»Chapter 12
One life, two roads – As Ink On Paper
Il
tanto desiderato giorno era arrivato.
Ormai le valigie erano pronte da un po’ e contenevano il
minimo indispensabile.
Qualche vestito. Matite. Pastelli. Pennelli. Pittura. Schizzi. Fogli.
Obiettivi. CD.
Tutto ciò senza cui Beth Smith non avrebbe potuto vivere.
Beth era agitata ed emozionata.
Avrebbe fatto questo viaggio, e lo avrebbe fatto da sola.
Beth era nervosa e spaventata.
Hannah
ed Ed avevano
dormito da lei quella sera, non si sarebbero visti per due settimane e
già
sentivano la mancanza uno dell'altro.
James l'aveva salutata la sera prima davanti ad un caffè.
Patrick dormiva ancora, d'altronde erano solo le 6.00 di una fredda
mattina di
lunedì.
Jane era ansiosa, non aveva mai passato tanto tempo senza la sua
piccina.
Qualche ora più tardi Beth era in stazione.
Una valigia in mano. Un sogno nell’altra. Note nelle
orecchie. Il futuro
davanti a se.
Il treno per Londra sarebbe partito tra pochi minuti e Beth era pronta.
O
almeno era quello che credeva.
Andare a Londra era sempre stato il suo sogno.
Anche se la grande città distava a poche ore da Bath, Beth
ci era andata solo
da piccina e le uniche cose che ricorda sono il sorriso di suo padre e
la neve,
fredda e bianca.
Il
treno era gremito di
persone e Beth, seduta nella sua cabina, era felice.
Non solo perché stava ritornando a Londra, ma
perché avrebbe incontrato Jessy,
un’artista conosciuta in chat, che le avrebbe mostrato la
scuola dove Beth
sognava di entrare da una vita.
Ciò che si dice di Londra, è sostanzialmente
vero… fredda, nuvolosa, caotica,
bellissima… ma questi sono gli aggettivi che un qualunque
turista dà, perché la
guarda con occhi di estraneo e con occhi di tutti, ma Beth no,
perché infondo,
lei, non ha mai visto le cose così come le vedono gli altri,
le ha sempre
osservate e ammirate con occhi diversi, con occhi di sognatrice, con
occhi di
chi il mondo lo vede dietro le sue crepe e non sulla superficie.
E forse, è proprio questo che fa di Beth Smith
un’artista.
Il suo essere e non essere, contemporaneamente.
Semplicemente essere se stessa: Beth.
E forse, è proprio questo che rende le opere di Beth opere
di un’artista.
Ma Beth non ci crede, perché è quel tipo di
persone che se le chiedi ‘ sai
disegnare? ’ ti risponde che se la cava, ma non ti dice che
ogni volta che
impugna anche una semplice matita e la poggia su un foglio, un
qualsiasi
foglio, il mondo intorno a lei scompare. Non ti dice che quando
è immersa in
quelle ore di pura arte svanisce, e che la sua testa non
c’è più; i suoi occhi
non vedono più; le gambe non sono lì, ma in
qualsiasi altro luogo; ci sono solo
le mani che da sole, spinte da chissà cosa, disegnano. E
come inchiostro su
carta restano lì impressi tutti i sentimenti, le
emozioni, i brividi, i
sorrisi, le lacrime che Beth non riesce ad esprimere, che tiene dentro,
chiusi
con un catenaccio, e che vengono fuori così, non sa neanche
lei come ci
riescono, ma accade, accade e basta… perché per
lei l’arte è questo: attimi
che non sono mai stati presenti, ma solo passato o futuro;
come quando
batti le mani, nel momento in cui pensi di farlo è futuro,
nel momento
in cui le batti è già accaduto, passato.
E Beth si ritrova a vivere nel presente già passato e quasi
futuro.
E si ritrova in un mondo suo dove ci sono Beth, l’arte e la
magia: il suo
mondo.
Il
treno era arrivato:
fermata Picadilly Circus.
Beth non ci poteva credere, era arrivata… a Londra.
Cazzo, Londra!
Erano quasi le 12 a.m. e Beth aveva fame, molta fame.
Mancavano pochi minuti all’incontro con Jessy, e Beth si
incamminò verso il pub
dove avrebbero pranzato.
Da lontano vide una folta capigliatura rossa, e la riconobbe grazie
alla foto
del profilo in chat. Le andò in contro e sorrisero,
così spontaneamente, come
quando si incontra un amico di una vita che non si vede da tempo,
sorridi,
sorridi e basta.
<< oddio, che bello! Non vedevo l’ora di
incontrarti! >> le disse
euforica Jessy
<< già… anche io >>
rispose
<< dai sediamoci, sto morendo di fame! >>
<< ahah a chi lo dici! >>
Le due ragazze si sedettero e ordinarono, nel frattempo parlarono di
tutto ciò
che non si erano dette in chat; in realtà era proprio come
se si conoscessero
da una vita, ed era bello. Non facevano altro che ridere e parlare,
parlare e
ridere, e nel tempo che avanzava, ogni tanto, mangiare.
Quando
si incamminarono
per le strade della fredda Londra era pomeriggio inoltrato, avevano
parlato
davvero tanto, ed ora strette nei loro cappotti e con una cioccolata
dello Starbucks
si dirigevano verso l’appartamento di Jessy, che non era
lontano da Picadilly
Circus.
Beth avrebbe passato il capodanno lì, a Londra, e non vedeva
l’ora.
Jessy era un’artista fantastica e frequentava la
‘Royal accademy of arts’, una
delle più prestigiose scuole d’arte di Londra,
dove entravano solo 46 pittori
l’anno, e Beth vorrebbe tanto essere tra quelli.
Erano
passati pochi
giorni dal suo arrivo a Londra, e ogni giorno per Beth era una
scoperta, una
continua scoperta di luoghi da visitare, di foto da scattare, di
schizzi, di
cibo, di aria e neve… di Londra.
***
Era
ormai passato molto
tempo da quando Alec era andato via da Bath, non ricordava neanche
tanto bene
il motivo, o forse uno vero non c’era, era solo scappato come
gli capita spesso
di fare, così per staccare la spina.
Perché nonostante sia un ragazzo forte e combattivo, ogni
tanto scappa, come
fanno tutti, così senza neanche un motivo, o forse un motivo
vero c’è, solo non
si ha il coraggio di ammetterlo.
Girare nudo tra quelle quattro mura, che era il suo appartamento, gli
era ormai
abitudine, eppure in tutto quel circolo vizioso che vi è
nell’abitudine non
trovava riposo. Le sue giornate scorrevano nella noia,
nell’indecisione e in
qualsiasi altra cosa, che ora non ricordava; ma c’erano altri
momenti in cui
era vivo, completamente vivo, come quando suonava, guardava il cielo, o
camminava con il freddo fin dentro le ossa, e anche quando aveva una
ragazza
diversa ogni sera. Ma quest’ultima divenuta abitudine
incominciava ad
annoiarlo.
Era confuso, e non poco.
Eppure nonostante la sua vita stesse andando avanti a scrivere altre
pagine,
seppure insulse, c’era qualcosa che lo riportava indietro, e
sapeva benissimo
cosa, ma in tutti i modi cercava di non pensarci.
Era ormai passato molto tempo, ma quel qualcosa,
non riusciva ad
abbandonarlo.
Era frustrato, e non poco.
Maledizione, pensò.
Era passato molto tempo, e durante questo tempo aveva scritto molto, il
suo
diario in pelle, fedele amico, era riempito di parole, melodie, colori
che,
però, non riuscivano a trasformarsi in musica…
mancava qualcosa, e Alec non
sapeva cosa.
Ci pensava, giorno e notte, notte e giorno, e in tutte le ore, minuti e
secondi
che li attraversano, ma nulla; il vuoto.
<< Dannazione >>
urlò gettando il diario chissà dove, prendendo
il giubbotto in pelle e sbattendo la porta.
L’aria era così gelida, che sembrava rispecchiare
ciò che aveva dentro; non
sapeva il perché si sentisse così, come se la
fiamma dentro di lui si fosse
spenta, vuoto.
Una mano tra i capelli e l’altra a mantenere la Malboro tra
le labbra.
Cosa mi sta succedendo?
E Alec lo sapeva, lo sapeva benissimo, che era colpa di quel qualcosa,
di quel
dannatissimo qualcosa, che anche non volendo ammetterlo gli mancava.
Che anche non volendo ammetterlo cercava, ovunque, tra i volti dei
passanti,
nelle caffetterie, sui ponti, nell’acqua, nella musica.
Ma nonostante quel vuoto, in chissà quale parte dentro se,
nel suonare riusciva
quasi a riempirlo, perché in quegli istanti era vivo, ma non
abbastanza, non
così come desiderava esserlo.
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Ink
Droplets
Care
lettrici,
eccomi qui con un nuovo capitolo;
ho l’impressione, e spero di sbagliarmi, che nessuno di voi
legga mai questo corner,
che per me è importante, inoltre ho tardato nello scrivere
il capitolo, non
solo perché non avevo tempo, ma anche perché non
vedo interesse da parte
vostra.
Quindi in conclusione, per non allungarmi troppo, vorrei sapere se
volete che
continui questa storia. Lo volete?
A parte questo, spero che il capitolo vi piaccia.
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