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Autore: Claire DeLune    08/12/2013    4 recensioni
Cosa succederebbe se tra Haruka e Rin non ci fosse solo una competizione sportiva, ma anche una amorosa?
Cosa succederebbe se ci fosse un quinto elemento strettamente collegato al passato dei componenti di quel club di nuoto delle elementari? Una ragazza.
E cosa succederebbe se quella ragazza fossi tu?
Ecco l'entrata in scena di un nuovo personaggio molto vicino ai protagonisti, tanto da esserlo lei stessa. Questa ragazza, cresciuta con loro, non ha un nome o un aspetto preciso, perché lei sei proprio tu: la lettrice. E come tale, nella tua mente, lei assumerà il nome e l'aspetta che ognuna preferisce.
҉
(LA STORIA è AMBIENTATA DUE ANNI PRIMA RISPETTO ALL'ORIGINALE, SICCOME MI SONO BASATA SULLA DATA DI PUBBLICAZIONE DELLA LIGHT NOVEL HIGH☆SPEED. POSSIBILE OOC E CAMBIAMENTO DI RATING)
Per chi volesse ricevere avvisi di aggiornamento, specificatelo pure tra le recensioni/commenti. Sarò felice di accontentarvi :)
Genere: Commedia, Sportivo, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Haruka Nanase, Nuovo personaggio, Rin Matsuoka, Sorpresa
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Legame a Idrogeno'
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10.

Tempesta non solo d’acqua

 

   Una cacofonia ripetitiva e petulante, ridotta in uno strillo finale, lo tartassa in un angario soffocante, vessante, rovinando la beatitudine del mare dei suoi sogni in uno tsunami di incubi senza volto, ma caratterizzati dalla stessa agognante voce, così simile a quella del suo migliore amico dai sorridenti occhi smeraldini, eppure così distorta da interrompere il suo sonno tormentato per inseguirlo anche da sveglio.

   Libera appena le iridi indaco, udendo di nuovo quell’urlo sussurrato, composto da sole tre note piane.

   “Rei!”.

   Makoto?

   Si mette a sedere incurante del peso puerile che gli grava sulla spina dorsale indolenzendogliela un poco.

   “Haru-chan?”, lo interpella un tono impastato dalla stanchezza. Peter Pan si sfrega col pugno serrato i delicati petali di rosa che sono i suoi occhi.

   “Hai sentito?”, replica l’altro, fissando la lampo della tenda chiusa come se potesse vederci attraverso.

   “Sentito cosa?”, sbadiglia.

   “Quella voce”. Dà uno scossone alla zip, così da esporsi a quell’acquazzone, che per ringraziarlo del suo sacrificio, gli dona una profonda sfumatura mirtillo ai lisci capelli foschi, e, chiamando sostenuto il nome del coscritto, si avvicina alla tenda verde prato. Notandola aperta, posa un palmo sul materassino da campeggio, “E’ ancora caldo”, professa più a se medesimo che a Nagisa.

   “Uh? Sono spariti?”, domanda il biondo ancora rimbambito dal sopore della fase REM, “Saranno andati in bagno?”.

   Il vento alita poderoso, fustigando il viso dei due ragazzi con fruste di capelli, pallottole piovane e spruzzi si spuma salmastra. Haruka cerca di ripararsi invano, parandosi il volto con il braccio, mentre studia l’oceano in burrasca colmato da un fausto presentimento. Strabuzza lo sguardo quando un lampo illumina fulmineo la distesa mortifera: li ha visti. Vede Rei agitarsi, spingersi verso il cielo avido d’ossigeno con le palpebre serrate, gridando aiuto ed inghiottendo inevitabilmente grandi quantità d’acqua salata; vede Makoto prendere disperate boccate d’aria, inabissarsi tra grattacieli d’onde per evitarne il risucchio, aprirsi varchi tramite bracciate possenti; lo vede bloccarsi improvvisamente, ma non riesce a scorgere le sue iridi vitree. Le stesse davanti le quali stanno scorrendo stralci di un vecchio film bianconero, ingiallito dalla trascuranza di quella pellicola di memoria, a cui si è aggiunto un pallido viso storpiato dal terrore, rendendo quel video di nuovo a colori.

   “Quello è…”, Nagisa non osa pronunciare il nome del ragazzo che in punta di piedi sta entrando prepotentemente nel suo cuore, incidendolo con il proprio marchio di fabbrica.

   “Contatta Amakata-sensei!”, gli urla il senpai moro, strappandosi in corsa la maglia di una taglia più grande per gettarsi in mare aperto.

   Il pinguino assume un’espressione determinata che lo spinge a seguirlo, eseguendo i medesimi gesti, “Aspetta, Haru-chan! Non è sicuro andare da solo!”.

   Il corvino lo distanzia di qualche metro, raggiunge Makoto e lo afferra da sotto le ascelle.

   “Vado a predere Rei-chan!”, lo informa il sauro, nuotando verso il turchino, “Rei-chan, arrivo!”. Sta per mettere in pratica ciò che ha appreso al corso di primo soccorso, quando un’ombra lo sovrasta interamente, si volta di scatto, sbiancando alla vista di un muro d’acqua notevolmente più augusto degli altri che sta per crollare su di loro, “Oh, no!”.

 

   Se non fosse per lo scrosciare continuo di gocce dolci che precipitano violente sulle piante e sulle finestre, e per il rimbombo sordo di tuoni in lontananza, regnerebbe la pace. Quell’idillio che solo la notte conosce, fatto dell’impercettibile, incomprensibile silenzio assoluto dei dormienti. Silenzio di cui solo gli svegli si accorgono, e lui lo è.

   Mezzo-addormentato si desta, abbastanza vicino a quell’incubo da sentirne le voci imploranti e impaurite, abbastanza lucido da ignorarle perché non altro che questo: un sogno. 

   La radiosveglia sul comodino al suo fianco annuncia in fasci di luce al neon l’orario: le 2.06 e 19 secondi del mattino. Il suo sguardo ancora assopito si posa sulla pioggia che picchietta insistentemente sul vetro oltre la tenda; poi si lascia cadere nelle lenzuola, rigirandosi più volte, implorando Hypnos di farlo ripiombare in un sonno profondo in cui, possibilmente, i suoi figli, Morfeo e Phobetor, non possano interferire nuovamente con sadici giochetti freudiani. 

   Non gli è favorevole.

   Si alza dal letto, soffocando un’imprecazione, si mette una felpa della Samezuka sopra la canotta e i pantaloni della tuta, e si chiude la porta della camera d’albergo alle spalle, attento a non svegliare il suo abituale compagno di stanza Nitori.

   Scende alla hall, si affaccia alla vetrata che dà sul sentiero biforcato all’ingresso, che da una parte conduce al centro sportivo e ai resort e dall’altra al mare, si copre alla bell’e meglio la testa con il cappuccio ed esce sotto il maltempo. Senza meta, imbocca la prima diramazione, arriva al minimarket, però, al posto di andare in piscina, si dirige al tuo appartamento. Si arresta di colpo, rammentando di non sapere di preciso dove si trovi il tuo alloggio, ma, soprattutto, perché si accorge di una figura sottile, minuta, prostrata al suolo con un’espressione dolorante dipinta in viso, vicino alla quale giace un ombrello rovesciato e aperto.

   “_______!”, sbotta, riconoscendoti ed inginocchiandotisi accanto, “Sei ferita?”.

   “Sono solo scivolata”, rantoli.

   “Riesci a camminare?”, chiede, cingendoti intorno alla vita, mentre con la mano libera guida il tuo braccio a circondargli il collo per sostenerti. 

   Ti solleva da terra, però, come poggi la pianta del piede sul selciato, ti scappa un gridolino sommesso; ti riappoggia al suolo, riparandoti col suo corpo, si toglie la felpa e te la porge.

   “E tu?”, protesti.

   “Mettila”.

   Esegui. Allacci l’indumento fin sopra il naso, beandoti del calore rubato al suo proprietario, tiri indietro le maniche troppo lunghe per le tue braccine, evitando di far uscire le dita infreddolite, e Rin ruota di 180°, offrendoti la schiena come appoggio su cui salire, così da scappare in cerca di riparo il più velocemente possibile. Dopo qualche secondo, ti issi alle spalle del ragazzo e quest’ultimo ti posa i palmi sotto le cosce, tenendoti salda a sé.

   Corre al centro sportivo, unico luogo in cui potreste trovare degli asciugamani e dei phon, mediante i quali scrollarvi via almeno parte dell’acqua assorbita. 

   Apre la porta-finestra, fortunatamente sbloccata, raggiunge gli spogliatoi e ti lascia scivolare a sedere su una panca; va al suo armadietto, conscio di conservarvi al suo interno una sacca di riserva con panni immacolati, abiti di ricambio e detergenti da bagno; torna da te, apre il borsone, e nel farlo si piega in avanti, sfiorandoti coi capelli inumiditi, dai quali evapora un profumo soave di shampoo al tè verde - gel che lo intravedi posare sulla panchina, mentre svuota il contenuto della borsa -; ti butta un telo sul capo, costringendoti in una fulminea eclissi.

   Va ad aprire uno degli sciacquoni delle docce, per poi metterci sotto un palmo, al fine di sentire se l’acqua sia diventata almeno tiepida, “Togliti quei vestiti bagnati e vieni a farti una doccia calda, o ti prenderai un accidente. Stavolta non ci sarà la minestrina di mia madre”.

   “Puoi sempre prepararmela tu”, ironizzi per nascondere l’imbarazzo che ti provoca l’idea che Rin ti veda senza veli, “Alle ragazze piacciono i ragazzi che sanno cucinare”.

   E’ una frecciatina?, si domanda se tu lo stia volutamente paragonando ad Haruka. 

   Nota la sfumatura rossastra, quasi invisibile per l’oscurità del temporale, che ti colora il viso e sogghigna, “Non ti preoccupare: non ti guardo”. Ritorna alla panca, setacciando tra i vestiti qualcosa di abbastanza comodo da rifilarti. 

   Ti assicuri che non sbirci e, quando vedi che ti dà le spalle, affranchi ad un attaccapanni gli shorts, il top, la sua felpa e, con remora, la tua biancheria intima che, oltre al reggiseno [tinta unita], è composta anche da una culotte brasiliana in pizzo della medesima tonalità - sotto una certa luce sei sollevata che in un’occasione come questa tu stia portando della lingerie accettabile agli occhi di un maschio, seppure non esageratamente accattivante, ma dall’altra ti mette a disagio il pensiero che il giovane la veda. Va contro al tuo archetipo di pudore.

   Scuoti la testa per scacciare i trip mentali e ti lasci avvolgere dall’abbraccio cheto del getto d’acqua bollente. Afferri dall’urna davanti a te il bagnoschiuma e lo shampoo, che il cinabro vi ha lasciato in precedenza, e t’insaponi integralmente, massaggiando accuratamente il cuoio capelluto che adesso sa dello stesso aroma di quello di Rin. 

   Rimani a lasciarti coccolare dalla pioggia cocente per una buona mezz’ora, prima di chiudere riluttante il rubinetto e fasciarti gocciolante nell’asciugamano; torni nello spogliatoio, strizzandoti i capelli, cercando di celare al meglio le tue grazie, mentre lo squalo ti sorpassa con un sorriso sghembo. Ti strappa di mano i prodotti della doccia, stampandoti un bacio in fronte.

   “Ti ho lasciato una maglietta”, senti la sua voce distorta dal fragore della doccia, “Ti andrà larga, ma è sempre meglio di niente”.

   La prendi per due lembi, spiegandola totalmente: ti andrà sicuramente larghissima, Ma almeno coprirà la mia nudità. Dopotutto la tua biancheria è madida. 

   Riponi il resto dei tuoi vestiti in un sacchettino di plastica che il ragazzo ti ha gentilmente lasciato vicino ad essi.

   Quando Rin fa capolino nella stanza, sfregandosi un asciugamano in testa, avvampi, notando che non porta altro che un paio di boxer grigi con le cuciture navy-blue che lasciano ben poco all’immaginazione.

   Metà dei suoi compagni di squadra saranno diventati gay a causa sua.

   Abbassi gli occhi sul pavimento, trovando improvvisamente interessante lo smalto [colore] delle tue unghie dei piedi, “Grazie per la maglietta”.

   “Di niente”, dice, infilandosi i pantaloni della tua ed una felpa senza lampo.

   Come può essere così sexy anche con qualcosa di così coprente?!, ti osserva di sottecchi con indosso la sua t-shirt decisamente troppo grande per te, mentre recupera un phon portatile, “Vieni?”, te lo mostra, per poi farti strada agli specchi con le prese elettrice, lo attacca e te lo tende.

   “Vai prima tu: hai i capelli più corti, ci impieghi di meno”.

   Inarca un sopracciglio per aver sminuito la sua galanteria e regola l’intensità della folata al massimo prima di accendere l’interruttore. Ogni tanto di punta l’elettrodomestico in faccia giusto per farti un dispetto e ridacchia.

   Quando ha finito ti porge il phon con cui sventoli i capelli. Tracci la riga a/in [zona della testa] con la spazzola, che, però, Rin ti toglie di mano al fine di snodarteli lui stesso, intenerito da una consuetudine passata, risalente a quando lui e Gou erano bambini e le pettinava la lunga chioma cardinale, perché la sorella era ancora troppo piccola per sapersi preparare da sola in tempo. Lo lasci fare, deliziandoti del suo tocco delicato, ma soprattutto della sua espressione tanto dolce quanto rilassata.

   Tornate ai vostri effetti personali e vi risedete sulla panchina. Il rosso ti prende la caviglia alla quale ti sei fatta male, appoggia il tallone alla propria cosca e comincia a massaggiartela, ruotandola, tirandola, spingendola, accarezzandoti la pianta del piede su cui disegna piccoli cerchi concentrici coi pollici.

   “E’ solo una storta”, sentenzia, smettendo di torturare la zona dolorante, per sfiorarti verticalmente la pelle liscia e già lievemente abbronzata dello stinco, “Cosa ci facevi fuori a quest’ora sotto il temporale?”, pone scettico.

   Chini il capo, non volendo rivelare il motivo del tuo sonnambulismo, “Potrei farti la stessa domanda”.

   “Non riuscivo a chiudere occhio”. E’ una mezza verità.

   Ti fissa come per spronarti: è il tuo turno.

   “Avevo una bruttissima sensazione. Un presentimento”.

   “Un presentimento?”, chiede, riscontrando nelle tue parole lo spezzone omesso dalle sue.

   “Non so spiegartelo. So solo che è stato orribile”.

   “Non ci pensare”, conclude, continuando ad accarezzarti la gamba.

   Broooom!

   Sobbalzi tremante come una foglia.

   “_______?”.

   Un altro rombo.

   Il meteo sta peggiorando. Trasalisci di nuovo.

   “Hai ancora paura dei tuoni?”. Non è questo. E’ colpa della situazione: l’incubo, l’oscurità, il maltempo. Lampi e tuoni sono solo lo sconvolgente coronamento di un quadro di un artista del macabro.

   Al terzo sussulto, Rin afferra i lembi terminali della sua felpa e la amplia su di te, inglobandoti totalmente - eccetto per la testa che spunta dalla scollatura -; leva le braccia dalle maniche e ti sfrega le mani sugli avambracci per calmarti. Il contatto con il tepore del suo petto nudo e il suo stringimento ti infondono la sicurezza necessaria ad acquietarti un poco, sebbene serri le palpebre all’ennesimo rimbombo.

   “Ci sono qua io”, ti abbraccia da sotto la felpa, “Ti va di ascoltare un po’ di musica?”.

   Annuisci instabile.

   Il Borgogna ripone un braccio nella manica e prende il suo iPod da una delle tasche della sacca, lo nasconde tra il tessuto della felpa, srotola le cuffie, te le infila in entrambe le orecchie e clicca riproduzione casuale


Und noch ein Tag vergeht,
doch nicht mit dir,
auch wenn du weg bist,
bleibt ein Teil noch hier.

   Anche se te ne sei andato, una parte di te rimane ancora qui.

   Sollevi il volto verso quello del giovane che ti guarda con molta serietà e, data l’impellenza dei suoi sentimenti, preme docilmente le labbra tiepide sulla tue, mettendo fine a quell’infinito gioco di occhiate fuggevoli, speranzose di trovare nell’altro il coraggio di fare qualcosa che ambedue desideravate ardentemente. Gli Yamana definiscono questo tipo sguardo mamihlapinatapai

   Il pescecane non pretende alcuna risposta, tuttavia essa non tarda molto ad arrivare. Schiudendo i margini della bocca, permetti alle estremità delle vostre lingue di baciarsi a loro volta, ritrovandosi in un atto spontaneo e naturale capace di donare una spensieratezza che neppure con Haruka, per quanto sia eterea la vostra intesa, si è palesata. Rin è sempre stato l’unico in grado di far svanire tutto ciò che ti circonda, per portarti con sé alla deriva di mondi sconosciuti, lontano persino dai tuoi timori più infantili.

   Lo squalo si stacca da quell'incorruttibile tormentoso bacio, fatto di morsi e risucchi trattenuti per troppo tempo, e ti sorride a fior di labbra, prima di conceder loro un ultimo schiocco di commiato e passare a posarsi morbido sulla tua fronte. 

   I suoi occhi di corallo vengono attirati dal picchiettio esterno all’edificio. 

   Posa il mento tra i tuoi capelli, “Ci toccherà stare qui per stanotte”.

   Mugugni in assenso, “Non abbiamo nemmeno l’ombrello”.

   “Già”.

   “Dormiamo?”.

   Vi regalate un sorriso stanco, vi sdraiate sulla panchina dello spogliatoio con la felpa e il vostro abbraccio come unica coperta.; appoggi una guancia all’altezza del cuore di Rin, rannicchiandoti sotto la scollatura dell’indumento.

   “Rin?”, bisbigli. Il suo respiro è regolare. Forse sta già dormendo.

   “Sì?”, biascica esausto.

   “Me la fai ascoltare ancora una volta?”.

   Sorride, collocando una cuffia bianca nel tuo orecchio e l’altra nel suo per capire quale canzone scelta dal destino ti piaccia tanto.

 

Wollt nur wissen,
wie´s dir geht,
bist du allein?

Voglio solo sapere come stai. Sei solo?  

    

   I piedi sprofondano confortati nello strato farinoso di sabbia ingrigita dal clima notturno acquifero; arrancano per non far cedere l’intera struttura, propria e quella dell’incosciente che sorregge, a terra. Il fiato è affannoso, stremato, consumato dall’angoscia e dalla fatica.

   Al limite delle forze, il corvino lascia cadere il corpo inerme dell’amico sui zigrinati granelli di ruvida rena, che appare così soffice dopo l’assaggio della perenta, e casca sulle ginocchia al suo fianco. 

   Confuso, scuote le membra di Makoto, chiamandolo a gran voce, “Svegliati!”.

   Fissa il suo volto annebbiato, inespressivo. Farraginoso percorre con lo sguardo la sua figura, cercando di capire perché non apra gli occhi, perché non si muova, perché non risponda. Deve fare qualcosa. Deve cercare aiuto.

   Si guarda intorno sconclusionato, “Qualcuno… C’è nessuno?!”. Solo adesso la sua mente caotica rievoca altri due nomi… Dove sono?, “Nagisa?! Rei!”.

   Cosa faccio? Cosa faccio? Pensa, Haru, ragiona. Cosa hai imparato al corso per bagnini?

   Il battito.

   Accosta un orecchio al petto dell’amico, C’è.

   Forse è ferito, No.

   Il respiro.

   Si avvicina il più possibile alla bocca del castano per assicurarsi che i polmoni funzionino, E’ così debole…

   Un strascico di luce lampeggia per un secondo nella coltre di nuvole uggiose e nella mente del giovanissimo soccorritore.

   Respirazione bocca a bocca e massaggio cardiaco.

   Raddrizza il viso del bruno, lo afferra per il mento e il setto nasale, aprendogli maggiormente la cavità orale, prende un respiro profondo e si accosta alle sue labbra; sta per appoggiarcisi sopra e sbuffargli dentro l’aria, quando qualcosa sotto di lui si muove.

   L’orca rantola su un fianco, raggomitolandosi in posizione fetale, e, stringendosi con le braccia al ventre, sputa sonoramente fuori un rivolo d’acqua salmastra.

   “Makoto!”, strepita il delfino, “Makoto!”, ripete rincuorato, mentre l’altro apre gli occhi, nonostante siano ridotti in due fessure spiritate.

   Lo scruta con la vista ancora appannata, “Haruka…”.

   “Stai bene?”, domanda l’altro apprensivo.

   “Dove siamo?”, fatica a parlare: la gola brucia di dolore.

   “Credo che siamo su Sukishima, l’isola difronte alle tende”.

   Il capitano balza seduto, Rei!

   “Dov’è Rei? Rei!”.

   Sta per alzarsi, ma Haruka lo sblocca, tenendolo giù per le spalle, “Non dovresti andartene in giro! Devi riposare!”.

   “Ma Rei è in difficoltà!”, lo stringe intorno al braccio, intento a scrollarselo di dosso, così da andare a cercare il kohai lui stesso.

   “Ci sta pensando Nagisa!”, aumenta la presa, “Non devi preoccuparti”.

   “Nagisa?”, E’ rimasto coinvolto anche il piccoletto…

   

   In una baia poco più ad ovest della stessa isoletta sperduta, l’erosione secolare dell’acqua ha scavato nella scogliera una piccola grotta, in cui i due studenti del primo anno si sono rifugiati.

   Rei, strabordante di senso di colpa e inquietudine, si tiene il volto emaciato tra le mani, come per contenere la suggestione che minaccia di inondarlo di attacchi di panico.

   Nagisa, ancora esposto alla pioggia, raccoglie la tavoletta galleggiante alla deriva, per poi riportarla all’amico, al quale rivolge un sorriso rinvigorente per confortarlo, ma anche per celare il proprio turbamento, dovuto a ben altro di più debilitante che lo opprime da quando lo conosce. E’ un comportamento intrinseco in lui: nascondere tutto dietro ad un sorriso raggiante. Tutti hanno problemi, perciò i suoi non devono trasparire.

   Da quando ha incrociato le sue iridi di quarzo su quelle ametista del turchino, da quando ha perso il primo battito, non fa che pensare a lui, a come vorrebbe che lo guardasse con le stesse occhiate che le sue sorelle e i loro fidanzati si rivolgono - eccetto una che ha una compagna -, ma ha paura. Paura che i suoi genitori non accettino una relazione simile, sebbene ce ne sia già una in casa, siccome lui è il figlioletto maschio; paura di esporsi per quello che è davvero; paura che stare con un compagno di classe e club sia estenuante ed insopportabile in caso di rottura. 

   Paura che Rei non ricambi.

   E quindi sorride, come fa ora tendendo all’altro la tavoletta azzurra, perché lui è quello spensierato. E’ questo il suo ruolo. E’ questa la sua maschera.

   “Tieni, Rei-chan”.

   L’occhialuto si scopre il viso, osservandolo stralunato, ed afferra il galleggiante, “Grazie mille”. Con quelle parole vorrebbe esprimere tutto ciò che la sua psiche grida. Tutte le scuse, tutta la gratitudine per aver rischiato la propria vita al fine di salvare la sua. Nessuna voce del suo dizionario è abbastanza colta per permetterglielo.

   “Stai bene?”, chiede Nagisa, premurato solo di questo.

   “Sì”, gli mente, per poi ripetere per l’ennesima volta che è molto dispiaciuto.

   “Va tutto bene”, replica il biondo, consapevole che non sia la verità.

   “Ma è colpa mia se tutti…”, l’ex-saltatore si accartoccia su se stesso.

   “Questo può aspettare. Adesso dovremmo andare a cercare gli altri”.

   Il turchino fissa l’oceano ben lontano dall’acquietarsi, impaurito dal stremante quesito sulla sopravvivenza dei senpai.

   “Sono certo che stiano bene”, recita la sua connaturale parte il pinguino.

   “Ma…”, Rei corruga la fronte, “Ho visto Makoto-senpai venire ad aiutarmi…”, l’espressione vuota del capitano gli si rimaterializza nella retina, “… ma non sembrava se stesso”.

   E in effetti in quel momento non era in sé…

   “Ti sei calmato?”, pone Haruka al ragazzone seduto alla sua sinistra dopo un periodo interminabile di silenzio, inermi sotto al cornicione della scogliera come unico riparo.

   “Sì”, si limita a dire il castano senza sostenere il suo sguardo.

   Anche il moro interrompe il contatto visivo, intrecciandolo con la sabbia tra le sue dita dei piedi, “Hai ancora paura dell’oceano, non è così?”.

   “Credevo di averla superata”, risponde l’altro in un filo di voce, “Ma quando ho visto Rei che annegava, mi sono bloccato”, si porta la grande mano al volto, adombrandolo quasi per intero, “Il ricordo di quel giorno è riemerso immediatamente”.

   Il corvino lo scruta in tralice dai suoi bulbi di zaffiro che esprimono un esasperato dubbio.

   Qualcosa di bianco fluttua sulla distesa d’acqua autunnale, si inabissa e riemerge seguendo il moto cinetico del fiume.

   E’ la sua sciarpa!, rammenta l’undicenne con gli occhi d’oceano estivo, guardando il collo denudato dell’amica sulla bicicletta al suo fianco.

   Smonta dalla sella in direzione della sciarpa, Non è tanto lontana. Se mi appoggio a quel masso dovrei recuperarla senza problemi.

   “Dove vai?”, lo interpella la bambina.

   “La tua sciarpa è nel fiume, vado a prenderla”.

   “No!”, strepita lei, scendendo dal veicolo a due ruote, “E’ pericoloso!”.

   Il giovanotto non l’ascolta, troppo preso dalla sua missione - vorrebbe così tanto fare colpo su di lei e questa è la sua occasione, soprattutto ora che si è presentato un indesiderato rivale dai capelli porpora -; si approssima alla riva sdrucciolevole, facendo attenzione a dove mette i piedi. Improvvisamente un attacco di vertigini prende il sopravvento su di lui; il suo corpo si sbilancia e, avendo a mala pena il tempo di pensare a cosa sta accadendo, la vista gli si oscura in disordinate strisce di colore. Fino ad un attimo prima poteva giurare di sentire l’erba soffice e un po’ di pietrisco sotto le suole delle scarpe, ma ora avverte solo il vuoto, seguito da un fastidioso senso di bagnato, accompagnato da un sonoro splash.

   Ode la voce della coetanea gridare il suo nome al vento, mentre la propria mente gli urla allarmata che si trova nel gelido fiume di novembre. L’acqua gli arriva a metà del busto, intorpidendogli i sensi. Con una mano afferra uno scoglio vicino alla riva, con l’altra la sciarpa bianca diventata beige, rovinata dalla fanghiglia. Arranca fuori dall’acquitrino, strisciando sui gomiti e, una volta raggiunta la terraferma, vi si lascia cadere sopra a peso morto.

   Ciò che accadde nello stralcio di tempo dallo svenimento al suo arrivo in ospedale è solo un buco nero, se non per alcune immagini ricostruite da frammenti di memoria dei suoi amici. ______ aveva chiamato l’ambulanza e la bisnonna di Haruka, mentre Makoto e Rin, passati di lì per caso, lo avevano soccorso ad uscire completamente dall’acqua, avevano percorso con lui il tragitto in ambulanza ed avevano atteso lì fino al suo risveglio nella stanza dov’era ricoverato, luogo in cui poi tu stessa li avevi raggiunti un paio d’ore dopo circa.

   “Mi dispiace di averti trascinato in questa situazione”, l’orca lo strappa dal suo remuginio. 

   “Non è colpa tua”.

   “Io ho deciso di organizzare il campo”, Sono il capitano, la responsabilità è mia, “Ed ho scelto di aprire il club di nuoto. L’ho fatto perché volevo nuotare di nuovo con te. Volevo di nuovo partecipare ad una staffetta con tutti”, si osserva le mani ancora pulsanti, “Ma se non ci sei tu…”, rivolge all’amico una profonda occhiata, che al primo impatto Haruka non comprende, “Non ha senso senza di te. Io voglio nuotare con te!”.

   Le loro iridi tremolano. E’ la prima volta che Makoto esprime sinceramente un suo desiderio, preoccupandosi soltanto di se stesso.

   Il moro non sa cosa rispondere, ma lo strepitio di una voce conosciuta, spesso fastidiosa che al momento è terribilmente agoniata e gradita, lo salva in corner, “Ah, eccoli! Haru-chan, Mako-chan!”.

   “Rei!”, si desta il castano, “Nagisa!”, si avvicina a loro, “Meno male che state bene entrambi”, si incupisce nuovamente, “Rei, mi dispiace di non essere riuscito a salvarti”.

   “Non dirlo nemmeno!”, lo interrompe l’interpellato, inchinandosi, “Sono io quello che dovrebbe scusarsi”.

   Il senpai bruno inclina il capo di lato con un sorriso accondiscendente appena accennato, “Va tutto bene. Sono solo felice che sia illeso”.

   Il delfino iracondo, rimasto qualche passo indietro rispetto all’allegra rimpatriata, dissente freddamente con austerità, “Non va bene”, la sua mimica è dura, diretta, scostante, come se il nuovo acquisto in questo momento non sia altro che un’odiata forma d’indecisione a un limite che non riesce a risolvere, “Perché stavi nuotando nell’oceano di notte?”.

   Il sauro si rivolge al turchino, tentando di sedare gli animi, “Ti stavi allenando, vero?”, si appella al più veloce dei nuotatori, “Vuole mettersi in pari con tutti noi”.

   Il viso del corvino si distende stupito, quando il bruco in crisalide annuisce.

   “Inontre, Rei-chan non è l’unico colpevole”, continua Nagisa, alza l’indice come una maestrina puntigliosa, “Mako-chan, non avresti dovuto cercare di salvarlo da solo! Haru-chan, tu ti sei tuffato in acqua senza pensare!”.

   “Anche tu”, lo zittisce stizzito quest’ultimo.

   Al che il pinguino replica con una faccetta buffa che scatena un risolino, “Beh, alla fine stiamo tutti bene”.

   Si scrutano sollevati per un secondo interminabile. Attimo che Peter Pan arresta rabbrividendo, strofinandosi le braccia infreddolite ed affermando che fa un certo freschetto.

   “Ci sarà un riparo dalla pioggia da qualche parte”, si guarda in giro Makoto, trovando in cima allo strapiombo uno strano edificio dall’aspetto tetro affiancato da un faro in funzione.

   Percorrono un ripido sentiero in sampietrini e raggiungono lo stabile in malora. Alcune vetrate sono in frantumi o scheggiate, le mura sono zeppe di crepe e rigonfiamenti di umidità, gli infissi del portone d’ingresso e dei serramenti sono scardinati, l’insegna principale è priva di alcune lettere, distorcendone il significato originale.

   “Ret Hou?”, si entusiasma il biondo, “Cos’è un ret hou?”.

   “E’ una rest house”, rimbecca Rei.

   “Entriamo”.

   Quattrocchi si stringe la tavoletta galleggiante al petto, mentre Makoto esprime il dubbio di entrambi, “Aspetta, entriamo davvero?”.

   “Makoto”, lo interpella Haruka con la sua solita espressione fintamente assente, “stai bene?”.

   Annuisce, piegando la testa, “Tutto ok”.

   “Ehi”, li richiama all’attenti il pinguino, schernendoli, “Smettete di parlottare come una coppia che sta per entrare in una casa stregata”.

   Infastidito, il corvino approfitta del sua capacità di mimetizzazione e sorpassa il puerile, arrivando alle sue spalle, e, con un baritono gli chiede, “Hai visto quell’ombra?”.

   Spaventato, Nagisa gridacchia come un bimbo al suo primo brutto sogno, mentre l’indaco cela gli occhi lilla dietro al galleggiante e il capitano s’imbruna.

   Il vice si scusa con quest’ultimo, rammentando quando sia suscettibile.

   “V-va tutto bene”, balbetta l’altro.

   “Darò un’occhiata all’interno. Aspettate qui”, si avvia il moro.

   “Vengo con te”, si affretta a dire il migliore amico, “Andrà tutto bene dal momento che siamo tutti insieme”.

   Entrano nella casa di riposo con Haruka in testa alla carovana. Subito dietro di lui in fila ci sono Makoto, che si tiene forte l’addome contratto da una morsa nauseabonda che minaccia di rigettare tutto ciò che ha assimilato solo sei ore prima, Nagisa, elettrizzato dall’oscurità che aleggia in quell’impalcatura fatiscente, ed infine Rei, che, con il salvagente stretto al petto, mediante il quale si nasconde parte del volto, avverte la lugubre sensazione che qualcosa stia per saltar fuori dalla tromba delle scale elicoidale che conduce al piano superiore e alla terrazza.

   “Ah!”, sbraita il biondo, facendo sobbalzare il castano e il turchino. “Una torcia elettrica”.

   “Non spaventarci!”, lo sgrida il coscritto, pallido come un lenzuolo.

   Il cetaceo cinerino recupera l’aggeggio e controlla che funzioni; quand’essa si accende, comincia a perlustrare il sito abbandonato, donando alle parti in ombra un’aria ancora più tetra. 

   Si avventurano al pian terreno, ma ogni stanza e desolatamente vuoto. I mobili sono stati smantellati o sono assenti; al pavimento mancano alcune piastrelle - ulteriore motivo per stare attenti a dove si poggiano le piante nude dei piedi; l’elettricità è stata staccata da almeno un decennio, se non di più; e la muffa ha colonizzato gran parte dell’area nord del piano, la puzza è inscindibile.

   Proseguono la loro visita, sinché non si ritrovano in una vasta stanza colma di ripiani in metallo antiaderente, sulle quali sono impilate pentole arrugginite, mestoli deformati, fornelli consumati, ed infondo alla sala un frigorifero no frost combinato a doppia porta occupa lo spazio tra due ampie finestre.

   “Sembra che questa fosse una cucina”, decanta l’ovvietà il corvino.

   “Allora potrebbe esserci qualcosa da mangiare!”, si rianima Nagisa con già l’acquolina in bocca, “Muoio di fame!”, si massaggia la pancia con ambedue le mani.

   “Come puoi pensare al cibo in una situazione come questa?”, rimbecca il compagno di classe.

   Il pinguino si accarezza la nuca sogghignante, non avendo colto il rimprovero. Non era un complimento.

   “Ok, diamo un’occhiata in giro!”, s’infiamma il kohai biondo, volendo zittire il suo rumoroso stomaco, “Io controllerò l’armadietto qui”, indica il mobile vicino alle stoviglie, “Haru-chan e Mako-chan possono guardare sotto al lavandino, mentre Rei-chan deve occuparsi del frigo sospetto”.

   “Aspetta! Perché tocca a me la parte peggiore?!”, si lamenta quest’ultimo, Perché se la prende sempre con me? Non fa altro che punzecchiarmi!

   “Perché Rei sta per firgo-Rei-fero!”, ammicca in risposta il sauro, formando un angolo retto con pollice e indice, mimando il colpo di una pistola.

   Perché gli permetto di farlo? Perché tutto il mio fastidio svanisce non appena i suoi grandi occhi da monello si puntano nei miei?, “Mi sembra un’esagerazione! Mi rifiuto!”, Tanto alla fine farò come dice, “Ho la sensazione che se aprissi lo sportello, qualcosa potrebbe saltarmi addosso”.

   “Smettila”, lo ammonisce il senpai dello stile libero.

   Il ranocchio opta un’infantile soluzione, “Allora useremo carta, forbici e sasso per decidere chi deve controllare il frigo”.

   “Dobbiamo proprio aprirlo?”, si oppone il leader del team Iwatobi.

   “E’ il luogo che con più probabilità contiene del cibo”.

   “Però non c’è elettricità”, commenta Haruka, sottolineando tacitamente la possibilità che, qualora ci sia qualcosa all’interno, sarà marcito.

   “Il frigo è la nostra unica speranza al momento”, espone imperterrito il pinguino, per poi obbligare tutti a disporsi in cerchio, oscillando un polso, “Ok! Carta, forbici, sasso!”.

   Tre su quattro distendono completamente le falangi, mentre il quarto le tiene contratte. La carta batte il sasso. Ovviamente lo sventurato numero quattro è proprio la vittima preferita dell’infatuato Nagisa.

   “Visto?”, fa un balletto il solare ragazzino, “Continua ad essere Rei-chan! Fight on!”.

   Con lentezza inumana lo sfortunato si appressa all’elettrodomestico in disuso. Deglutisce più volte prima di afferrare le maniglie del doppio sportello illuminate dalla torcia elettrica del moro. Serra le palpebre e con uno strattone spalanca i battenti con un groppo in gola.

   “Grazie al cielo”, esala, quando nessun temuto yokai gli balza in faccia.

   Il coetaneo sbuffa, “Che peccato: è vuoto”.

   Bruscamente il delfino si appropinqua al congelatore come se una voce gli avesse appena imposto di farlo.

   “H-haru…”, balbetta Makoto, temendo in un subitaneo impossessamento da parte di un akuma, “Stai bene?”.

   “Ho sentito un odore”.

   “Un odore?”.

   Il corvino tira ogni cassetto come un forsennato, finché quell’aroma accennato non si trasforma in una vera e propria scia avvertibile da tutti.

 

 


 

Note d'Autore

Come ti consuetudine, parto con il ringraziare il continuo sostegno ed apprezzamento. Non potete immaginare quanto mi renda contenta.

Ad essere onesta non ho molto da aggiungere, se non che ancora una volta troviamo un incontro esclusivo con Rin, in cui esprime tutta la sua premura, ereditata dal rapporto fraterno con la sorella. E quando qualcuno canticchia "E il triangolo no", con questa fic ci spariamo dentro un bel "Infatti è un pentagono!", che rende la protagonista - e perfino l'autrice xD - sempre più indecisa.

Mi auguro che anche questo capitolo sia di vostro gradimento.

Se siete interessate a sentire la canzone che ho citato, s'intitola Wollt Nur Wissen dei Panik. E' una band rap numetal un po' di nicchia, ma spero vi conquisti come ha conquistato me.

Buona lettura,

Claire DeLune


   
 
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