«Cos’è
che ha capito precisamente, secondo voi?», chiede Rain.
«Vai
a saperlo», risponde Francis.
«Com’è che dice sempre Shannon? Se non
fosse
stato un attore e un cantante adesso sarebbe in un centro di
infermità mentale».
«Mi
immagino già Bart che si dibatte arrabbiato dentro la sua
testa», dico
scuotendo la mia.
«What are you three
saying?», s’intromette
Jared, fissandoci dritte negli occhi. Noi
ci ammutoliamo sul momento. È la
prima volta che ci rivolge la parola direttamente, per tutto il
tragitto in
metro è rimasto in silenzio – come anche Shannon
– con il cappuccio in testa e
gli occhiali da sole.
«Amh…».
Purtroppo è tutto quello che esce dalla mia bocca. Dove sono
finite tutte le
mie capacità linguistiche? E questo non è un
problema di inglese, le parole
sono proprio bloccate da qualche parte nel mio cervello e non hanno
nessuna
intenzione di uscire. Gli ultimi due neuroni sopravissuti
all’incontro dei
fratelli Leto probabilmente sono in letargo. Non posso biasimarli.
«Stavamo
parlando della città», esclama Rain con una voce a
dir poco stridula. La guardo
e sgrano gli occhi. Mi chiedo che cosa abbia intenzione di inventarsi.
«E
cosa dicevate?».
«Che
siamo contente di vederla, che è molto bella».
«Tutto
qui?». Ahi, Rain non poteva essersi dimenticata che New York
era il suo posto
preferito nel mondo, giusto? «Solo molto bella? Questa
città è perfetta».
«Vorrei
farti notare che la metro è al chiuso».
«E
quindi?», è confuso e le sue sopracciglia si
avvicinano tra loro. Adorabile.
«E
quindi non posso dire molto dato che quello che visto fino ad ora sono
solo
delle mura. È la nostra prima volta, qui nella Grande
Mela», dice Rain
esasperata.
«Touché»,
sorride Jared.
«Francese,
ti pareva», mi dice Francis all’orecchio.
«Fissato»,
confermo annuendo. Mi guardo intorno, e solo voltando il busto
completamente
vedo Shannon, alcuni passi dietro di noi. «Hei, vecchietto,
non riesci a tenere
il nostro passo?», scherzo. Mi diverto troppo a farlo
innervosire facendo
frecciatine riguardo alla sua non più tenera età,
non ci posso fare niente. La
risposta pronta e seccata che di solito mi riserva, però,
tarda ad arrivare.
Nel suo viso invece si tratteggia una smorfia. Guardo Francis: anche
lei è
confusa quanto me. Ci avviciniamo un po’.
«Va
tutto bene, Shan?», chiede la mia amica.
Lui
annuisce. «Tutto bene, non preoccupatevi». Fa
qualche passo verso di noi, ma la
sua camminata e strascicata. Potrei giurare che un po’
zoppica.
«Non
vorrei contraddirti…», comincio, ma lui alza gli
occhi al cielo e mi blocca.
«Come
non fai mai, certo…».
Lo
guardo con uno sguardo di sfida e lui ammutolisce. «Stavo per
dire che non mi
sembra vada tutto bene. Tu zoppichi, Shannon».
«Non
è niente», ripete, il tono fermo.
Mi
volto verso Francis. «Io non ci credo», le dico in
italiano. «Ha qualcosa che
non va».
Lei
mi guarda qualche secondo e poi gli si avvicina. Non so con che
coraggio ma,
dopo averlo fissato per qualche secondo, si inginocchia davanti a lui e
comincia a toccargli la gamba destra. Sul volto di Shannon si dipinge
una
maschera di sorpresa e incredulità che credo sia specchio
della mia.
Lo
so che probabilmente è tutto frutto della mia mente malata,
o forse è solo
l’aria di New York che mi fa pensare a queste cose, ma, in un
primo momento, mi
chiedo se Francis non voglia farlo stare meglio utilizzando qualche
tecnica
censurata in Hurricane che non sto qui a specificare. Tossicchio fra
me: mi
faccio spavento, quando penso a queste cose. In un secondo momento
penso invece
che stia sfoderando il suo lato da medico. E ne ho la conferma quando
la sento
chiedere: «Qui ti fa male?».
Shannon
sussulta. «Jesus».
«Non
ho ancora iniziato a studiare, se non consideriamo i tomi di biologia e
chimica
per il test d’ammissione all’università,
ma il tuo ginocchio destro è gonfio.
Devi farti visitare da un medico, uno di quelli veri si
intende», dice Francis
alzandosi e rassettandosi i pantaloni.
Shannon
si porta una mano sugli occhi e rimane in quella posizione per un tempo
che mi sembra
infinito. Mi si stringe il cuore. Conosco molte cose su di loro, ogni
giorno
scopro qualcosa di nuovo attraverso un’intervista, un
servizio fotografico, un
semplice tweet. Eppure mai avrei pensato di poter vedere sul serio la
loro
sofferenza. A volte tendiamo a dimenticarcelo che anche loro, le
persone che
seguiamo come se fossero dei messia, come se fossero degli dei
– i nostri dei –
sono umani, e provano dolore. A volte tendiamo a dimenticarcelo che le
canzoni
che noi ascoltiamo la mattina andando a scuola seduti sul sellino
gelido di un
autobus, sono spesso frutto di quel dolore che li trafigge e che noi
non
possiamo conoscere. Ci è off limits. E invece ora ce
l’ho proprio davanti agli
occhi, il suo star male.
Francis
gli si avvicina e, come se fosse la cosa più giusta da fare,
lo abbraccia. In un
primo momento vedo Shannon irrigidirsi. Poi, come se improvvisamente
avesse
capito che quello era esattamente quello di cui aveva bisogno, la
stringe a sé.
«Appena torniamo a casa ci vado», lo sento dire.
«Domani,
devi andarci domani. Quel ginocchio ti serve».
Lui
scioglie l’abbraccio e la guarda, e guarda anche me. Tace per
qualche secondo, si
sistema la custodia con la chitarra sulla spalla, poi prende un grosso
respiro.
«Ho paura. Come dici tu, quel fottuto ginocchio mi serve.
Come diavolo suono
Christine, altrimenti?». Una parte di me non ci crede, ma ho
appena sentito dire
a Shannon Leto che ha paura. L’ha detto a noi, delle ragazze
che fondamentalmente
lo tormentano da giorni.
Una
forza che proviene da dentro mi spinge ad avvicinarmi a loro.
«Lo so che fa
paura, le novità spaventano sempre, ma tu devi andare dal
medico. Possiamo venire
con te, se vuoi. Sicuramente Jared lo farà, se gli spieghi
la situazione».
«Che
cos’è che deve spiegarmi?». La voce di
Jared suona alle mie spalle, ed è
proprio lì che lo trovo quando mi volto, intento ad
osservare me, suo fratello
e Francis. Dev’essere sicuramente stato attratto
dall’abbraccio della mia
amica, per aver abbandonato l’animata conversazione che stava
facendo con Rain.
Guardo
Shannon e gli sorrido. Se potessi gli stringerei la mano, per dirgli
che io e i
milioni di echelon ancora ignari del suo ginocchio, sono con lui,
pronto a
sostenerlo in qualsiasi momento. Lui annuisce a me e Francis e prende
un
respiro. «Sto diventando vecchio, Jared, ecco cosa
c’è».
«No
warning sign, no alibi, we’re fading faster than the speed of
light».
Jared canta con gli
occhi chiusi, la chitarra posizionata stancamente
sulla gamba. È seduto su una fontana al centro di una
piccola piazza che, a
giudicare del via vai di gente, deve essere abbastanza in centro. «Took
our
chance, crashed and burned, no we’ll never ever
learn». Shannon
affianco a lui lo accompagna, suonando
delle note delicate che rendono la situazione irreale. Ci sono loro, io
e le
mie amiche, e un piccolo gruppo di persone alle nostre spalle. «I fell apart, but got back up
again». Apro
gli occhi nell’esatto istante in cui Jared e Shannon si
guardano e poi, come se
fossero chiusi in una bolla e non con decine di persone davanti, si
sorridono. Mi
scende una lacrima, e non solo perché quella canzone per me
ha fatto tanto,
perché mi ha insegnato a non arrendermi, a rialzarmi e
andare avanti nonostante
tutto, ma perché so che loro due ci saranno sempre:
l’uno per l’altro, per me,
per le persone alle mie spalle. So che saranno sempre sinceri, so che
mi
insegneranno ancora molto.
Sento
che Francis alla mia destra mi stringe la mano, così mi
volto a guardarla:
piange anche lei. Le sorrido, la scavalco con lo sguardo, e faccio lo
stesso
con Rain. È un sogno?,
lo so che lo
stanno pensando anche loro, quindi scuoto la testa. «Non
è un sogno. Siamo qui,
stiamo ascoltando Alibi», dico a me stessa e a loro.
«…the
battle is the only way we feel alive», continua Jared. Quanto abbiamo combattuto noi, nelle nostre
vite? Quante battaglie abbiamo superato?, non senza cicatrici, certo,
ma le
abbiamo superate. Quante dovremmo combatterne, in futuro? Chi lo sa.
Intanto ci
rimangono i sogni, ci rimangono gli amici, ci rimane la speranza, ci
rimane l’amore,
ci rimane la fortuna, ci rimane quel desiderio di essere sempre
migliori, di
reinventarci, di cambiare e di amare, di essere amati, di scoprire e
viaggiare
e imparare.
Il
mio sguardo incrocia quello di Jared, e non lo so perché lo
faccio, non so
nemmeno se quello che faccio abbia un senso, se lui lo
capirà, ma sussurro un «Grazie»
e lui alza gli angoli delle labbra. Magari quando saremo tornate a casa
lui si
sarò scordato dei nostri nomi, ma io non
dimenticherò mai che cosa mi ha detto
con quel sorriso. Mi ha detto che sì, posso farcela. Che
sì, devo continuarci a
crederci. Nei miei sogni, in me stessa, in lui. Perché sa
cosa significa
soffrire, sa cosa significa piangere di notte e farlo così
tanto da non
riuscirci più dopo un po’, sa cosa significa
volere bene alle persone ma non
riuscire a comunicarlo. Lui sa, sa chi si sono e che cosa provo, ma
sì, mi ha
detto che sì, non sono da sola.
Sorrido,
ancora. Ringrazierò per sempre Dio, o chi per lui, per
avermi fatto sentire le
parole «sapevamo che avresti detto sì, quindi i
soldi del biglietto li abbiamo
anticipati noi», per avermi fatto accettare quel pazzo
viaggio dall’altra parte
del mondo.
È
terribile, nel mio modesto parere. E sono pure in un ritardo
imperdonabile. Ma voi
perdonatemi lo stesso, vi prego. E lo so che questa è nata
come una storia
comica, ma la vita non lo è quindi sì, ogni tanto
mi va di inserirci delle cose
tristi/lacrimose, spero piacciano anche a voi. A presto, Deb.