Capitolo
Undici: l’Accordatore
Feliciano
sapeva di trovarsi in un sogno.
L’atmosfera
quasi nebulosa e lo scorrere irregolare del
tempo erano inconfondibili: era entrato nel reame onirico. Ed era
altrettanto
sicuro che quel sogno non fosse suo: non riconosceva il posto in cui si
trovava, e non gli erano familiari nemmeno i vestiti che indossava.
Osservò
con più calma l’ambiente caldo della taverna
intorno
a lui: era un locale di classe medio-alta, abbastanza elegante da
scoraggiare
gli accattoni ma non sufficientemente altolocato da evitare gli
ubriachi, che
cantavano a squarciagola in un angolo. I tavoli, circondati da gente
abbigliata
con strane divise scure, erano affollati da grossi boccali pieni di
liquido
giallo paglierino.
«Non
hai mai assaggiato la birra?»
La
proposta venne dalla sua sinistra, dove una giovane donna
si era appena materializzata. Feliciano inclinò la testa,
valutando la sua età:
l’adolescenza era fiorita pienamente sul corpo, nascosto
dalla divisa maschile,
e sul viso svezzato dalle battaglie. Doveva essere un po’
più grande di lui.
«No.
E temo che dovrò aspettare ancora. Non posso assaggiare
la vera… birra» tentennò appena su
quella nuova parola. «… in un sogno,
giusto?»
La
ragazza sfoggiò un gran sorriso, e fece la cosa meno
femminile che Feliciano avesse mai visto fare da una donna:
reclinò la sedia
all’indietro e piazzò gli stivali sul tavolo.
«L’hai
capito subito. Sei sveglio. Come un bravo Asse
dovrebbe essere» lo lusingò.
«Sai
chi sono, ma io non so nulla di te» contraccambiò
gentile il ragazzo.
La
giovane raddrizzò di colpo la sua posa, fissandolo
sconcertata.
«Ma
come?» si stupì. «La birra, le
divise… non ti ricordano
nulla?»
I
lunghi capelli nocciola della ragazza presentavano una
specie di solco appena sotto la nuca, segno che erano stati legati
strettamente
fino a poco prima; i grandi occhi verdi erano appena adombrati da un
alone di
occhiaie, e le mani non erano morbide e perfette come quelle di una
nobile: le
unghie erano scheggiate, e la porzione di pelle tra le nocche era
arrossata e
screpolata. Era una donna d’azione e non di moine, come
testimoniava la divisa
guerresca che indossava. Su quel dettaglio si focalizzò
Feliciano: era sicuro
di aver già visto quell’uniforme. La spilla a
forma di falco, con due smeraldi
al posto degli occhi, la spada dall’elsa rifinita a guisa di
drago e la divisa
nera con i bottoni d’argento. Su di essi si
focalizzò Feliciano, finché non
riuscì a distinguere il fine intarsio che li decorava: un
corvo, simbolo della
casata più potente di quel pianeta.
«Sei
un’Hellsing» concluse l’Asse.
Aveva
trovato molte immagini sui libri di storia, e
ricordava che la caratteristica distintiva del vestiario di quel popolo
erano
la spilla a forma di volatile, che variava in base al gregario del
guerriero, e
i bottoni su cui era inciso il corvo della famiglia Belschmidt. Avevano
libertà
di scegliere la pietra da incastonare negli occhi della spilla e di
decidere il
colore della propria uniforme. Quella della giovane donna era di un
verde
opacizzato dal campo di battaglia, quasi sporco in confronto allo
smeraldo degli
occhi.
«Esatto.
O meglio, lo ero» la ragazza stese la spina dorsale
contro lo schienale, sospirando a labbra chiuse. «Questo
è il pianeta degli
Hellsing come era ventisei anni fa. Prima che il nostro mondo fosse
mangiato
dai demoni» la giovane girò la sedia verso di lui
e gli tese la mano: «Non mi
sono ancora presentata. Elizabeta
Hédervàry.»
Feliciano
strinse quella mano, e quasi si vergognò di quanto
i suoi palmi fossero teneri in confronto a quelli duri e callosi della
giovane:
era una creatura assuefatta alla battaglia e al duro lavoro, al
contrario di
lui.
«Perché
mi hai portato qui, Elizabeta?» domandò Feliciano.
«Volevo
a raccontare al futuro Asse una favola della
buonanotte» il suo sguardo si illanguidì
nell’affetto, e il ragazzo si permise
di farle un appunto gentile:
«Non
è una favola. È un ricordo, vero?»
L’indice
della donna lo picchiettò in mezzo agli occhi,
spostandogli la testa all’indietro.
«Sei
un po’ troppo furbo, Asse.»
«Mi
chiamo Feliciano» la corresse con un sorriso stanco:
preferiva il suo nome alla sua carica. Lo faceva sentire umano, e non
un pezzo
innominato di un’enorme scacchiera.
«D’accordo,
Feliciano» concesse la giovane, e bevve un
generoso sorso di birra prima di continuare: «Ti ho chiamato
qui per
raccontarti la storia del più strano degli Hellsing che sia
mai nato. Si pensò
addirittura che fosse un bambino proveniente da un altro pianeta: non
dimostrava la minima propensione al combattimento, ed era del tutto
inetto
nella lotta contro i demoni» le onde dei capelli saltellarono
quando Elizabeta
scosse la testa: «Poverino, lo hanno bulleggiato in tutti i
modi… finché non ha
preso in mano un violino. Oh, allora le cose sono cambiate.»
«Un
violino?» ripeté Feliciano, senza capire.
«Strano,
vero?» una risata zampillò sulle labbra della
giovane, rischiarandole tutto il volto. «Non doveva
combattere con le armi, ma
con la musica: le sue note non erano in grado di uccidere i demoni, ma
potevano
bloccarli, potevano stordirli. E dare così modo a noi
sterminatori di
eliminarli. Ma non era quella la cosa più straordinaria che
sapeva fare con il
violino» Elizabeta annuì alle sue stesse parole, e
accarezzò con gli occhi
l’aria davanti a sé. «Era un ragazzo
molto schivo. Probabilmente, è diventato
così per via degli anni in cui è stato preso in
giro da tutti quanti. Non l’ho
mai visto sprecare una parola o un sorriso più del dovuto;
li centellinava come
un avaro farebbe con le sue monete. Ma quando sfiorava le corde del
violino…»
Elizabeta chiuse gli occhi e un’espressione deliziata si
dipinse sul suo volto.
«Il mondo assumeva i suoi colori: ed erano colori
così brillanti, così intensi
che ti lasciavano senza fiato. Era la musica il canale della sua anima,
non le
parole.»
«Era
così bravo?» in risposta alla sua domanda, la
giovane
gli indicò il palco improvvisato.
«Lo
sentirai tu stesso. Sta per suonare.»
Feliciano
quasi si rovesciò dalla sedia quando il misterioso
Hellsing poggiò i suoi stivali sul legno del proscenio.
«L’Accordatore!»
sibilò.
«Già,
quello è il titolo con cui è famoso
adesso» ruminò
amara Elizabeta.
Feliciano
si domandava quale musica potesse mai produrre
quell’uomo senza pietà, quando
l’archetto strofinò le corde. Fu come se il suo
potere di creare visioni mediante la musica non fosse cambiato, ma la
metamorfosi fu molto più dolce: la melodia era udibile a
tutti gli ascoltatori,
non solo all’esecutore, e le note sembravano trascendere la
dimensione del
pentagramma per dipingere pennellate di nuove emozioni. Il mondo stesso
sembrava acquistare una luce nuova e più vivida, come aveva
detto Elizabeta.
Feliciano
sentì il lamento del violino usare non l’aria, ma
il suo sterno come conduttore: le note gli punsero il cuore, una dopo
l’altra,
con una trafittura che non portava dolore. La melodia
risvegliò una miriade di
ricordi sopiti in lui, come se l’archetto stesse sfiorando le
corde della sua
anima e non quelle dello strumento: rivide il volto del fratello,
quello del
suo Guardiano, il cuore pompò l’affetto per il suo
custode dagli occhi di
ghiaccio, e le narici respirarono la nostalgia del tempo trascorso con
Lovino.
La
musica gli invase tutto il corpo: gli riempì i polmoni,
diventando la sua aria, risalì sugli occhi, velandoli di
lacrime, e scese ad
occupare ogni centimetro di lui, dalla punta delle dita a quelle dei
piedi,
rendendolo parte di quella sinfonia evocativa.
Si
riscosse lentamente da quella catarsi quando il violino
ammutolì: all’improvviso, il mondo
tornò scialbo e arido come sempre.
«È
quasi magico, non trovi?» lo punzecchiò Elizabeta,
riconoscendo nello stupore del giovane la sua stessa sorpresa, quando
aveva
udito il violinista suonare per la prima volta.
Feliciano
annuì, incapace di articolare verbo nel fragore
degli applausi che scrosciavano da ogni parte. Non era possibile che la
persona
che stava scendendo dal palco con l’aria soddisfatta di chi
vive per suonare
fosse lo stesso uomo che lo aveva trascinato ai Confini del Mondo
qualche ora
prima. Ma non aveva ancora visto la cosa più sconvolgente:
un piccoletto con i
capelli argentati e gli occhi rossi si schiantò contro la
tibia del musico,
reclamando attenzione. E l’uomo lo sollevò con un
sorriso che non avrebbe mai
immaginato possibile per quelle labbra tetre.
«Chi
è quel bambino?» immaginava già la
risposta, per cui
l’affermazione della donna non lo sorprese:
«Gilbert
Belschmidt. Attualmente, l’ultimo Hellsing rimasto
in vita.»
«Sembra
molto amico dell’Accordatore» notò,
neutro.
Elizabeta
sbuffò un sorriso amaro e mormorò:
«Gilbert
ha perso i genitori poco dopo la nascita. Essere i
più potenti tra gli Hellsing significa essere sempre in
prima linea. Quel
giorno… ci fu un terribile incidente» la ragazza
strinse le mani come per un
improvviso brivido di freddo. «Gilbert aveva forse un anno o
due. Non ha nessun
ricordo dei suoi genitori» tamburellò il tavolo
con le dita, cercando di
afferrare di nuovo le redini della conversazione: «Fu deciso
che sarebbe stato
affidato a qualcuno che potesse prendersi cura di lui per tutta la
vita. E chi,
meglio del più incapace tra tutti gli Hellsing, avrebbe
potuto rivestire quel
ruolo?»
«È
stato il suo padre adottivo?»
Elizabeta
annuì con la testa alla sua domanda.
«Guardali»
la voce le si incrinò, e la giovane la affogò con
un sorso di birra. «Guardali» ripeté,
con tono più fermo.
Feliciano
li osservò, e vide esattamente ciò che un padre e
un figlio avrebbero dovuto essere, anche se il genitore era un
po’ troppo
giovane per risultare credibile: l’Accordatore che ascoltava
con espressione
seria i discorsi megalomani del piccoletto, e gli occhi di Gilbert che
scintillavano come se stessero osservando una stella. L’Asse
spostò lo sguardo
sul tavolo di legno grezzo: lui e suo padre non avevano mai avuto
quella
complicità.
«Non
aveva anche una madre adottiva?» cambiò discorso
Felciano.
«Ce
l’hai davanti agli occhi» mitragliò
Elizabeta.
L’Asse
preferì serbare per sé le perplessità
che avrebbero
potuto risultare scortesi, e ascoltò il seguito.
«Eravamo
una famiglia piuttosto scalcinata, non lo nego. Ma
stavamo bene insieme, eravamo felici. Poi sono arrivati i messi del
Vaticano.»
I
sensi di Feliciano scattarono a quel nome, come quelli di
una preda che riconosce i passi del cacciatore.
«Non
avevano mai visto prima un potere come quello di
Roderich. E hanno pensato di usarlo per loro. Hanno sradicato
e deviato la
sua anima» quasi sputò, nel pronunciare
l’ultima frase.
«Cosa
è successo?» domandò Feliciano.
Elizabeta
lo guardò con gli occhi sanguinanti dolore:
«Tu
hai un potere enorme, Feliciano. Ma per te è
relativamente facile controllarlo: sei nato con quel potere, fa parte
di te. È
come muovere una gamba o una mano. Ma Roderich… lui era nato
con un potenziale
modesto, per quanto particolare. E la sua portata non era sufficiente
per
quegli avvoltoi: gli hanno impiantato a forza altro potere, in quelle
maledette
stigmate che gli hanno scavato sulle mani. E quando una forza
così grande non
nasce con te ma ti viene imposta, ti consuma come un parassita. Anche
per il
Custode dei Cancelli è così: in cambio del
potere, deve cedere la sua memoria,
ogni singola goccia. Roderich ha dovuto cedere i suoi ricordi e le sue
emozioni. Non ricorda più nulla, a parte un tedio infinito e
un’apatia totale»
le palpebre scacciarono le lacrime con un battito, ed Elizabeta
concluse: «Non
è triste che il suo violino non possa più
cantare?»
Feliciano
deglutì, cercando di far combaciare l’immagine
inflessibile dell’Accordatore con quella dell’uomo
di fronte a lui: per quanto
serio, era palese l’affetto che provava per quel fagotto che
si arpionava
costantemente alle sue caviglie per farlo cadere.
«È
identico a come l’ho visto io. Per lui, non è
passato un
giorno…» notò.
«Perché
non è più un essere umano. È preda del
potere. E il
potere ha bisogno che lui sia in perfetta forma fisica, quindi lo
conserva al
pieno delle sue forze. Quando avrà finito di sfruttarlo, lo
abbandonerà, e lui
diventerà un mucchio di cenere in pochi secondi.
Recupererà i ricordi solo
all’ultimo istante… non avrà nemmeno
tempo per chiedere perdono per tutti i
suoi peccati.»
«A
quali peccati ti riferisci?»
Un’ombra
scura calò sul volto della giovane donna.
«Volevano
essere sicuri che eseguisse i loro ordini alla
lettera. Volevano essere sicuri che fosse diventato davvero una
macchina. Ero
con lui, il giorno in cui l’hanno trasformato» i
denti di Elizabeta affondarono
nelle labbra. «Un Hellsing non attacca mai un altro essere
umano: le nostre
armi devono essere rivolte solo ai demoni. Quindi non ci ha neppure
sfiorato
l’idea di difenderci, quando abbiamo visto quegli
sconosciuti: erano uomini
come noi, e, per di più, messaggeri del Vaticano.
Chissà quanto hanno sbeffeggiato
la potenza degli Hellsing, mentre ci rendevano inoffensivi»
le mani sciupate
della donna corsero alle orecchie, tappandole.
«L’ho sentito mentre gli
perforavano la carne e gli colavano l’argento bollente nelle
mani. Ha urlato,
Feliciano, ha urlato così tanto che credevo che
l’anima stessa gli sarebbe
uscita dai polmoni. Poi le grida si sono spente. Tutto si è
spento: ho fissato
una marionetta, quando lui ha voltato lo sguardo verso di me. Quando
gli hanno
ordinato di ammazzarmi, l’ha fatto senza battere
ciglio.»
Feliciano
trasalì a quella confessione, e non riuscì a
proferire verbo mentre la giovane continuava:
«E
poi gli hanno ordinato di sterminare tutto il suo popolo.
Con la musica senza strumento che hai visto anche tu, ha aperto il
portale per
i demoni. Solo Gilbert è sopravvissuto.»
«Perché
mi hai raccontato questa storia?» annaspò
Feliciano.
Più la donna parlava, più le sue parole
stillavano sangue, più lui si sentiva
soffocare, come se la sofferenza degli Hellsing lo stesse affogando.
I
calli della giovane sfregarono il dorso delicato delle sue
mani: Elizabeta lo trattenne così, mentre lo pregava:
«Tu
sei il futuro Asse, sei stato eletto per salvare le
persone. E ti chiedo di salvare lui.»
«Perché?
Ti ha uccisa, e ha ucciso il suo popolo.»
«Perché
è troppo crudele che i suoi occhi restino freddi e
il suo violino muto. E poi… sono convinta che
l’Accordatore non abbia ancora
sopraffatto Roderich. Non del tutto» la donna prese fiato e
buttò fuori un
fiume di parole assieme al respiro: «Quando ha suonato per
uccidermi… non stava
suonando il violino, ma io l’ho sentita comunque: anche se
stava pizzicando
corde d’aria, ho sentito la melodia che aveva composto in
onore della mia prima
battaglia. “Il diamante della guerra”,
così l’aveva chiamata. Un titolo
piuttosto pomposo, non trovi?» la donna si riscosse,
riallacciando il discorso:
«Lo hai sentito anche tu: adesso non usa più la
musica. Ma con me lo fece. E
usò proprio quella canzone. E poi… ha visto
Gilbert che faceva ritorno al
pianeta, ma non ha ordinato ai demoni di sbranarlo. Gli ha permesso di
fuggire.
È per quella canzone, per quell’esitazione che io
credo ancora in lui»
Elizabeta allontanò il boccale di birra, e si stese con il
busto e le braccia
sul tavolo: «È disumano che una vita debba
soccombere al potere. Tu dovresti
capirlo meglio di chiunque altro.»
Feliciano
si sentì trafiggere al petto. Lui sapeva più che
bene cosa significava vedere tutta la propria esistenza scorrere su un
binario
predefinito dai potenti.
«Come
dovrei salvarlo?» chiese.
«Fagli
recuperare la memoria.»
«Per
quale motivo?» obiettò Feliciano.
«Ricorderebbe tutte
le cose atroci che ha fatto.»
«Non
puoi annullare i suoi poteri senza annullare anche il
sortilegio che blocca le sue memorie» rivelò
Elizabeta. Un sorriso creato per
metà dalla speranza e per metà dalla disperazione
fiorì sulle labbra pallide
della giovane. «Ricordando, potrà chiedere perdono
per quello che ha fatto. E
noi Hellsing lo perdoneremo: si odia l’assassino, non il suo
pugnale. Così
potrà unirsi a noi nei banchetti del Walhalla, un
giorno» sprimacciò il volto e
forzò un’espressione allegra mentre gorgheggiava:
«E poi, non posso più essere
lì a dirgli quanto la sua musica sia bella, quanto lui sia
importante… ma, se
si ricorderà di me, potrò continuare a dirglielo
attraverso la memoria. Si
ricorderà delle volte in cui gli ho messo il violino in mano
a forza,
spronandolo a suonare. Si ricorderà delle volte in cui gli
ho detto di amarlo.
E spero che, quando lo farà, tra le lacrime gli
spunterà un sorriso» gli indicò
il duetto poco più avanti, dove Gilbert era finalmente
riuscito a far sorgere
un incurvamento di labbra sul volto del padre adottivo. «Mi
piacevano tanto,
quei suoi sorriso così rari…»
Feliciano
abbassò la testa, schiacciato dal peso dei sentimenti
della donna.
«Non
posso più essere vicino a lui, anche se lo desidero. Ma
vorrei almeno essere la voce che lo consola dalle nebbie del ricordo.
Non
voglio che sia solo, Feliciano. Un’eco è sempre
meglio della solitudine.»
«Lo
farò» bisbigliò il ragazzo.
La
mano della donna gli sfiorò una guancia, e le sue braccia
scivolarono a circondarlo con affetto.
«Non
lo dimenticherò, Feliciano» lo coccolò
materna.
Lo
lasciò andare qualche secondo dopo, quando il legno del
palco scricchiolò di nuovo sotto il peso del musicista.
«Ascolta»
lo incitò. «Roderich sta per suonare il pezzo di
chiusura.»
Feliciano
pianse con il cuore, mentre le note dell’ultima
sinfonia del suonatore si libravano nell’aria.
“Il
diamante della battaglia” risuonò chiaro e nitido
nell’aria
improvvisamente immobile.
***
I
tacchi degli stivali ametista schioccarono perentori sul
ponte della Reina.
Lovino
poté udire chiaramente quel suono derisorio: attorno
a lui, tutto era immoto. I marinai si erano cristallizzati nelle loro
posizioni: perfino le fiamme sulle fiaccole erano fossilizzate. Non un
suono,
un movimento o un respiro: tutto era immobile come se il tempo si fosse
fermato.
Lovino
fissò con odio l’uomo di fronte a lui, che
ricambiò
lo sguardo con disprezzo altero. Reggeva in una mano un metronomo, uno
strumento dal ticchettio insopportabile, usato dai musicisti per
scandire il
tempo durante gli esercizi stilistici; la lancetta di quel metronomo
era
rigida, muta, come tutta la nave. Con l’altra mano innalzava
un diapason, la
forcella di metallo impostata in “la” per aiutare
durante l’accordatura di uno
strumento.
Bastarono
quei due elementi, sommati alle stigmate argentee
e all’aria inflessibile, per permettere a Lovino di
riconoscerlo.
«Ho
fermato la vostra ciurma» annunciò
l’Accordatore,
appoggiando metronomo e diapason a terra; quest’ultimo,
inspiegabilmente,
riuscì a mantenersi dritto sulla sua estremità
tondeggiante, continuando a
vibrare. «E bloccato il vostro famiglio diabolico.»
Il
giovane si allontanò di un passo; le medaglie sulla sua
giubba tintinnarono nell’aria sepolcrale, fissata dal
metronomo, e sentì Roma
dimenarsi all’interno delle sue scapole, quasi impazzito per
l’impossibilità di
uscire. Ruotò le spalle, intirizzite dagli sforzi del suo
gregario, e rifletté:
se il tempo era immobile per qualunque cosa al di fuori di se stesso e
dell’Accordatore, probabilmente anche i proiettili si
sarebbero fermati a metà
strada. Non avrebbe avuto alcun senso tentare di sparare a
quell’uomo.
Senza
staccare gli occhi da quel militare in viola, portò
una mano al fianco: Gilbert e Antonio lo avevano praticamente forzato
ad
accettare quella scimitarra, come estrema misura di sicurezza. Si
chiedeva
perché il destino fosse così accanito contro di
loro da trasformare ogni
ipotetica situazione di emergenza in realtà.
L’Accordatore
non fece attendere la sua mossa: mosse le dita
come per pizzicare un’arpa e, sotto il suo tocco, il nulla
assunse gradualmente
la forma e la consistenza di un lungo fioretto.
Lovino
lo scrutò guardingo. Era diverso dagli strumenti che
aveva visto in mano ai maestri di scherma: quell’arma
assomigliava al fioretto
per forma, ma non sembrava studiata per una competizione sportiva. La
sua forma
affusolata rivelava una lama più dura del diamante, venata
di diramazioni violacee;
l’elsa che avvolgeva la mano dell’uomo era un
intreccio artistico di argento e
ametista e, in qualche modo, appariva più pericolosa della
lama stessa.
Quell’arma emanava un’aura implacabile, la stessa
che permeava le asce dei
boia.
«Spero
non vi offenderete se ho utilizzato questo
stratagemma» salmodiò l’uomo, vibrando
un colpo nell’aria: la lama guizzò come
un airone sul fiume, e tornò fissa e terribile
l’istante successivo. «Volevo
sfidarvi in duello. Ma sarebbe stato impossibile, con tutta la vostra
ciurma
intorno.»
Lovino
inalberò la spada nello spazio vuoto tra di loro, e
accusò:
«Ti
manda mio padre, vero?»
«Ciò
è irrilevante» dichiarò
l’uomo, stendendo il fioretto
in direzione del giovane. «In quanto Accordatore, devo
sistemare le note
stonate della Confederazione. E voi, Lovino Vargas, siete una delle
peggiori
deviazioni che siano mai esistite». Poi, fu il turno delle
spade per
fraseggiare.
Lovino
ringraziò quei pomeriggi di bonaccia in cui i marinai
gli avevano insegnato a impugnare un’arma, e quelle lunghe
serate in cui
Antonio lo aveva addestrato al lume di candela. Aveva lottato
tantissime volte
con il capitano, ma erano stai scontri fittizi, al solo scopo di
allenarsi; in
battaglia, era abituato ad affidarsi a Roma, ai suoi poteri e alle
pistole.
Tutte cose ridotte a un’inutile inedia dai marchingegni
dell’Accordatore.
Parò
il primo colpo di fioretto mettendo la spada in
orizzontale. Le due lame si scontrarono, e un’onda
d’urto sonica si propagò
nelle sue ossa, facendole vibrare come la cassa armonica di un organo.
Lovino
allontanò il suo avversario con furia per poi
afferrarsi il braccio destro con una mano: la carne era quasi lacerata
dalle
ossa stesse, che si scuotevano come se volessero perforargli la pelle.
«L’ennesima
prova che siete una nota stonata, Lovino Vargas»
lo riprese con fredda eleganza l’uomo, carezzando con cautela
la stigmate a
forma di chiave di violino con il dorso dello stiletto. «Non
risuonate come un
corpo puro.»
Il
pirata arretrò, le dita che quasi affondavano nella carne
per fermare l’osso danzante. Doveva evitare il contatto
diretto con quella
lama: era incantata in modo da far riportare danni al nemico anche
quando
veniva bloccata.
Fece
passare la spada nell’altra mano, e le sopracciglia
dell’Accordatore si sollevarono, emanando una gelida
disapprovazione.
«Mancino.
La mano dei malvagi» biasimò.
«Ambidestro»
una luce sinistra brillò nel ghigno di Lovino. «Il
male dilaga.»
Scartò
di lato per evitare l’affondo aggraziato dell’uomo,
e
si piegò per schivarlo quando ruotò il torso
nella sua direzione con la spada
spianata. Si mosse a sua volta per cercare di colpire il rivale sul
fianco
scoperto, ma non fu in grado di prevedere la sua difesa:
l’Accordatore piegò le
dita davanti alla bocca come se stesse suonando un’ocarina, e
fischiò una nota
diretta alle sue gambe.
All’improvviso,
le tibie del pirata furono percosse da una
scarica sonica che minacciò di spezzarle, e Lovino
crollò al suolo. Fu
abbastanza pronto di riflessi da girare sul dorso e parare davanti a
sé la
sciabola prima che l’Accordatore affondasse il fioretto nel
suo corpo.
Le
sue ossa parvero impazzire, dalle falangi alla spalla,
sbatacchiando tra di loro come se un tornado le stesse facendo mulinare
all’interno dei muscoli. Morse le labbra, mentre un paio di
lacrime
scintillavano nei suoi occhi e le braccia tremavano per lo sforzo di
mantenere
la lama salda di fronte a sé.
L’Accordatore
aggrottò le sopracciglia, perplesso: un corpo
così piccolo non avrebbe dovuto contenere tutta quella
rabbia e quella forza.
Non dopo che il suo famiglio diabolico era stato bloccato. Premette
ulteriormente il fioretto contro la sua sciabola, e lo vide
rabbrividire mentre
le ossa gli trafiggevano il cervello con fulmini di dolore, ma la sua
resistenza non vacillò: il fioretto restò lontano
dal suo corpo.
«Per
il bene della Confederazione, Lovino Vargas, dovete
sparire» ingiunse l’Accordatore.
Gli
occhi del ragazzo s’infiammarono di dolore e collera,
poco prima che il giovane lo scaraventasse lontano da sé con
la forza di una
bestia selvatica. L’Accordatore si rialzò con
leggiadria, fissando disgustato
quel rifiuto di galeone che si sollevava scalcinato, gambe e braccia
tremanti,
le mani che ancora si aggrappavano all’elsa della spada.
«Allora
siamo fortunati» ansò il pirata. «Lovino
Vargas è
morto, sei anni fa.»
Il
ragazzo mosse un passo da ubriaco, rialzando con fatica
le spalle e ondeggiando la sciabola davanti a sé.
«Mi
dispiace che tu non l’abbia conosciuto. Era un bambino
che covava l’assurdo sogno di essere l’orgoglio del
Vaticano assieme al
fratello» il rancore gli graffiò un ghigno sul
viso. «Poi fu abbandonato in un
deserto, e quella speranza avvizzì. Lovino Vargas
morì qualche giorno dopo,
strappandosi con le sue stesse mani il simbolo della famiglia che lo
aveva
ucciso» dicendo questo, toccò la base del collo:
le creste irregolari della
cicatrice bianchissima gli sfregarono contro le dita. Il pirata
scostò la
frangia dagli occhi: due iridi in cui ribolliva una tenacia infernale
dardeggiarono turbolente. Il loro fuoco si rinvigorì a ogni
frase che il giovane
pronunciò:
«Quello
che hai davanti è un ragazzo cresciuto senza
genitori, allevato dalle battaglie secondo il credo dei pirati, alleato
fino
alla morte di Antonio Fernandez Carriedo e unico vice comandante della Reina de la Oscuridad» il
giovane
sollevò di nuovo spada e sguardo contro di lui, uno
più affilato dell’altro, e
proclamò: «Io sono Lovino Belial, la Mano Sinistra
del Diavolo!»
Il
giovane innalzò la sciabola verso il cielo, come gli
angeli esecutori del giudizio divino nei dipinti
sull’Apocalisse; i suoi occhi
e la sua voce infuocarono l’aria circostante, gridando:
«E
sarò la rivoluzione che scuoterà la
Confederazione!»
L’Accordatore
gli lanciò uno sguardo impassibile ombreggiato
di disprezzo, e pronunciò:
«E
per questo dovete essere eliminato.»
Lovino
non lo vide arrivare: ebbe solo l’impressione di un
bagliore viola alla sua destra, prima che la lama ametista
dell’uomo gli
trapassasse il fianco. L’Accordatore mosse un passo di lato,
estraendo il
fioretto ed evitando la spada dell’avversario. Il pirata
cadde rumorosamente
sulle ginocchia, una mano premuta sulla ferita che stava facendo
impazzire i
suoi organi interni: i polmoni in spasmo gli impedivano di respirare
correttamente, e il cuore in fibrillazione rendeva ombroso e distorto
il mondo
intorno a lui. Il rombo del sangue gli occupò le orecchie, e
la sentenza
dell’Accordatore strisciò a fatica attraverso quel
frastuono.
«Siete
piuttosto arrogante, a dispetto delle vostre
discutibili abilità» lo riprese gelido. Il
fioretto salì in cielo, pronto a
infilzare il collo sussultante del giovane.
La
sciabola intercettò il colpo mortale, fermandolo a
metà
strada: con gli occhi annebbiati da una cupa foschia, le orecchie
otturate
dalla risacca del sangue e il cuore impegnato a non collassare, Lovino
sollevò
la sua ultima difesa. L’Accordatore vide quel braccio esausto
trasalire sotto
la sua forza, ma non lo vide cedere: testardo come il suo padrone.
«Dove…
sei… bastardo» ringhiò Lovino, la lama
dell’uomo che
si avvicinava sempre più alla sua gola.
Ebbero
solo il tempo di udire il grido di un rapace, prima
che la loro visuale fosse occupata da un turbinio di piume nere.
L’Accordatore
fu costretto ad abbandonare Lovino, scacciato dalle furiose beccate di
un
gigantesco corvo.
«E
poi dicono che non sono il più grande eroe della
Galassia»
ghignò una voce poco distante. «Salvato
all’ultimo secondo. Pretenderò un
premio.»
Lovino
riuscì a scacciare la caligine dagli occhi abbastanza
da riconoscere una figura dai capelli argentati al suo fianco.
«Gilbert!»
lo salutò, felice come non mai di vedere il
sogghigno dell’uomo.
«Hellsing»
lo riconobbe con tremenda freddezza
l’Accordatore. «Dovresti essere a Caina.»
«Golem,
ghiaccio e solitudine: quel posto diventa noioso,
dopo il primo anno e mezzo» Gilbert accarezzò
lentamente l’ala lucida del suo
famiglio, mentre sdrammatizzava. «Ho deciso di fare un giro
qui intorno.»
Il
ghigno gli morì sulle labbra alle parole
dell’Accordatore.
«La
tua decisione ha avuto forti ripercussioni sull’ultimo
Sparviero imprigionato.»
Lovino
batté le palpebre, riuscendo finalmente a mettere di
nuovo a fuoco il mondo. E la prima cosa che vide fu il volto tirato e
livido di
Gilbert, come se l’anima fosse evaporata dal corpo.
«Cosa
avete fatto a Francis?» sillabò minaccioso,
più cupo
del suo famiglio.
«Ti
interessa questa informazione?»
«Ovviamente.»
«Allora
fatti da parte, Hellsing. Devo concludere il mio
compito per quanto concerne Lovino Vargas. Se non creerai ulteriori
fastidi, ti
rivelerò l’informazione che desideri.»
Le
parole di Gilbert commossero l’irritabile pirata e
scatenarono il ribrezzo dell’altero Accordatore.
«Non
ho avuto il piacere di conoscere Lovino Vargas, ma sai
una cosa?» l’Hellsing si voltò,
spavaldo, e porse una mano al giovane per
aiutarlo ad alzarsi. «Anche se fosse stato il miglior ragazzo
del mondo,
preferisco Lovino Belial. È più adatto a stare
con gli Sparvieri.»
Il
giovane non fece in tempo a fingere di non essere toccato
da quelle parole che Gilbert gli si accostò
all’orecchio, bisbigliando:
«Cerca
di rompere il diapason, e poi evoca Roma. Quel
damerino in viola non è un avversario semplice.»
Si
voltò di nuovo, gonfiando il petto nella sua divisa
oscura in una posa pomposa.
«Dovari
sconfiggermi, prima di poter attaccare questo
ragazzo.»
L’Accordatore
sospirò, annoiato come chi deve sopportare una
vespa fastidiosa.
«Da
solo e disarmato non rappresenti nemmeno una sfida degna»
si rammaricò.
«Oh.
Davvero sembravo solo e disarmato?»
Il
ghigno dell’uomo si allargò a dismisura mentre
l’ombra di
Gilbird si stendeva su di lui; la scimitarra appena forgiata quasi
cantò di
gioia, uscendo dal fodero.
«Certo,
il mio archibugio è ancora sotto i ferri. Ma questa
spada è meravigliosa, come me» le fece compiere
qualche giro nell’aria per
godersi il suono netto della lama affilata. La appoggiò alla
spalla con
espressione arrogante, e invitò a sé
l’Accordatore con il dito indice,
flautando: «Vuoi essere il primo a provarla?»
«Quanto
tempo sprecato…» soffiò
l’uomo, prima di scagliarsi
aggraziatamente contro di lui.
Lovino
restò per qualche istante immobile, incantato da quel
combattimento. Aveva visto molte battaglie, ma nessuna era paragonabile
a quella
davanti ai suoi occhi: l’Accordatore affondava e schivava
come se stesse
danzando, quasi annoiato da quel duello; Gilbert, al contrario,
attaccava come
se in ogni colpo vibrasse la sua stessa vita, lasciando spazio al suo
famiglio
con una coordinazione spaventosa. Ma ancor di più lo
sorprese la tranquillità
con cui l’Hellsing parava i colpi del rivale: pareva quasi
che le onde soniche
non avessero effetto su di lui, che respingeva ogni affondo senza
perdere il
suo ghigno sardonico. Così come l’Accordatore non
scomponeva la sua espressione
marmorea mentre ballava su quella musica bellicosa.
Si
riscosse quando le due lame si incontrarono in un
clangore di metallo, sprizzando scintille. Lovino corse veloce verso il
diapason, e afferrò lo strumento. Vide un interrogativo
baluginare nelle iridi
fredde dell’uomo, quando percepì che il suo
strumento era stato infranto da una
volgare spada piratesca.
Lovino
evocò Roma l’istante successivo, e lo
aizzò contro
l’Accordatore.
Gilbert
si scostò per evitare la belva, e si voltò verso
Lovino con un grido di vittoria sulle labbra, ma il pallore del giovane
gli
strangolò l’entusiasmo in gola. Roma
balzò nuovamente al fianco del suo
padrone, mentre un regalmente indispettito Accordatore sistemava il suo
cappotto violaceo.
Lovino,
smarrito e spaventato, indicò l’uomo di fronte a
lui, sibilando a Gilbert:
«Non
ha ricordi. Non ha emozioni. Non ha nemmeno pensieri. È
come se fosse morto!»
L’Hellsing
si parò davanti a lui, proteggendolo
dall’Accordatore. Lovino inalberò la spada a sua
volta, pronto a combattere,
Roma che ringhiava al suo fianco e Gilbird che strideva alle sue
spalle. I poteri
psichici del lupo erano inutili, se quell’uomo non aveva
un’anima.
«Mira
alle mani, Lovino» bisbigliò Gilbert; le suole dei
suoi stivali stridettero sul legno della nave, preparandosi
all’assalto. «È
l’unico modo per farlo tornare uomo.»
Il
giovane non comprese fino in fondo il senso delle parole
dell’Hellsing, ma ubbidì comunque: quando
l’Accordatore mosse un nuovo affondo
verso di loro, scartò di lato e mirò alle sue
stigmate. L’uomo ruotò verso di
lui, parando il suo colpo; ma quella mossa non gli permise di vedere
l’attacco
di Gilbert. Preciso e implacabile come era sempre stato con i demoni,
l’Hellsing vibrò un tremendo colpo al suo polso:
la lama forgiata per
trapassare le squame dei diavoli recise pelle, carne e ossa, e la mano
mozzata
cadde a terra con un rumore flaccido e un violento spruzzo scarlatto.
L’Accordatore
si schiantò sulle ginocchia con un urlo
disumano, contorcendosi sul moncherino che vomitava sangue. Gilbert
scostò
Lovino per sottrarlo a quella vista raccapricciante: mille sfumature di
dolore
e sofferenza distorsero il volto dell’uomo, rendendolo quasi
irriconoscibile;
gli occhi si strabuzzarono dietro le lenti, e gli occhiali vennero
scaraventati
lontano dalla violenza con cui l’Accordatore scosse la testa,
preda di atroci
tormenti.
Il
metronomo ricominciò a scandire il tempo, e i marinai,
sciolti dall’incantesimo, si trovarono circondati dallo
strazio del loro nemico.
Alcuni di loro indietreggiarono, altri si sporsero incuriositi, altri
ancora si
portarono alle spalle del vice comandante, in attesa di ordini.
Quel
supplizio durò per il minuto più lungo della loro
vita.
Quando finalmente il grido dell’uomo si spense in un rantolo
svociato e il suo
corpo smise di ritorcersi, Gilbert recuperò i suoi occhiali
e si chinò su di
lui, porgendoglieli.
«Roderich»
quando fu chiaro che l’Accordatore non era
sufficientemente in sé da rimettere le lenti al loro posto,
l’Hellsing stese le
stecche e gliele appoggiò delicatamente sulle orecchie.
«Roderich» ripeté. «Ricordi
a chi appartiene questo nome?»
Gli
occhi ametista lo fissarono senza capire, dilatati,
terrorizzati; poi, gradualmente, riacquistarono una dimensione normale
e una
lucidità umana.
«Sono
io. È il mio nome» gli chiese aiuto con le iridi
vibranti di sconcerto e paura, ed esalò:
«Gilbert… dimmi che non l’ho
fatto…»
La
mano dell’Hellsing si appoggiò sulla sua testa,
senza
giudicarlo, senza criticarlo.
«Non
eri in te. Non è stata colpa tua»
mormorò, carezzevole.
Roderich
trasalì quando un ruggito di razzi propulsori si
gonfiò a lato della nave; Antonio scavalcò il
bordo del vascello, e un silenzio
teso ed elettrico fu il suo benvenuto.
«Che
succede?» tentennò, osservando perplesso Gilbert,
Lovino e l’uomo sanguinante ai loro piedi.
Il
giovane pirata fu il primo ad avere la forza di muoversi:
raggiunse il capitano e gli assestò un poderoso pugno allo
stomaco; quando fu
piegato in due per il dolore, gli stritolò la testa in un
abbraccio rude e
ringhiò, i denti che tremavano per trattenere le lacrime:
«Dove
diavolo eri, bastardo…»
Antonio
poggiò amorevolmente una mano tra le scapole
frementi di Lovino, e, in quell’istante, Gilbert
sussurrò a Roderich:
«Ricordi
cosa stavi dicendo prima su Francis?»
Il
volto dell’uomo sbiancò, e non solo per il sangue
che
continuava a scorrere a fiumi fuori dal suo polso tranciato. La
risposta
dell’Accordatore non fu più forte di un soffio di
vento, ma risuonò comunque
chiara e terribile sul ponte dell’Aereonave.
«Quando
sei evaso da Caina, è stato deciso che la
Confederazione non poteva lasciar scappare un altro Sparviero. Francis
Bonnefoy, l’ultimo Marauder, è stato giustiziato
il giorno seguente.»
Solo
il suono del corpo di Roderich che sveniva sul
pavimento insanguinato echeggiò in quel silenzio irreale che
aveva ucciso
l’animo della Reina de la Oscuridad.
Buonasera<3
E
in questo
capitolo abbiamo parlato dell’Accordatore… nel
prossimo, si parlerà del Mago
dell’Ovest e del suo passato. E del Marauder 8D
A
lunedì<3
Red