridere e lavorare tra Fili e Kili – sperò
solo che non avessero iniziato a chiamarla zia,
come avevano minacciato la notte scorsa.
L’ora di pranzo giunse più velocemente del previsto per
tutti, troppo occupati a terminare i propri compiti per badare al rapido
movimento del sole; ma i loro stomaci, a differenza della mente, erano
decisamente più suscettibili al passare del tempo e si ritrovarono a deridersi
per i brontolii che si udivano tra una martellata e l’altra. Neppure Trán fu
esente e divenne più rossa dei suoi capelli quando i tre diavoli che le stavano
vicino si coalizzarono nuovamente contro di lei: a quanto pareva, quello era il
loro passatempo preferito.
Thorin approfittò del breve tragitto che li separava dalla
mensa per prendere sotto braccio la sua corteggiata e godere un poco della sua
vicinanza, poiché aveva bisogno della sua freschezza in un periodo pericoloso
come quello, ricco di preoccupazioni. Osservò con letizia le trecce che le
incoronavano il viso e si sentì orgoglioso nel vederle ancora ben strette come
se le avesse appena intrecciate, ma ancora più felice nel ricordarsi cosa
significassero.
«Non ti sei fermata un attimo, neanche oggi. Non sei
stanca?»
Trán parve indignata e gli pizzicò il braccio. «Non ti
permetto di insultarmi, sire Thorin Scudodiquercia. Sono in forze quanto te.
Solo affamata, direi.»
«Mi è parso di sentire qualcosa, in proposito.» replicò lui,
con un delizioso sorriso sulle labbra. «E non intendevo offendere il tuo
orgoglio, mia signora, giacché la mia
era solo preoccupazione. Non mi permetterei mai di mettere in dubbio la tua
forza d’animo e la portata del tuo braccio.»
«Oh, li conosci entrambi, mi pare di ricordare.» ridacchiò Trán,
stringendosi a lui con affetto e guardandolo con gli occhi azzurri che
brillavano di spensieratezza e divertimento. «Apprezzo però la tua
preoccupazione. D’altronde, vorrei poter ricambiare e porti la stessa domanda,
ma temo che la tua dignità sarebbe più ferita della mia, se lo facessi.»
«Vedo che impari a conoscermi.»
«Non sei così complicato, alla fine. E non tanto diverso da
me.»
Thorin rallentò il passo, lasciando che la processione di
Nani si rintanasse dentro la mensa, per fermarsi in un angolo della strada,
lontano da occhi indiscreti, e chinarsi per accarezzare lentamente quelle labbra
piccole con le sue; aveva desiderato farlo nuovamente dopo quel lieto
pomeriggio, di baciarla finché avesse avuto forza e fiato. «Comincio a detestare
questa situazione; non abbiamo avuto un singolo attimo tempo da spendere
insieme... in pace e solitudine.» Sorrise nel vederla arrossire come sempre, ma
felice di quel gesto inaspettato.
La Nana lo abbracciò, baciandolo su una guancia. «Finché
riuscirai a ritagliare un po’ di momenti come questo, non sarò certo io a
lamentarmi.»
Sentì le forti braccia di lui stringerla possessivamente contro il suo corpo, infischiandosene se fossero entrambi sudati e sporchi per il duro lavoro. In quel momento, il desiderio di sentire il calore dell’altro era talmente assordante che nient’altro aveva importanza; rimasero così, abbracciati e con gli occhi chiusi, l’uno con le labbra tra quei capelli rossi, l’altra con il viso nascosto nell’incavo tra la spalla e il collo. Tornarono sui loro passi solo quando udirono la voce di Kili che li richiamava a mangiare e di Fili che se lo trascinava nuovamente dentro l’edificio, per evitare che potesse assistere a qualcosa che gli potesse bloccare la crescita.
«Anche se, effettivamente, devi aver già visto qualcosa di
traumatizzante da piccolo, fratellino.» commentò il Nano biondo, battendogli
una mano sulla guancia coperta dal solito filo di rada barba che non voleva
crescere.
Consumarono il loro pasto con rapidità, sia per la fame sia
per la voglia di tornare al lavoro; ma non poterono lavorare per molto tempo, poiché
le campane d’allarme risuonarono per le strade, facendo ricadere nel terrore
della guerra i cittadini. I Nani uscirono dalle fucine, per tentare di capire
cosa stesse succedendo, e Thorin fu quasi investito dalla furia di un cavallo
grigio e dal suo cavaliere. Ecthirion frenò la sua corsa, scansandolo
all’ultimo momento, e ci mancò poco che il destriero lo scalzasse mentre
s’impennava, spaventato e sorpreso di quell’improvviso ostacolo.
«In nome di Durin! Che succede?» domandò il Nano, mentre l’Uomo
smontava e si massaggiava una spalla. Solo in quel momento Thorin notò che
sanguinasse.
«Il Nemico è su di noi.» disse il Secondo Comandante,
reprimendo una smorfia di dolore. «Siamo stati ingannati e ora ne pagheremo le
conseguenze.»
«Parla chiaro, Gambe Lunghe.» fece Dwalin, affiancando
l’amico insieme al fratello. «Non mi piacciono gli enigmi.»
Ecthirion grugnì qualcosa e fece cenno col capo affinché li
seguisse, per raccontare loro ciò che sapeva durante il tragitto verso la
Cittadella. Del resto, i Nani erano l’unica possibile difesa su cui poteva
contare, oltre l’esiguo numero di soldati rimasti in città, ed era bene che
sapessero e collaborassero di conseguenza. «Ho dato l’ordine di smantellare il
Primo e il Secondo Cerchio, in vista dell’attacco. Il Grande Cancello è ancora
incompiuto e non può difenderci a lungo. Le porte dei vari livelli sono robuste
ed incastonate nella roccia della montagna, ma temo che Mardil abbia pensato ad
una soluzione anche a questo problema.»
«Contava sul fattore sorpresa.» mormorò Thorin, mentre con
disappunto faticava a stare al passo lungo dell’Uomo. «E, sebbene la notizia
giunga improvvisa, non ci coglie completamente alla sprovvista. Abbiamo ancora
tempo per organizzare una difesa che non avrebbe trovato, se tu non avessi
scoperto cosa avesse in mente.»
Raggiunsero la Cittadella e vennero intercettati da Dama
Arwen, vestita ora con un paio di pantaloni argentati e una tunica del medesimo
colore; la sua spada Elfica pendeva su un fianco, così come la faretra e l’arco
erano sulla schiena dritta e fiera. «Quali notizie?»
Dopo un breve inchino, il Secondo Comandante riassunse la
situazione anche per la sua Regina e insieme iniziarono a disporre le difese
della città. Una volta svuotati i primi due livelli, i civili avrebbero trovato
rifugio dietro la quarta e quinta cerchia di mura, mentre il primo e il secondo
sarebbe stato controllato rispettivamente dai Nani e dagli Uomini: gli uni
sarebbero stati l’ottimo muro che avrebbe respinto gli Haradrim in un combattimento
corpo a corpo, gli altri si sarebbero posizionati lungo i bastioni, per
abbattere i nemici con gli archi.
Thorin non ebbe tempo di pensare al fatto che il suo istinto
gli avesse detto bene, nei confronti di quel Mardil; diede pochi ma decisi
ordini ai suoi guerrieri, per poi andare a cercare Trán, che stava risalendo
verso la sua abitazione. La prese per mano appena la trovò, prima che potesse
aprire la porta della sua abitazione e, senza lasciare la presa, Thorin la
condusse al Sesto Cerchio, in quelli che erano i suoi alloggi e quelli dei
nipoti, Balin e Dwalin. Aprì con urgenza la porta in legno, conducendola alla
sua stanza personale. Trán fu scossa da un brivido quando fu invasa dall’odore
del Nano, che aleggiava per tutta la camera.
«Rimani qui e non muoverti, per nessuna ragione.» le disse,
seriamente. «È più sicuro questo livello, piuttosto che il Quarto. Farò portare
qui anche il tuo fratello minore, affinché stiate al sicuro insieme. Ma non uscire di casa e non affacciarti
alle finestre, sono stato chiaro?» Lei annuì, guardandolo mentre si avvicinava
ad una cassapanca, per tirare fuori la sua spada Nanica. «L’ultima volta che
avevi un arma tra le mani, nel momento del bisogno, non sapevi bene come
usarla; ma nella mia vita ho avuto modo di scoprire guerrieri anche negli
esseri più piccoli e apparentemente più innocui.» La vaga ombra di un sorriso
si dipinse sulle labbra serie, ripensando al loro vecchio scassinatore. «Starò
più tranquillo se so che la terrai con te.»
Trán prese l’elsa della pesante lama con mani tremanti e
strinse le dita sul fodero in pelle, sapientemente decorato con antiche rune. «Grazie.»
Thorin accennò un vago gesto con il capo, ma lei lo fermò prima che se ne
andasse, prendendogli una mano. «Torna da me, ti prego.»
Il Nano sorrise e le accarezzò una guancia, poggiando la
fronte contro la sua, mentre una mano s’infilava tra i capelli rossi, alla base
della nuca. «Ti ho fatto una promessa, qualche giorno fa. E io mantengo sempre
la parola data: faremo rientro ad Erebor, insieme, Habanuh*.»
Chiuse gli occhi e le diede un leggero e veloce bacio sulla
fronte, sul naso, sulla guancia, infine soffermandosi teneramente sulle labbra.
Trán gli avvolse le spalle con le braccia, lasciando cadere la spada sul letto
e stringendosi a lui, temendo di lasciarlo andare e di non rivederlo più. Avevano
troppo da perdere, entrambi, e il timore che la gioia che avevano da poco
trovato potesse svanire in così poco tempo era soffocante. Ma lui non si
permise di perdersi in quel bacio desiderato eppure dal retrogusto amaro per
l’imminente battaglia, e si impose di allontanarsi, non certo senza una buona
dose di riluttanza, poiché aveva dei doveri da compiere e la sua gente e quella
di Gondor da proteggere.
Trán rimase così sola, sdraiata sul letto di Thorin e
abbracciata contro il cuscino. Inspirò profondamente l’odore che ormai aveva
imparato a riconoscere e amare, e così, coccolata da quella piacevole
familiarità della stanza del Nano, l’ansia per gli eventi funesti che stavano
giungendo su di loro sparì per qualche istante, illudendola che tutto andasse
per il meglio.
Ma sapeva bene che così non fosse. Thorin e i suoi amici
erano là fuori, a proteggere una città che non era la loro, perché il Re era in
battaglia altrove con il suo Sovrintendente, laddove anche il padre e gli altri
due fratelli combattevano; e poi c’era Brethil, lontana così tante leghe da
casa e da lei, e quasi temette di dimenticarsi il suo volto. Strinse con forza
gli occhi e il cuscino, per evitarsi di piangere. Doveva essere forte e
coraggiosa, proprio come la donna che aveva conosciuto, proprio come la
madre... proprio come la Nana che avrebbe dovuto e voluto essere, perché la
corteggiata del Re di Erebor non poteva essere certo una piagnona.
Quando Trión, accompagnato da Káel, giunse tra le sue
braccia, Trán lo baciò sul viso paffutello per farlo ridere e arrossire come sempre.
Il gemello, però, non si trattenne con loro, poiché aveva offerto la sua ascia
a difesa di Minas Tirith e non poteva tirarsi indietro. Con un sorriso, tante
raccomandazioni e un forte abbraccio, salutò i suoi fratelli e fu presto
lontano dalla loro vista.
Trán sospirò con pesantezza, sperando che tutti coloro che
amava tornassero sani e salvi a casa. Si stupì di quanto il numero si fosse
allargato, rispetto ai cinque membri della sua famiglia, e sorrise.
Arwen camminò velocemente verso il Re dei Nani, che aveva i
piedi ben piantati sul lastricato della Strada dei Lanternieri, non troppo
lontano dal Grande Cancello; accanto a lui Dwalin e Balin, con il primo folto
numero di soldati, mentre i Nipoti controllavano e dirigevano la retroguardia
sull’uscio della Seconda Porta. Con l’arco ben stretto tra le lunghe ed
affusolate dita, la Regina si fermò al suo fianco, guardando verso l’entrata
della città, come se i suoi occhi Elfici potessero vedere oltre le mura.
«I miei soldati sono i posizione, mia signora.» fece Thorin,
la voce pericolosamente bassa e che prometteva guerra e sangue. «Chiunque osi
attraversare quel cancello dovrà rendere conto ai Nani di Erebor; non si umilia
il nostro lavoro tentando di superare le nostre difese.»
Ella abbozzò un sorriso. «Ne sono sicura. Ma il Grande
Cancello è, purtroppo, ancora incompiuto e se il Nemico dovesse attraversarlo
non sarà certo per una mancanza del vostro lavoro, bensì grazie al pessimo
tempismo con cui ci attaccano. Vi chiedo quindi prudenza, poiché siete ancora
ospiti miei e di mio marito e mi rincresce che vi siate trovati in una
situazione simile.»
Balin chinò il capo. «Mia signora, la nostra presenza qui
implica un profondo legame di amicizia e alleanza; è ciò che dimostreremo
oggi.»
«Che la luce della Stella del Vespro vi protegga, amici
miei. Buona fortuna!» E così dicendo, la Regina raggiunse gli arcieri lungo il
bastione del Primo Cerchio, di cui aveva il pieno comando, e con lei Ecthirion.
Le milizie di Haradrim erano ormai visibili sul Pelennor e
il Secondo Capitano di Gondor aguzzò la vista per tentare di scorgere quello
che un tempo era il suo uomo più fidato. Mardil, in sella al suo destriero,
ironicamente ancora bardato con i simboli di Gondor, cavalcava sulla retrovia,
giacché aveva notato le difese a guardia delle mura della città e temeva di
essere ucciso prima ancora di giungere all’interno della città.
«Dannato codardo.» mormorò a denti stretti Ecthirion, che
contava i minuti che lo separavano dal momento in cui lo avrebbe punito con le
sue stesse mani.
Thorin chiuse gli occhi per qualche istante, concentrandosi
sui rumori di sottofondo, finché udì i passi ritmici e pesanti dell’esercito
che si avvicinava; fece un cenno a Káel, affinché lo seguisse, e insieme
raggiunsero l’Uomo, per constatare di persona l’entità del nemico e scorgerne
le fattezze. L’esercito era ancora lontano, per i suoi occhi, così l’altro
giovane Nano gli disse ciò che vide. Le loro divise erano scarlatte, come lo
stendardo su cui svettava un serpente nero, di spessa pelle, sopra cui si
poggiava una cotta di piastrine d’ottone, e proteggevano le parti più deboli
dei loro corpi prestanti fin troppo bene; i pochi arcieri di cui disponevano avrebbero
dovuto essere molto precisi per non sprecare le frecce. Brandivano scimitarre e
lance dalla punta rossa, come il sangue di cui si sarebbero presto macchiate, e
nell’altra mano reggevano scudi rotondi, gialli e neri, rinforzati da grossi
aculei appuntiti e probabilmente intrisi di veleno. Tornò dai suoi uomini,
riassumendo ciò che Káel aveva visto e azzardando qualche consiglio per la
difesa – sebbene lui decise di parlare di attacco, poiché gli orgogliosi e
combattivi Nani non dovevano parare i colpi, bensì affondarli.
Con una pesante mano sulla spalla fermò il fratello di Trán,
che stava tornando al fianco dei nipoti, e gliela strinse con affetto. Non ci
fu bisogno di parole per Káel, per capire cosa quel gesto volesse dire, e
ricambiò il gesto sull’altra spalla del Re, sorridendo. No, non sarebbe morto
quel giorno. Aveva una sorella a cui badare e una famiglia da proteggere.
E magari un matrimonio a cui presenziare, concluse tra sé e
sé, divertito.
Quando il giovane dei Colli Ferrosi si fu allontanato,
Thorin spostò lo sguardo su Fili e Kili, con cui aveva già avuto modo di
parlare in privato, e accennò loro un lieve movimento del capo, per dargli
coraggio e darsene a sua volta. Quando fossero tornati ad Erebor e Dís avesse
scoperto della nuova e pericolosa battaglia che avevano dovuto combattere a
Gondor, avrebbe sicuramente richiesto una volta per tutte la sua testa, per
aver messo i suoi figli nuovamente in pericolo. E Thorin iniziò persino a
credere che fosse lui ad attirare le guerre.
Mantenendosi a distanza di sicurezza dalla gittata degli
archi Gondoriani, l’esercito capeggiato da Mardil si fermò non troppo lontano
dalla città e lì rimase. Se c’era una cosa che l’Uomo sapeva fare bene era
l’attesa; aveva pianificato tutto da tanto, tantissimo tempo e molti, a
differenza sua, avrebbero rinunciato prima ancora di iniziare a vedere i
risultati, a causa della stancante attesa; e se conosceva l’animo dei guerrieri
a capo della difesa di Minas Tirith, sapeva quanto attendere li snervasse oltre
ogni modo. Non poteva certo sapere che l’esercito di Brethil stesse tornando
indietro con la stessa velocità di un Uomo inseguito da un cavallo imbizzarrito
e che ogni singolo minuto che ritardava lo allontanava dalla vittoria.
Mardil si poggiò mollemente con gli avambracci sulla sella,
osando fischiettare tranquillamente nel sentire lo sguardo penetrante e carico
di odio di Ecthirion. Lo scorse dopo qualche lungo istante di ispezione e
sorrise apertamente, mostrando i denti bianchi in contrasto con il colore
olivastro della sua pelle. Così lasciò l’esercito, fermo alle sue spalle in
attesa di ordini, e si mosse con fastidiosa lentezza verso le mura della città,
catturando subito l’attenzione di tutti, soprattutto del suo Secondo Capitano.
«Ecthirion, mio signore! E mia bellissima Regina!» li chiamò
a gran voce, accennando un inchino. «Suvvia, non aprite la porta ad un soldato
di Gondor? Porto insperati amici con me.»
«Amici?» replicò l’altro, con la voce avvelenata. «E dimmi,
da quando Gondor stringe alleanze con i Sudroni?»
domandò, calcando il disprezzo in quel nominativo dispregiativo.
«Esattamente da quando gli stessi Haradrim portano un messaggio di pace. Sono riuscito in ciò che il
nostro Re ha fallito. Lasciateci entrare e non saremo costretti a farci strada
da soli.»
Ecthirion non riuscì a non far tremare le corde vocali dalla
rabbia. «Neppure l’Oscuro Signore riuscì nell’intento di far cadere Minas
Tirith. Dubito che lo farai tu con l’esiguo manipolo di soldati che ti porti
dietro, dannata feccia! Credevi davvero che avresti potuto avere il libero
passaggio, dopo ciò che hai fatto e chi ti accompagna?»
«Oh no, certo che no.» fece allibito l’altro, scuotendo il
capo. «Anzi, speravo in una vostra strenue difesa e immaginavo che così
sarebbero andate le cose. Altrimenti il divertimento dove sarebbe stato?»
Ecthirion si mosse irrequieto. «Mia signora–» disse alla
Regina al suo fianco, con una freccia incoccata sull’arco teso. «–riuscite a
colpirlo?»
Lei non rispose, trattenendo il fiato e prendendo la mira.
Così l’Uomo tornò a replicare. «Troverai divertente anche il
momento in cui ti trapasserò il cuore a fil di spada?»
Mardil ghignò. «Mi piacerebbe vederti nel tentativo di farlo.
Sarebbe la prima volta, infatti, che tireresti fuori l’autorità che persino una
donna sfregiata è riuscita a calpestare!»
Terminò a malapena la frase, poiché il lungo arco Elfico di
Arwen, che le permetteva una gittata maggiore, aveva scagliato una freccia con
spaventosa precisione sulla spalla, facendolo gemere dal dolore e dalla
sorpresa. Ecthirion ghignò, soddisfatto, mentre quello batteva in ritirata e
gridava qualcosa in una lingua oscura e gutturale. L’esercito si mosse
immediatamente dopo e Minas Tirith si ritrovò nuovamente in guerra.
Gli arcieri iniziarono a far piovere frecce da ogni lato e
molti Haradrim caddero prima ancora di raggiungere le mura. Eppure coloro che
reggevano l’arma più potente, in quel momento, erano ben protetti da un tetto
di scudi, e il rudimentale ariete che avevano preparato in tutta fretta durante
il viaggio dal lontano Sud, s’infranse con un potente botto contro il primo
cancello in legno, rafforzato all’ultimo momento con delle spranghe di ferro.
Thorin strinse la presa su Orcrist e sullo scudo di quercia,
ben sapendo che quel debole strato non avrebbe retto per più di cinque, ben
assestati colpi. Oltre la porta in legno vi era la prima parte del vero e
proprio cancello in mithril e pietra
che i Nani di Erebor stavano fabbricando, ma non erano riusciti a montare
l’altra pesante anta, che copriva un piano di dimensioni Umane in altezza;
sarebbe stato più difficoltoso abbatterlo e quella sarebbe stata una bella
prova per provare la sua resistenza, ma il tempo correva contro di loro e
Thorin aveva ordinato di chiudere la parte mancante con qualsiasi cosa di
resistente trovassero – dalle grandi pietre di qualche cantiere a spuntoni in
legno.
In mancanza d’altro, quella era l’unica difesa su cui
potevano contare e sperò che reggesse il più a lungo possibile.
La sagoma di Minas Tirith era ormai visibile, seppur ancora
troppo lontana, ma la vicinanza delle lunghe mura del Rammas Echor le diede la
vaga impressione di essere più vicini del previsto. Eppure, la consapevolezza
di poter raggiungere la Capitale entro la fine della giornata non la sollevò,
poiché aveva voltato lo sguardo verso il fiume, laddove le rovine di Osgiliath
formavano una scura massa di pietre, e sentì il cuore farsi pesante nel vedere
il fumo di numerosi incendi innalzarsi dalla città. Si chiese come fosse andata
la battaglia, se stessero ancora combattendo, se avessero vinto o perso... se
Boromir fosse ancora vivo.
Brethil inspirò a fatica, ingoiando il fastidioso nodo alla
gola che aveva da quando aveva sentito il Corno di Gondor e ricevuto la
conferma dell’attacco con notizia giunta con gli Elfi. Aveva il brutto
presentimento che, quella volta, qualcosa sarebbe andata storta; e lei, la cui
vita era stata segnata da sogni premonitori e profezie, raramente si sbagliava.
Spronò Nerian a galoppare più velocemente di quanto già non
le stesse concedendo, ma il cavallo non oppose resistenza alcuna e aumentò il
passo, poiché egli era discendente di Rohan e come tale avrebbe reso onore alla
sua stirpe. Elladan ed Elrohir, che galoppavano ai suoi fianchi, erano
stranamente silenziosi, sebbene di tanto in tanto scambiassero qualche parola
per tirarla lontano dai cattivi pensieri. Dietro di loro vi era Legolas, ai cui
fianchi era aggrappato un indispettito Gimli, stanco di essere sballottato su
quel dannato cavallo per giorni interi.
La macabra sorpresa che trovarono al Cancello Sud della
muraglia di difesa le fece stringere i denti dalla rabbia, e lo stesso
sentimento di odio e desiderio di vendetta, contro chiunque avesse commesso
quell’orrore, s’impossessò del resto dell’esercito. Non ci fu bisogno di
ulteriori discorsi per spronare i soldati, poiché lo stimolo era tristemente
davanti ai loro occhi, e si lanciarono verso l’ultima tappa di quel lungo e
inutile viaggio con ferocia.
*
* Gemma (haban) mia (-uh)
Un caro saluto e... FREAK OUT, THE
HOBBIT IS COMING!
Dieci giorni e sclereremo tutti insieme… pronti? :)
Marta.