Capitolo
Dodici: il Mago
dell’Ovest
Arthur
si appoggiò alla poltrona come se le sue ossa fossero
diventate d’acqua.
Carriedo
aveva portato Lovino Belial, quella mattina, perché
rispettasse gli accordi: aveva ricondotto alla sanità
mentale tutti i marinai
che si trovavano internati a causa sua. Poi, la notizia: Francis era
stato
giustiziato.
Arthur
premette le dita sulle tempie, accigliato. Perché il
Vaticano non gli aveva parlato di quell’esecuzione? Temeva
che avrebbe fatto
qualcosa per sabotarli?
Il
Mago dell’Ovest strinse un pugno e lo abbatté sul
bracciolo della poltrona.
Avevano
sempre usato i suoi poteri ricattandolo con la
salvezza della sua patria. E lo avevano ingannato, facendogli credere
che il
Marauder fosse ancora in vita.
Non
poteva mettere in pericolo Britannia, ma poteva restituire
il tradimento al Vaticano. Aiutando l’ultimo Carriedo,
avrebbe fatto in qualche
modo ammenda per l’eccidio del suo popolo.
Si
diresse verso la cassaforte, nascosta dietro il quadro
del Leone Incoronato. Vi passò sopra la mano in modo che le
pietre incastonate
riconoscessero la sua aura, e, quando la porta d’acciaio si
schiuse, afferrò
con cura l’unico monile lì conservato: un non ti
scordar di me di cristallo,
sottile come un fiocco di neve. Lo avvolse in un panno, badando di non
incrinare nemmeno un petalo, e si preparò al successivo
incantesimo. Pronunciò
una litania secca, e si portò esattamente davanti allo
specchio; allungò la
mano verso il suo riflesso, che fece lo stesso. Strattonò le
dita della
creatura al di là dello specchio, e un secondo se stesso
ruzzolò fuori dalla
superficie riflettente.
«Che
maniere!» si lamentò il secondo Arthur,
rialzandosi
stizzito.
«Non
abbiamo tempo da perdere. Cambiati» lo spronò
bruscamente l’originale, e gli indicò un paravento
spartano in un angolo della
camera. La sua copia si avviò fumando indignazione, e
obiettò:
«Cos’è
questa palandrana antidiluviana?»
«Una
palandrana antidiluviana» confermò Arthur.
«È l’unico
indumento di Avalon che mi resta.»
«Un
magnifico esemplare di muffa su tessuto» commentò
l’altro, spostando il mantello grezzo con la punta del piede.
«Non
è ammuffito» il Mago dell’Ovest gli
gettò addosso una
casacca e un paio di pantaloni. «Non puoi stare con
l’uniforme da capitano.»
«Creerebbe
confusione negli uomini?» la copia si tolse
bruscamente i vestiti dalla testa e si nascose dietro il paravento per
infilarseli.
«No.
Ti renderebbe troppo riconoscibile. Stai per salpare
con la Reina de la Oscuridad.»
Una
testa color paglia sbucò dal paravento, inviperita.
«Come
sarebbe a dire?»
«Non
posso abbandonare Britannia, ma non sopporto di essere
in debito con un pirata: andrai con lui e lo aiuterai a ritrovare il
Marauder.»
La
copia stava per reclamare, ma la sua bocca rimase aperta
a metà.
«Il
Marauder non può morire» recitò in un
soffio.
«Oh,
finalmente la condivisione di pensiero si sta
completando» si complimentò Arthur.
«Saresti stato un doppio molto scarso se
fossi rimasto con la testa vuota.»
«Questo
mi avrebbe reso solo più simile
all’originale»
replicò piccato l’altro, stringendo la cintura dei
calzoni.
«Riconosco
il mio sarcasmo spietato» notò il Mago
dell’Ovest. «Sei una copia ben riuscita, se non
altro.»
Il
secondo Arthur uscì dal paravento, completamente vestito.
L’originale approvò con un cenno del capo: gli
abiti da boscaiolo nascondevano
a dovere le loro somiglianze, e il largo cappuccio della palandrana di
Avalon
celava il viso identico a quello del Britanno.
«Vai»
comandò Arthur, e gli porse il minuscolo orpello, ben
fasciato nel panno soffice. «Non voglio che quel pirata
avanzi altre pretese
assurde, in futuro.»
La
sua copia sollevò il cappuccio ombroso, e due occhi
uguali ai suoi lo scandagliarono mentre l’altro lo accusava
amaramente:
«La
condivisione di pensieri si è completata. Non è
per non
avere un debito con il pirata che mi stai mandando»
soppesò il fiore di
cristallo e intonò: «“Mi riconoscerai in
qualunque forma?”»
«Vai»
tagliò corto Arthur. La sua copia non aggiunse altro,
e lasciò la stanza.
Nelle
menti di due maghi si affollarono le stesse memorie.
Il
dolore e la dolcezza non furono dimezzati, anche se
passarono per due cuori diversi.
***
Arthur
aveva appena compiuto la maggiore età, a
quell’epoca.
Merlino,
suo nonno, lo prendeva in giro dicendo che gli
erano cresciute solo le ossa, e non il resto: non aveva un grammo di
carne su
quelle membra rachitiche. Ma la sua gracile forma fisica non aveva
compromesso
i suoi poteri: accorrevano da tutta Faerie per acclamare i successi
dell’ultimo
rampollo degli Avalon. Era il gran cerimoniere nelle feste di paese,
dove
faceva comparire dal nulla suntuosi banchetti e strumenti musicali che
suonavano da soli. La gente si divertiva, e Arthur rideva con loro.
Avrebbe
dovuto essere così anche Beltaine.
Il
nonno Merlino lo prese sulle gambe, e gli comunicò il
loro progetto: erano convinti che esistessero altri mondi, oltre a
Faerie, e
avevano intenzione di inviare lui, Arthur, ad esplorarli. Sarebbe stato
un
enorme passo avanti per il loro mondo: avrebbero potuto studiare nuovi
popoli,
forse nuove razze, e avrebbero potuto intrattenere proficui scambi
commerciali.
Arthur
aveva accettato: essere il primo Avalon esploratore
era un onore come non avrebbe mai sperato di riceverne. Avevano poi
deciso il
giorno della sua partenza: Beltaine, quando l’ultimo fuoco si
fosse spento.
Avevano
festeggiato e banchettato, come sempre: il Mago
dell’Ovest ricordava ancora il calore del fuoco scoppiettante
nei falò e quello
del sidro giù per la gola, le musiche celtiche e le danze,
il tappeto di fiori
caduti dalle ghirlande con cui le giovani si erano addobbate i capelli
e
l’odore turbinante di dozzine di portate servite sullo stesso
tavolo.
Merlino
gli aveva drappeggiato quella vecchia palandrana
addosso, cimelio del capostipite degli Avalon; l’unico decoro
di quella
mantella era il simbolo del melo, l’albero sacro per la loro
famiglia, ricamato
in oro all’interno del tessuto, in modo che non fosse
visibile all’esterno.
Arthur
aveva salutato tutti con un plateale gesto della
mano, ed era saltato nel portale aperto per lui dal nonno.
Se
avesse saputo cosa lo aspettava, non avrebbe mai
intrapreso quel viaggio.
Si
era trovato in un mondo folle e tenebroso, pieno di gente
troppo indaffarata per parlare con il ragazzino straniero, un pianeta
pieno di
odori strani e pungenti, di rumori striduli e di cieli carichi di
nuvole. Su
Faerie non era così: il cielo non era mai sprovvisto di un
raggio di sole, e
sul volto della gente non mancava mai il sorriso.
Arthur
girò per le strade per giorni e giorni, in cerca di
una minima cosa che potesse piacergli in quel posto, ma non riusciva a
trovare
un solo dettaglio gradevole: gli pareva di vivere in un mondo soffocato
da un
manto di polvere. I cibi gli parevano insipidi se non disgustosi, i
rumori
troppo forti, gli odori troppo penetranti, la gente troppo gretta e il
cielo
troppo triste.
Estrasse
dunque dalla tasca la verga che il nonno gli aveva
dato, e la spezzò come era stato istruito. Non
c’era nulla che quel pianeta
potesse insegnare o offrire a Faerie.
Ma
le estremità della verga rimasero immobili nelle sue
mani: niente fumo, niente scintille. Niente casa.
In
quel giorno, gli Avalon scoprirono che si poteva approdare
in un mondo parallelo, ma non si poteva fare ritorno.
***
Lo
incontrò cinquant’anni dopo, quando si era
abituato a
quel mondo come ci si abitua al dolore di un dente guasto.
La
sua divisa sfarzosa fendeva l’aria grigia come un faro,
con il blu intenso della giacca di sartoria e il rosso infuocato dei
pantaloni
alla zuava. Procedeva con un’andatura indolente ed elegante,
come se non
volesse affaticare gli stivali scuri. Esaminava lentamente il mondo con
gli
astuti occhi azzurri, e un accenno di sorriso aleggiava sulle sue
labbra. Di
tanto in tanto portava dietro le orecchie i capelli biondi, lievemente
ondulati, e accarezzava la barba curata.
Arthur
non si sentì intimorito quando quelle iridi furbe si
posarono su di lui.
Agli
occhi dell’umano, doveva apparire come un normale
ragazzo prossimo a uscire dall’adolescenza. Aveva scoperto,
tempo addietro, che
i suoi ritmi di crescita erano molto diversi rispetto a quelli degli
abitanti
di quel mondo: occorrevano tre generazioni umane perché il
suo viso apparisse
invecchiato di un paio di anni. Era stato costretto a trasferirsi ogni
volta in
cui la sua età immobile avrebbe potuto tradire le sue
origini aliene.
«Non
sei di qui, vero, ragazzo?» domandò
l’uomo, con un
accento arrotondato.
«No
signore» confermò neutro Arthur. «Abito
qui solo da
qualche anno.»
Lo
sconosciuto puntò una mano sul muro alle sue spalle, e
insinuò con un ghigno malizioso:
«E
da quanto hai abbandonato il tuo mondo?»
Rise
dello sguardo spinoso che gli lanciarono quegli occhi
verdi, e si pizzicò la barba bionda mentre lo rassicurava:
«Non
agitarti, piccolo. Sono un Marauder: sono abituato a
vedere cose che gli altri non vedono. In particolare, sono bravo a
riconoscere
le creature che non sono di questo mondo.»
Il
viso dell’uomo si avvicinò al suo a tal punto che
Arthur
lo respinse schiaffandogli una mano in faccia.
«Non
sei di questo mondo, ma sei troppo materiale per essere
un fantasma» lo sconosciuto si allontanò
sorridendo. «Sei un alieno?»
«Bada
ai tuoi affari» replicò secco lui, voltandosi.
«Oh,
posso anche farlo» l’uomo gli appoggiò
una mano sulla
spalla, che il giovane si scrollò di dosso bruscamente.
«Ma dopo tu rimarresti
da solo. Di nuovo» c’era il veleno di chi sa di
pungolare un tasto dolente
nelle sue parole. «Non credo che molte persone ti abbiano
rivolto la parola,
negli ultimi cinquant’anni.»
Prima
che il ragazzo potesse chiedergli come faceva a sapere
che era lì da cinque decadi, l’uomo stese il
braccio con gesto teatrale e
indicò l’acciottolato.
«In
fondo a questa strada c’è un albero di melo. Mi
troverai
lì nei prossimi giorni. Nel caso avessi voglia di parlare
con qualcuno. Sempre
che la tua lingua non si sia atrofizzata, in tutto questo
tempo» aggiunse, con
un ghigno che il giovane trovò semplicemente insopportabile.
«Puoi
anche mummificarti, sotto quell’albero di mele»
tranciò la conversazione Arthur, voltandogli le spalle.
L’uomo
lo osservò placido mentre spariva lungo la strada.
Voltò il viso come se stesse parlando con una persona alle
sue spalle e
mormorò, raffinato:
«Lo
so, Jeanne. Verrà. Nemmeno un alieno è fatto per
vivere
da solo per sempre.»
***
La
previsione dell’uomo si rivelò corretta: occorse
una
settimana intera perché Arthur vincesse la lotta contro il
suo orgoglio e
riuscisse a trascinarsi sotto l’albero di mele.
Lo
sconosciuto lo aveva invitato a prendere posto vicino a
lui; Arthur si era seduto a tre metri di distanza.
E
avevano cominciato a parlare.
Dopo
molti giorni e un’incalcolabile dose di pazienza da
parte dell’uomo, l’Avalon aveva rivelato le sue
origini e descritto il suo
mondo.
Lo
sconosciuto aveva così scoperto un luogo chiamato Faerie,
che corrispondeva ai racconti mitologici dell’età
dell’oro: un paese che non
conosceva carestia o grigiore, che non sapeva cosa fossero malattia e
morte.
Arthur
strappò un filo d’erba quando gli fece quella
confessione.
«Non
sapevo che gli umani potessero morire.»
«Nel
tuo mondo le persone non muoiono?» si sorprese
l’uomo.
Il
giovane chiuse gli occhi, cercando di isolarsi dalle
brutture che aveva visto nella dimensione degli uomini. Li
riaprì con un
sospiro sconfortato, e paragonò:
«Quando
un abitante di Faerie sente che il suo tempo sta per
finire, si avvicina al lago di Vivien… e le onde lo
conducono alla sua nuova
dimora. È un abbandono dolce, è come…
tornare a casa» le dita del ragazzo
corsero a intrecciarsi con l’erba sotto di lui, senza pace.
«Qui invece ho
visto gente morire urlando… soffrendo… non
pensavo che la morte potesse essere
così orribile.»
L’uomo
gli lasciò il tempo per riassorbire il colpo che
quelle orribili memorie avevano assestato al suo animo delicato. Quando
Arthur
parlò di nuovo, il suo tono trasudava
l’ostinazione di chi non vuole cedere al
male.
«E
poi… qui ho imparato cosa vuol dire
“ammalarsi”. A Faerie
nessuno si ammala. Invece qui… ho visto cose atroci
annidarsi nei corpi delle
persone e portarle alla morte.»
«Non
è un mondo in cui è facile vivere, il
nostro» il tono
dolce dell’uomo sembrò in qualche modo rendere le
sue affermazioni vellutate. «Ti
offre mille motivi, mille ostacoli per tirarti a fondo. Devi avere una
ragione
per vivere e aggrapparti a quella con tutte le tue forze, se non vuoi
soccombere» gli occhi dal colore dei fiordalisi si
appuntarono sfacciati sul
suo viso, e lo interrogarono assieme alle parole:
«Sembra
un bel posto, la tua Faerie. Niente malattie, un
addio gentile… perché l’hai
abbandonata?»
«Volevamo
conoscere altri mondi» le labbra di Arthur si
contrassero, rimpiangendo la sua terra natia. «Ma non
sapevamo che non si
potesse fare ritorno.»
L’uomo
colmò la distanza tra loro e gli appoggiò una
mano
sui capelli stopposi. Il giovane, annegato nei suoi ricordi,
impiegò qualche
secondo per accorgersi che l’altro lo stava toccando.
«I
viaggi interdimensionali funzionano in una sola direzione»
ritrasse la mano prima che Arthur lo graffiasse come un gatto
selvatico. «Questo
vale per tutti i mondi. Morendo, si entra in un’altra
dimensione, e non è
possibile fare ritorno. Per questo esistiamo noi Marauder: traghettiamo
le
anime che non hanno trovato la strada dopo il grande salto. Ma,
purtroppo, non
posso fare nulla per te» l’uomo avvertì
una stretta al cuore, quando lo
sfavillio speranzoso appena acceso negli occhi del giovane si spense
miseramente. «Tu non sei uno spirito. Non posso traghettare
un essere vivente.
E poi, come ti ho già detto, i viaggi di questo tipo
funzionano in una sola
direzione.»
«Quindi
non c’è nulla che io possa fare?»
Quella
domanda che sapeva di preghiera doveva essere costata
un enorme sforzo a quella bocca orgogliosa. L’uomo gli
circondò le spalle con
un braccio, incurante della sua ritrosia, ed espose:
«Non
puoi fare nulla per tornare a casa, ma puoi fare
qualcosa per rendere questo posto la tua nuova
casa.»
Arthur
lo spinse via con poca grazia, e si alzò in piedi
irritato.
«Non
vedo come.»
«Per
la via più semplice: trova qualcosa da proteggere»
l’altro si alzò a sua volta, adombrandolo con i
suoi centimetri in più. «Hai
visto la morte, hai visto la malattia… ma tutto questo non
ti ha provocato solo
paura e delusione, giusto? Non hai sentito qualcosa di diverso,
più o meno qui?»
si appoggiò una mano sulla pancia, e l’espressione
del giovane fu una conferma
sufficiente. «Quella è empatia. Hai visto il loro
dolore, e ti è sembrato di
sentirlo sulla pelle. Per questo hai odiato la morte e la malattia di
questo
mondo: non portano sofferenza solo al malato o al defunto, ma la
estendono a
tutti i presenti. Non vorresti fare qualcosa per fermare questa
epidemia?»
Arthur
si morse le labbra: non capiva in che modo lui potesse
operare una simile trasformazione, ma non voleva abbassarsi a
elemosinare
spiegazioni dal Fiammingo.
L’uomo
lo liberò da quel conflitto, annunciando:
«Per
aver affrontato un viaggio del genere, devi avere dei
poteri eccezionali. Usali per il bene della gente e presto il tuo
talento verrà
riconosciuto.»
L’uomo
gli scompigliò i capelli, e saltellò via prima
che il
ragazzo potesse colpirlo.
«Non
ti lascerò solo. Questo mondo è troppo efferato
per
affrontarlo senza un po’ di compagnia.»
«Non
so nemmeno il tuo nome» gli fece notare Arthur. Quel
ragazzo aveva un modo davvero grazioso di ottenere le informazioni
evitando il
fastidio di domandare e mostrare interesse.
«Francis
Bonnefoy» si presentò, con un inchino
aristocratico. «Finalmente me l’hai
chiesto.»
«Sei
tu ad avermelo detto.»
«Ma
certo» concedette il Fiammingo, prima di voltarsi verso
la strada che conduceva al cuore della città. «Ora
andiamo: abbiamo del lavoro
da fare.»
«Ma
tu non sai il mio nome!»
Il
sorriso dell’uomo mutò la sua fonte:
dall’astuzia migrò alla
saggezza.
«Lo
so già, Arthur Kirkland, della dinastia degli Avalon.
Così come sapevo che saresti venuto sotto il melo,
perché è il simbolo della
tua famiglia, ricamato nel tuo mantello.»
Il
giovane indietreggiò, fissando guardingo
quell’uomo.
«Come
sai tutte queste cose?» un globo di fuoco si
gonfiò
rombando nel palmo di Arthur. Provò quasi una punta di
nostalgia nel sentire le
fiamme vorticare contro le sue dita: erano decenni che non utilizzava
la magia,
temendo le ire e i giudizi degli umani.
Francis
si inginocchiò, quasi volesse annullare il suo
vantaggio di altezza sul giovane.
«Essere
un Marauder non significa solo essere un
traghettatore. Come ti ho detto, noi vediamo cose che gli altri non
vedono,
sentiamo cose che gli altri non sentono.»
«Sei
un sensitivo?»
«In
un certo senso.»
«E
grazie ai tuoi poteri riesci a leggere il passato altrui?»
«Oh,
no, quello è merito di Jeanne. Lei vede molto più
lontano di me.»
«Jeanne?»
L’uomo
gli porse una mano senza reali speranze, sorridendo.
«Ci
sono molte cose di me che non sai. Ma sarò felice di
rivelartele, se vorrai camminare sulla mia stessa strada.»
Nemmeno
Francis lo aveva previsto: Arthur afferrò quella
mano.
***
Aveva
trovato la sua strada.
Lo
capì quando il sole di Faerie sorse sui volti dei familiari
dell’ammalato, che si rialzò dal letto sulle
proprie gambe. Gli avevano dato
pochi giorni di vita, ed era bastato il tocco di quel ragazzo dagli
insondabili
occhi verdi per riportarlo in perfetta salute.
Quel
mondo gli parve meno ostile, mentre tutta la famiglia
si accalcava intorno a lui in lacrime. Erano delle lacrime belle da
vedere:
erano scaldate dai raggi della gioia, e scorrevano negli argini dei
sorrisi.
Continuò
a seminare lacrime tiepide e felicità in ogni
provincia del paese. Poiché se ne andava sempre al tramonto,
la gente prese a
chiamarlo “Il Mago che va dove il sole muore”,
presto abbreviato in “Il Mago
dell’Ovest”. Arthur sobbalzò la prima
volta che sentì un bambino appiccicargli
addosso quel nomignolo; con il tempo, cominciò a trovarlo
piacevole: la gente
lo pronunciava sempre con la speranza negli occhi. Era una specie di
mantra
della gioia, ed era stato lui ad averlo portato.
«Hai
ottenuto una popolarità enorme in soli due anni»
lo
lodò una sera Francis. «Il tuo nome è
conosciuto in tutta la Compagnia di
Britannia, ormai.»
«Il
mio appellativo, non il mio vero nome.»
«Come
sei pignolo.»
Arthur
studiò l’uomo seduto sul suo letto con le gambe
accavallate. Lui non aveva più una casa, quindi non soffriva
particolarmente
nel cambiare continuamente città; ma si chiedeva per quale
motivo il Marauder lo
seguisse costantemente, senza mai esprimere il desiderio di tornare a
casa.
«È
strano» sbuffò, girando la poltrona in modo da
poter
fronteggiare direttamente il Fiammingo.
«Cosa
è strano?»
«Non
hai una famiglia? Una casa a cui fare ritorno? Ormai
sono due anni che viaggi con me» storse il naso, e aggiunse:
«E hai anche una
camera tua, in questo albergo, eppure continui a invadere la
mia.»
Francis
incrociò le braccia dietro la testa e si lasciò
cadere di schiena sul materasso.
«Invado
la tua camera perché mi piace la tua compagnia. Mi
piace quando mi racconti di Faerie, e trovo interessanti i discorsi che
imbastiamo su questo mondo» fissò il soffitto con
quel suo sguardo speculativo,
come se vedesse molto più di una semplice parete imbiancata.
«Ma non è tempo di
tornare a casa. Non in questa vita.»
«Spiegati
meglio» lo spronò Arthur.
Le
dita del Marauder si mossero nell’aria come se stessero
salendo una piccolissima scala a pioli, e l’uomo
raccontò:
«Non
sono l’unico Marauder. Anzi, per essere precisi,
“Marauder” è il nome di tutti i nati in
terra Fiamminga che dimostrino poteri
paranormali diretti alla comunicazione e al traghettamento degli
spiriti.
Tuttavia, io sono il Marauder. Sono
stato il primo Fiammingo in cui si siano manifestati i poteri che ci
hanno resi
famosi. Circa trecento anni fa.»
Le
sopracciglia dell’alieno si incontrarono con sospetto, e
l’uomo sciolse la loro tensione proseguendo:
«Sono
un umano, come ogni altro abitante della
Confederazione. Ma, forse per via dei miei poteri, sono immortale. Al
tuo
contrario, però, non riesco a mantenere lo stesso corpo per
sempre: quando le
mie vesti materiali sono troppo sciupate, devo cambiarle.
Così fingo di morire:
la mia anima trasmigra in un altro corpo, e io continuo a vivere con le
mie
memorie e il mio spirito inalterati.»
«Io
non sono immortale. Vivo solo molto più a lungo degli
esseri umani.»
«Nemmeno
io sono sicuro di essere immortale. So solo che,
fino a questo momento, la mia anima ha scelto volontariamente quando
abbandonare un corpo e quando possederne un altro» sorrise
bonario, e
teatralizzò: «Il Marauder non muore mai. Si prende
solo una breve vacanza.»
«Funziona
così per tutti i Marauder?»
«No,
solo per me. Con il mio popolo condivido i poteri, non
il destino.»
«E
perché adesso non sei a guidare il tuo popolo?»
Francis
sospirò, scuotendo la testa.
«È
difficile, per gli esterni, comprendere lo stile di vita
dei Marauder: noi vediamo il mondo e lo scorrere del tempo in modo
totalmente
differente rispetto agli altri. Non sempre il ruolo di un comandante
è quello
di guidare il suo popolo tramite la politica. Ogni tanto, deve
allontanarsi per
accendere la miccia di cambiamenti epocali.»
«Io
sarei un cambiamento epocale?»
Francis
si rimise a sedere con uno scatto, e si voltò verso
di lui con l’espressione del gatto che caccia il topo.
«Sei
un alieno proveniente da una terra incantata, sei quasi
immortale e i tuoi poteri hanno salvato in due anni metà
delle persone presenti
nella Compagnia di Britannia. Sei uno sconvolgimento abbastanza
vistoso,
Arthur.»
Il
ragazzo si alzò dalla poltrona, e si drappeggiò
sul viso
la sua espressione più seria mentre proclamava:
«Non
sono un fenomeno da studiare.»
«Lo
so. È per questo che ti sto accompagnando.»
«Se
è solo per divertirti, puoi fare ritorno a casa»
replicò
asciutto il giovane, voltandogli le spalle. La premessa addolorata
dell’uomo lo
accarezzò tra le scapole.
«Non
sono qui per divertirmi, ma per aiutarti.»
Francis
sapeva che quelle spalle orgogliose non si sarebbero
voltate, quindi si rassegnò alla prospettiva di parlare con
la sua nuca.
«Non
ci siamo incontrati per caso, due anni fa. Ti stavo
cercando, Arthur degli Avalon. Jeanne mi aveva parlato di te, mi aveva
detto
dove trovarti.»
«Chi
sarebbe questa Jeanne che nomini sempre?» lo interruppe
bruscamente il giovane.
Francis
si portò una mano al cuore e accostò
l’altra alle
labbra, come per un baciamano cavalleresco.
«È
la coraggiosa pulzella che ha deciso di essere il mio
spirito guida. Lei non ha limiti fisici, capisci? È per
questo che può vedere
nel futuro, che può rivelarmi ciò che si trova
nel passato o nella mente degli
altri.»
«Perché
Jeanne ti avrebbe parlato di me?»
Il
Marauder prese fiato, grave. Sperava di affrontare quel
discorso con uno spirito più sereno. Ma era colpa sua e del
suo continuo
temporeggiare se quell’alieno era tanto infuriato con lui:
aveva promesso due
anni prima di rivelargli ogni cosa e non lo aveva mai fatto. Era tempo
di mantenere
quel giuramento.
«Verranno
tempi molto duri. Arthur, tutto quello che hai
sempre detestato in questo mondo... l’odio, il sangue, la
morte… ti
avvolgeranno, un giorno. Io sono qui… per guidarti lungo
quella strada di
oscurità.»
Arthur
si voltò come se fosse stato morso da una vipera, e
Francis alzò il tono di voce per impedirgli di
interromperlo: doveva finire il
discorso prima che il ragazzo si arrabbiasse ancora di più
con lui.
«È
inevitabile. Lo hai detto anche tu: questo mondo è
diversissimo dalla bellezza di Faerie. Questo mondo è marcio. Jeanne ha visto nel futuro, e
avrà luogo un’enorme
rivoluzione: ci sarà un’epoca nuova,
più luminosa e pacifica. Ma, per ottenere
quella beatitudine, dobbiamo prima sporcarci le mani con il fango di
questo
mondo ed eliminare il marciume» mille interrogativi si
agitavano dietro le
iridi acquamarina dell’alieno, e Francis continuò,
senza sosta: «Il Vaticano
creerà da solo i demoni che lo annienteranno. E tu, Arthur,
contribuirai alla
creazione di uno di essi. Ma non lo farai per malvagità: lo
farai per il popolo
che giurerai di proteggere.»
«Jeanne
potrebbe sbagliarsi!» esplose Arthur.
«No.
Jeanne non può rivelarmi i nomi di coloro che
sopravvivranno, e non può dirmi in che modo il Vaticano
verrà annientato, se
con la distruzione fisica o se con una riforma dall’interno.
L’unica cosa che
so, è che molto sangue verrà versato. E parte di
quel sangue colerà sulle tue
mani» si inginocchiò, come aveva fatto due anni
prima quando gli aveva rivelato
di essere un sensitivo: «Io non ti giudicherò.
Mai. Ma altri lo faranno. Dovrai
essere molto forte per affrontare tutto questo.»
«O
molto insensibile, come la maggior parte degli umani»
Arthur trasse un profondo respiro, e lo accusò:
«Perché non me lo hai detto
prima?»
«Non
volevo caricarti di questo fardello.»
«E
perché me lo dici ora?»
«Perché
ho visto la tua espressione, la prima volta che mi
hai parlato della malattia e della morte in questo mondo, e ho visto
come si
illumina il tuo viso ogni volta che riesci a salvare qualcuno. So che
ami la
vita e non la distruzione. Ma queste cose devono
succedere. E voglio che, quando accadranno, tu sappia che non
è colpa tua: sono
eventi necessari al rinnovamento» l’uomo
afferrò delicatamente la mano del
giovane, e la portò vicino al suo viso. «Io
sarò con te, Arthur. Ma, forse, non
in questa forma.»
«Che
intendi dire?»
«Come
ti ho detto, questo corpo si usura: probabilmente sarò
costretto a cambiarlo, prima che tutto ciò accada»
sollevò gli occhi dal colore
dei fiordalisi su di lui e mormorò: «Ma non
scomparirò; cambierò solo forma. Mi
riconoscerai, Arthur? Anche nelle mie prossime incarnazioni?»
«Non
vedo come» il giovane si riappropriò della sua
mano con
uno scrollone, e tornò a sprofondarsi in poltrona, immerso
in una caligine di
rabbia e depressione. Aveva trovato finalmente un motivo per vivere in
quel
mondo, e Francis, con le sue previsioni, lo aveva appena disintegrato.
Un
giorno, avrebbe infranto quegli stessi sorrisi che stava facendo
sorgere. Che senso
aveva continuare quel cammino, se poi avrebbe annientato ciò
che lui stesso
aveva creato?
La
mano del Marauder si librò di fronte al suo viso,
reggendo un delicato fiore di cristallo.
«Utilizzerò
di nuovo questo nome, quando verrà il tempo di
incontrarsi ancora. “Francis Bonnefoy”. E, se non
sapessi dove trovarmi, usa
questo fiore: ti indicherà la strada.»
«Che
razza di fiore è?» sbuffò Arthur, senza
afferrare il
monile.
«È
un non ti scordar di me» lo presentò Francis, con
un
sorrisetto enigmatico.
L’alieno
fissò quell’orpello di cristallo incantato e gli
occhi blu che lo osservavano dal bracciolo della poltrona.
Artigliò con le dita
il tessuto imbottito, e digrignò i denti, sibilando:
«Non
c’è alternativa? Tutte queste cose…
devono succedere
per forza?»
La
mano del Marauder salì delicata a lambirgli il viso. Era
calda e gentile, e Arthur non la respinse: anche se il suo orgoglio
ruggiva, in
quel momento aveva bisogno di essere consolato. Non aveva mai
desiderato un
mondo simile. La sua Faerie, la sua amata Faerie non conosceva tutte
quelle
sofferenze; si era trovato circondato da quelle brutture sconosciute, e
un
giorno sarebbe diventato la forza motrice di una di esse. Non era
giusto: lui
era venuto in quel mondo per amore di conoscenza, non per sete di
sangue.
«Mi
dispiace» la voce del Marauder lo accarezzò
insieme alle
sue dita gentili. «So quanto odi la corruzione di questo
mondo. So quanto vuoi
tornare a Faerie. Ma purtroppo sei qui, e non puoi tornare indietro.
Devi
imparare a ballare sulla melodia stonata di questo mondo.»
«Odio
quella melodia» ringhiò Arthur.
Il
fiore emise un tintinnio fragile quando venne appoggiato
sul cassettone, e le braccia del Marauder lo avvolsero dolcemente con
un
fruscio caldo.
«Lo
so. Tutti noi la odiamo. Per questo ognuno di noi urla
per sovrastarla.»
«Anche
io dovrò urlare.»
«Purtroppo
sì.»
Arthur
sciolse il suo abbraccio con decisione, ma senza
scortesia. Puntò gli occhi acquamarina sul viso del Marauder
e la sua voce
devastata vibrò:
«Così
sia.»
La
ricompensa per la sua fermezza fu il sorriso serafico che
sbocciò sul viso del Marauder.
«Sei
davvero coraggioso. Molto più di noi umani. Forse tu
riuscirai davvero a cambiare questo mondo.»
«Non
da solo» patteggiò brusco Arthur.
«Ovviamente»
confermò Francis, facendo tintinnare un petalo
del fiore. «Né in questa, né nelle
prossime reincarnazioni.»
«Sarà
meglio per te. Sei tu ad avermi trascinato in questo
uragano» lo rimproverò Arthur.
«E
sarò io ad accompagnarti fino alla fine.»
Non
poteva fare molto per alleviare il destino truculento
che aspettava quel giovane. Ma anche l’Inferno poteva
sembrare una taverna
troppo riscaldata, se la compagnia era buona.
***
Cinque
anni dopo, il Leone Incoronato lo aveva chiamato al
suo cospetto.
Arthur
si era sentito improvvisamente fuori posto, con la
sua palandrana sdrucita in mezzo ad una profusione di vestiti di
broccato,
titoli altisonanti e gioielli preziosi.
Si
era inchinato di fronte al re mentre la gente bisbigliava
sulle sue origini misteriose. Il Leone Incoronato, quello era
l’appellativo
formale per il sovrano, aveva storto il naso di fronte alla modestia
del suo
vestiario, ma l’eccezionale portata dei suoi poteri aveva
sopperito a quella
lieve pecca stilistica.
Gli
eventi si erano succeduti con una rapidità da capogiro,
come nelle fantasie di un ubriaco: la Compagnia di Britannia
necessitava di un
incantatore che fosse paragonabile all’Asse e al Figlio del
Cielo per competere
con il Vaticano e il Sistema Asean; per questo lo avevano velocemente
investito
della carica di Mago di Corte, presto cambiata in Mago
dell’Ovest poiché il
popolo sembrava reagire con più passione a
quell’epiteto nato nei sobborghi.
Arthur
era presto diventato la stella guida della
stregoneria nella Compagnia di Britannia e non solo: i corsari reali
avevano
richiesto la sua presenza durante i trasporti più importanti
per scongiurare il
pericolo della pirateria spaziale.
La
notorietà del Mago dell’Ovest si era
così sparsa nei
pianeti della Confederazione, portando, nella primavera di sette anni
dopo, alla
firma del trattato siglato dall’Asse e dal Figlio del Cielo,
in cui il Mago
dell’Ovest veniva riconosciuto come incantatore di livello
superiore; durante
quello stesso inverno fu stipulato un ulteriore riconoscimento da parte
del
Samurai e del Guardiano, che accettavano ufficialmente il Mago
dell’Ovest come
Terza Spada.
Arthur
aveva rivelato al sovrano la sua peculiarità: era un
alieno in grado di vivere molto più a lungo degli esseri
umani. Il Leone
Incoronato aveva così tenuto un discorso in cui, omettendo
la sua nascita
aliena, aveva annunciato al popolo che i grandiosi poteri del loro
incantatore
gli avrebbero consentito di vivere per secoli e di proteggere la loro
amata
Britannia. La folla era esplosa in un boato di felicità.
E,
a ogni suo successo, Francis era con lui.
Lo
accompagnò in tutti quegli anni irrefrenabili,
finché nei
suoi capelli non cominciarono a scorrere alcune ciocche argentate.
«Sei
invecchiato» Arthur sottolineò con lo sguardo le
lievi
rughe a lato degli occhi blu e la chioma ingrigita.
«Quando
rinascerò, sarò molto più giovane di
te» il Marauder
trasse un profondo respiro, passando una mano sul volto non
più perfettamente
liscio. Aspettò qualche secondo prima di racimolare la forza
necessaria ad
annunciare: «Temo che sia arrivato il momento di
salutarci.»
Arthur
aveva contenuto lo spavento tra le spalle irrigidite.
Temeva la solitudine, ed era colpa del Fiammingo: se non avesse
riscoperto
quanto era bello avere qualcuno su cui contare, non avrebbe risentito
così
tanto della sua perdita.
«Chiedi
al fiore. E ricordati: quando sarà tempo di
incontrarsi di nuovo, avrò questo nome.»
«Francis
Bonnefoy.»
Il
Marauder annuì.
«Al
prossimo incontro, Arthur degli Avalon» ghignò,
malizioso. «O dovrei chiamarti con il cognome che ti ha
donato il re?»
«Kirkland
è un bel cognome» si difese il Mago
dell’Ovest.
«Ma
è il tuo vero cognome a ricordarti le tue radici.»
Il
sorriso di Francis si accentuò ulteriormente mentre gli
scoccava la sua ultima frecciatina:
«Jeanne
dice che, forse, quando ci incontreremo di nuovo,
sarai abbastanza maturo da dirmi ciò che ora ti vergogni di
confessare.»
«Non
ho proprio niente da confessare!»
«Hai
negato troppo velocemente per essere credibile.»
«Non
te ne stavi andando?»
«Hai
ragione.»
Le
labbra del Marauder si appoggiarono alla sua nuca, e le
parole gli scorsero sul collo.
«Sii
forte, Arthur degli Avalon.»
Il
Mago dell’Ovest si voltò di scatto, ma non vi era
più
nulla, in quella stanza svuotata dalla presenza del Fiammingo.
Strinse
i denti e raddrizzò lo sguardo.
I
tempi duri non erano nemmeno cominciati.
***
Passarono
cento anni prima che dalle terre Fiamminghe
giungesse la notizia: era nato un bambino con gli occhi color
fiordaliso e i
capelli biondi. Era destinato a diventare la guida di Marauder. Il suo
nome era
Francis Bonnefoy.
Trascorsero
nove anni prima che potessero incontrarsi di
nuovo.
Lo
trovò nel suo studio, beatamente adagiato sulla poltrona
dietro la scrivania; l’espressione dispettosa di un bambino
pronto a vendicarsi
si dipinse su quel volto paffuto.
«Sei
invecchiato» Francis gli restituì le parole di
più di
cento anni prima.
«E
tu sei un marmocchio» replicò Arthur.
«Touché» ammise il
Fiammingo.
«Come
sei arrivato qui?» lo interrogò il Mago
dell’Ovest,
con tono stanco.
«Non
hai cambiato la serratura, in tutti questi anni» fu la
risposta evasiva di Francis.
Arthur
lo fece scendere dalla poltrona e occupò il suo posto
con uno sbuffo esausto. Voltò il viso, perché il
Marauder non leggesse nella
curvatura amara delle sue labbra ciò che stava cercando di
dimenticare. Francis
lesse comunque il suo segreto nella linea rigida delle spalle.
Le
mani morbide del bambino si poggiarono sul suo braccio, e
vi rimasero anche quando lui provò a scrollarlo senza troppa
convinzione.
«“Sarò
lì per tamponare le ferite”. Te l’ho
promesso. Per
questo sono qui: tu stai sanguinando, Arthur.»
Il
Mago dell’Ovest non rispose.
Gli
eventi terribili che il Marauder aveva annunciato un
secolo prima erano avvenuti: per salvare Britannia e tutta la sua
gente, aveva
dato alle fiamme un intero pianeta.
Arthur
aveva appoggiato il mento sul pugno chiuso, e Francis
li vide tremare entrambi; lo stesso terremoto scuoteva le iridi del
mago, che
parevano sul punto di spezzarsi come una diga troppo colma.
Il
Marauder provò un’enorme compassione per quel
povero
uomo. Era un alieno che non avrebbe mai dovuto vedere simili orrori,
nella sua
Faerie incantata; invece era stato trascinato nel loro mondo di fango e
sangue,
ed era stato costretto ad affondarvi fino ad annegare. Ed era stato lui
a
spingerlo nella palude che lo avrebbe affogato. Per un bene superiore,
per
rispettare i dettami del destino che Jeanne aveva predetto, ma nessuna
di
queste giustificazioni sarebbe servita a farlo sentire meno in colpa:
aveva
contribuito a spegnere la fiamma della gentilezza in
quell’uomo che non
comprendeva il senso della malattia e della morte. Niente avrebbe
cancellato la
sua colpa.
Si
arrampicò sulla poltrona, maledicendo il suo corpo troppo
piccolo, e si lanciò contro il petto del Mago
dell’Ovest. Strinse con le
braccia tozze quel busto tanto più largo del suo e
singhiozzò:
«Non
è colpa tua, Arthur. Non sei stato tu a volerlo, non
l’hai mai voluto. Non è colpa tua.»
Uno
scappellotto gli fece rimbalzare la testa dentro le
spalle.
«Sciocco,
sono io che dovrei piangere» la stessa mano che lo
aveva colpito si appoggiò sulla sua testa, e gli
accarezzò i capelli soffici
come lui aveva fatto con il Mago dell’Ovest un secolo
addietro. A quel tempo,
era lui il più grande dei due. «Assumi i
comportamenti di un bambino, quando
rinasci» la voce era dura, ma le dita che lo rassicuravano
erano gentili. «Ma
non è male. È meglio quando piagnucoli di quando
molesti gli altri.»
«Parlo
sul serio» aveva raddrizzato il viso tondeggiante,
asciugandosi rapidamente gli occhi sulla manica della giacchetta blu.
«Arthur,
non è colpa tua.»
«E
il tuo amico cosa ne pensa?» la bocca del Mago
dell’Ovest
si contrasse in un ghigno pregno di acredine. Lo aveva visto arrivare a
cavallo
di un enorme corvo con il suo amico Hellsing, e li aveva visti mentre
salvavano
il piccolo Carriedo. Aveva immaginato che fosse lui il demone che
doveva far
nascere: i suoi occhi pieni di tristezza, fuoco e odio suggerivano
così.
Francis
non riuscì a rincuorarlo, e Arthur si fece bastare
quel silenzio. L’ultimo Carriedo lo avrebbe odiato fino alla
tomba, e lui non
avrebbe potuto biasimarlo in alcun modo.
«Jeanne
ti ha rivelato altro, sul nostro futuro?» domandò
in
un sospiro.
Il
Marauder si sedette sulle sue ginocchia, e rovesciò la
testa all’indietro per fissarlo negli occhi.
«Contribuirai
all’incarcerazione dell’Hellsing. E alla mia.
Ma è giusto così» lo bloccò,
prima che Arthur potesse ribellarsi. «Ci
libereremo. Entrambi. E lotteremo al tuo fianco fino alla fine. Anche
tu
prenderai parte al grande sconvolgimento finale.»
«Cosa
ti fa pensare che sia pronto a gettarmi nella fucina
della guerra?»
Il
sorriso di Francis gli trapassò il cuore quando il bimbo
gorgheggiò:
«Lo
farai affinché ci si possa vedere ancora. Con il mio
popolo condivido i poteri, non il destino. Con te, invece, condivido il
destino, e non i poteri.»
Arthur
lo fece rigirare bruscamente sulle sue gambe, in modo
che il Marauder non fosse costretto a storcersi il collo per parlare
con lui.
«Che
intendi dire?» pretese di sapere.
E
Francis gli rivelò tutto. Lo stupore aumentò
nelle iridi
acquamarina del Mago dell’Ovest fino a quando gli occhi non
minacciarono di
uscirgli dalle orbite.
«Ora
comprendi?» domandò il Fiammingo, alla fine.
Arthur
annuì, stordito dalla notizia. Francis si alzò in
piedi sulla poltrona, e poggiò le labbra morbide come un
petalo di rosa sulla
fronte corrugata del Britanno.
«Sei
un grande uomo. Non dubitare mai di questo.»
Il
Fiammingo sorrise triste e rispose dolcemente alla
stretta del Mago dell’Ovest: le braccia dell’uomo
lo strinsero con urgenza,
aggrappandosi a lui come alla sua ultima speranza.
Francis
non ebbe bisogno di ricorrere ai suoi poteri da
sensitivo per capire quali pensieri si agitassero in quella testa dai
capelli
crespi. Il fuoco di Hispaňa aveva marchiato i suoi occhi con immagini
indelebili: non sarebbe mai riuscito a scacciarle, come le sue orecchie
non
avrebbero mai dimenticato le urla dei feriti.
Arthur
non pianse: su Faerie non esisteva la tristezza, per
cui non sapeva come si facesse a sfogarla nelle lacrime. Francis
accarezzò
quella chioma ispida, posando dei baci sulle ciocche pungenti.
«Quando
avrai bisogno di me, Arthur, chiedi al fiore che ti
ho lasciato. Lui saprà dove trovarmi.»
***
Era
quello stesso fiore che la copia del Mago dell’Ovest
stava mostrando al capitano della Reina
de la Oscuridad e a tutto l’equipaggio riunito sul
ponte.
«Francis
è vivo?» fu Gilbert a spezzare quel silenzio
ultraterreno, esprimendo la speranza che nessun osava pronunciare.
«Non
esattamente» confutò Arthur. «Di solito,
sceglieva
volontariamente quando abbandonare il corpo e quando reincarnarsi.
L’esecuzione
improvvisa potrebbe avere sconvolto i suoi piani: potrebbe non
ricordarsi più
chi è, anche se il suo spirito ha assunto una nuova forma
materiale. E potrebbe
non assomigliare per nulla al Marauder che conosciamo. Ma questo fiore
ci
porterà da lui, qualunque sia la sua condizione
attuale.»
Antonio
fissò quei petali di cristallo, fragili come le loro
possibilità di successo.
«Non
abbiamo alternative» sentenziò.
«Mostraci la strada.»
Arthur
avvicinò il fiore alle labbra, e bisbigliò
qualcosa
sui suoi petali di brina.
Un
cuore di luce blu tinse la corolla del non ti scordar di
me, che scoccò una freccia color lapislazzulo nel cielo.
Tutti i marinai
sollevarono il viso per osservare quella sottile riga blu che divideva
lo
spazio a metà.
«Avvisate
il Custode dei Cancelli e il Figlio del Cielo che
stiamo per fare rotta verso Chugoku» ordinò
Antonio, dopo aver valutato la
direzione della minuscola via incantata. «E faremo una breve
sosta sul pianeta
dei Gunsmith: Gilbert deve ancora recuperare le sue armi. Ed
è il caso che
anche noi facciamo dare una revisionata ai nostri ferri
vecchi.»
«Ma
la situazione di Chugoku non è turbolenta, non dovremmo
avere bisogno di combattere…» obiettò
un marinaio, immediatamente zittito dal
capitano.
«Il
Figlio del Cielo è stato detronizzato. Non so cosa stia
accadendo su quel pianeta, ma dubito che sia pacifico come fa
credere.»
I
pirati non discussero ulteriormente i comandi della Mano
Destra del Diavolo e corsero ad accendere i motori.
Il
Mago dell’Ovest non prese parte ai loro preparativi.
Strinse
delicatamente il fiore. Aveva parlato abbastanza
piano; nessuno aveva sentito la frase che aveva utilizzato per azionare
l’incanto
del non ti scordar di me.
Sono
pronto a
gettarmi nella fucina della guerra, affinché ci si possa
incontrare ancora.
E
il dodicesimo
capitolo è giunto, insieme ad Arthur<3
Solo
alcune
note: per scrivere questo capitolo, mi sono ispirata alla cultura
celtica e al
ciclo arturiano (Avalon, Vivien e Merlino). Il simbolo della casata di
Arthur è
un melo: questo perché, nella cultura druidica, il melo era
l’albero sacro, come
per il cristianesimo può esserlo l’uva (da cui si
ricava il vino usato durante
la messa). Si ritiene (ma questa è solo una delle tante
teorie) che la mela sia
stata scelta in epoca romana come “frutto
demoniaco” proprio per screditare le
culture “estere”, che invece la adoravano.
Breve
parentesi
storica conclusa<3
E
con questo… vi
do appuntamento a lunedì<3 Un capitolo sui Gunsmith e
sul perché sono in
debito con Gilbert 8D
A
presto<3
Red