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Autore: Ivola    22/12/2013    5 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: E dopo un mese di problemi, casini vari, impegni e studio... finalmente riesco a pubblicare.
Questo capitolo non sarebbe dovuto essere così, me l'ero immaginato diverso, ma ormai non posso farci niente. Vedrete che all'inizio è abbastanza allegro, poi vira su altri toni e poi su altri toni ancora. Non lo so, non mi convince. Ma d'altronde tutto ciò che faccio non mi convince, quindi è normale.
E' tornata Sofia e sono felice, senza di lei queste vacanze non sarebbero le stesse♥
Ora vado, ho mal di testa e c'è mio fratello che urla e proprio non aiuta.

Buona lettura e buone feste a tutti ♥


Il titolo del capitolo viene da "Street Spirit (Fade Out)" dei Radiohead.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ







 








 

 





















Blur

(Tied to a Railroad)






016. Sixteenth Chapter – Immerse your soul in love.




« Giorno centosessantadue » lesse ad alta voce. « Il bambino continua a dare calci, comincia a darmi sui nervi. Senza contare che- »
« Klaus, ridammelo! » protestò London sonoramente, cercando di strappare quella sottospecie di diario dalle mani del marito, ma lui sembrava non demordere.
«  senza contare che ho unincredibile voglia di- »
« Smettila! » fece la ragazza, arrabbiata, nel recuperare quel piccolo quadernino dalla copertina a fiori. « Non ti ho dato il permesso di leggerlo, idiota. »
Klaus ridacchiò sommessamente e alzò gli occhi al cielo. « Chissà quanti segreti hai scritto lì dentro, eh, Londie? »
« Nessun segreto » borbottò la ragazza. « E’ solo una cronaca della gravidanza. »
« E perché mai ne stai facendo una? »
London tentennò brevemente. « Non lo so, mi tranquillizza. »
Klaus la osservò di sottecchi: era seduta a gambe incrociate sul divano e in quel momento si stava stringendo il diario al petto come se fosse di vitale importanza. Si sedette accanto a lei e appoggiò distrattamente i piedi sul basso tavolino di fronte.
« Scrivi un diario, fai yoga, mangi le verdure, la mattina canti sotto la doccia… che diavolo ti succede? »
Alla moglie scappò una risata. « Dici che non sono più la London di prima? »
« Sei peggiorata » commentò sarcasticamente lui.
« Oh, ma per favore » fece London con un finto sbuffo irritato, abbandonando il quadernino. « Tua madre dice sempre che devo riguardarmi, no? »
« Sì, ma tu esageri » precisò il ragazzo. « Comincio a preoccuparmi. »
« Gentile da parte tua » ribatté lei non senza una nota di scherno nella voce. « Non me lo sarei mai aspettata. »
Klaus scosse la testa sghignazzando. « Forse per colpa tua anche io sto peggiorando di giorno in giorno. »
« Il lato positivo, comunque » replicò London, sorvolando sulle provocazioni, « è che almeno non dovrò riflettere molto sul nome da dare al bambino. »
« Perché? » chiese Klaus, incuriosito.
« Voi Wreisht prendete sempre i nomi dai vostri predecessori, giusto? »
« Non esattamente » la contraddì. « Il primo dovrebbe essere un nome che non ha mai avuto nessuno in famiglia e, di seguito, i nomi del bisnonno, del nonno e del padre. E’ una stronzata, lo so. Per me puoi dargli il nome che ti pare. »
I due avevano già discusso altre volte di tutto ciò che girava intorno alla gravidanza – la questione dei nomi era solo uno dei tanti problemi – e, per quanto London si fosse riappacificata con il gemello, si stavano abituando all’idea che quel frugoletto che cresceva nella pancia della ragazza sarebbe stato dichiarato figlio di Klaus, e quindi si comportavano di conseguenza. Lui, in ogni caso, le stava lasciando la piena libertà decisionale. In fondo, l’erede non era davvero suo, nonostante nessuno all’infuori  di loro eccetto Benjamin lo sapesse o sospettasse. Si sentiva in dovere di mettersi da parte.
« E se fosse femmina? » domandò London a quel punto, appoggiando la testa alla sua spalla.
« Sarebbe una piccola te » rispose il ragazzo con semplicità. « E non so fino a che punto potrebbe essere una cosa positiva. »
L’altra fece la finta offesa e si aggrappò al suo braccio. « Se fosse uguale a me sarebbe la bambina più bella del mondo. »
« Modesta… » ironizzò lui, sfuggendo alla sua presa, per poi però avvolgerle il braccio intorno alle spalle.
« Non voglio partorire » mugugnò London mentre si passava una mano sul ventre non ancora abbastanza rigonfio. « Farà male. »
Klaus non seppe cosa rispondere, anzi, affermazioni così riuscivano soltanto a metterlo a disagio, considerando che London avrebbe dovuto partorire soltanto per salvare la pelle a lui.
« Però ne varrà la pena » continuò la moglie, sorridendo appena. L’altro provò ad annuire e a sorridere a sua volta, anche se gli risultava abbastanza difficile. Dopotutto, fingere che andasse tutto a meraviglia era solo un altro modo per andare avanti e, nel bene o nel male, entrambi erano abbastanza bravi nel farlo.

 
*


Il mattino seguente London era in cucina a preparare la colazione, cercando di seguire un ricettario preso in prestito dalla madre, che era aperto alla voce ‘pancakes’. La ragazza, per quanto fossero evidenti le sue scarse abilità culinarie, non si rassegnava alla triste realtà – dopotutto era cresciuta in una famiglia in cui le prelibatezze erano all’ordine del giorno – e tentava in tutti i modi, soprattutto nell’ultimo periodo, di migliorare i suoi piatti consultando quel piccolo manuale di gastronomia. Non sapeva spiegare bene il perché, ma forse si trattava semplicemente di quel suo istinto femminile represso che stava tornando a galla con la gravidanza.
Prese tutti gli utensili che le servivano e cominciò con lo spaccare delle uova e dividere gli albumi dai tuorli. Non fu poi molto difficile, per cui proseguì passando all’operazione successiva.

« Aggiungere latte e burro fuso e mescolare con i tuorli » lesse con la fronte corrugata. « E da dove lo prendo il burro fuso, adesso? » sbuffò, lisciandosi le pieghe del grembiule da cucina. Non che fosse necessario, visto che la preparazione dei pancakes richiedeva quindici minuti scarsi, ma aveva preferito indossarlo per evitare di sporcare gli abiti.
Non aveva idea di come si fondesse il burro, per cui prese a sfogliare le pagine del ricettario nervosamente, tanto che non si accorse del marito che entrava in cucina sbadigliando.

« Buongiorno » le disse, al che lei sobbalzò leggermente e si voltò nella sua direzione.
« Com’è che sei già in piedi? » chiese con un sopracciglio alzato. « Contavo che ti saresti svegliato per mezzogiorno. »
« Che c’è, non può esserci un’eccezione alla regola? » fece il ragazzo, spostando una sedia dal tavolo per sedersi.
London alzò gli occhi al cielo e tornò ai pancakes. 
« Mi sembrava strano, tutto qui. »
Klaus osservò gli ingredienti con aria critica – o forse spaventata, non era facile stabilirlo. « Cosa stai preparando? »
« Lascia fare a me » ribatté la moglie.
« Sai che non mi fido. »
« Faresti meglio a fidarti » disse. « Piuttosto, non hai niente da dirmi? »
Klaus aggrottò la fronte. « Dovrei dirti qualcosa? »
« Ah, non so… » fece lei vagamente, « magari “auguri” o “buon compleanno”? O, ancora, “oggi sembri più vecchia”? »
Il ragazzo comprese finalmente che giorno fosse e allora si affrettò a dire, prevedendo possibili reazioni nefaste: « Sì, insomma, stavo per dirtelo. »
« Ah-ahm » biascicò London, abbandonando per un secondo la colazione e tornando a guardarlo. « Quindi…? »
« Quindi… buon compleanno? » tentò Klaus.
« E basta? » domandò l’altra, con le mani sui fianchi.
Il marito la fissò con sguardo interdetto. 
« E… possa la sorte essere sempre a tuo favore? »
London sbuffò e incrociò saldamente le braccia. « Nessun regalo? »
Klaus rimase bloccato da quella richiesta. « Non ho mai fatto regali a nessuno in vita mia » replicò. « Non vedo perché tu debba essere la prima. »
« Beh, forse perché sono tua moglie? » fece la ragazza, irritata.
« Lo eri anche l’anno scorso e l’anno prima ancora » precisò l’altro.
« Dettagli. »
Klaus incrociò a sua volta le braccia. « Neanche tu mi hai mai fatto un regalo, e il mio compleanno viene prima del tuo. »
« Hai sempre detto che non ti importa niente dei tuoi compleanni » gli ricordò London. « A me invece sì. »
« Gli auguri non ti bastano? »
La ragazza mostrò un piccolo sorrisetto. « No. »
« E allora cosa vuoi che faccia? » sbuffò il marito, non arresosi ancora del tutto di fronte all’ostinazione dell’altra.
« Quello che ti pare. Ti do tempo fino alle… » rispose lei, guardando un orologio immaginario al polso, « sette di stasera. »
Klaus si alzò dal tavolo. « Non la voglio la tua colazione del cazzo » disse.
« Come vuoi » ribatté London, caparbia.
Il marito uscì dalla cucina.

« Le sette, mi raccomando! » ripeté, alzando la voce, con un’espressione soddisfatta.
 

*


Quando Klaus rientrò in casa il sole era già tramontato da un po’, lasciando tuttavia ancora una parvenza di rossore all’orizzonte. Fu London ad andare alla porta e, quando la aprì, la prima cosa che disse fu: « Sei in ritardo, sono quasi le otto. »
Il ragazzo emise un sospiro indignato, alzandole una busta davanti agli occhi. « Potrei benissimo portarlo indietro. »
La moglie prese il regalo dalle sue mani prima che l’altro potesse farsi rimborsare per davvero. Entrò in casa senza una parola di più, con Klaus che la seguiva nella sala da pranzo nervosamente.
« Non lo apri? » le chiese, digrignando i denti.
« Tra qualche minuto » replicò la ragazza, entrando nella stanza.
Klaus stava per risponderle male ancora una volta, ma tuttavia si trattenne quando notò Ben intento ad apparecchiare la tavola.

« Ciao, Klaus » lo salutò l’albino sorridendo lievemente e continuando a disporre le posate d’argento sulla tovaglia bianca. London si affrettò ad aiutarlo, sebbene il gemello fosse molto più pratico di lei in certe cose.
« Buon compleanno anche a te » disse il moro, non troppo stupito di trovarlo lì. Dopotutto non era mai capitato che i gemelli passassero un compleanno separati.
« Grazie » rispose con sincerità e un accenno di sorpresa. « Te ne sei ricordato » scherzò.
Klaus scosse la testa ridacchiando. 
« Strano, vero? »
London rise a sua volta e, dopo aver finito di apparecchiare, recuperò la busta che le aveva portato il marito.
« C’è un pacchetto più piccolo all’interno » precisò lui, « che è di Ben. »
Il diretto interessato parve non credere alle proprie orecchie. « Mi hai fatto un regalo? »
« Guarda che conta il pensiero » ribatté il ragazzo, curioso di scoprire le loro reazioni. London lo squadrò, indagatoria, e poi passò la busta più piccola al fratello, che se la rigirò tra le mani prima di aprirla.
« Un orologio da polso » commentò l’albino. « Originale, Klaus, davvero. »
Klaus sogghignò. « Più che originalità… si chiama umorismo»
Ben alzò gli occhi al cielo. « Apprezzo il pensiero, sul serio. »
« E tu? » chiese l’altro, rivolgendosi alla moglie, che intanto stava aprendo il suo, di regalo. « Apprezzi? »
London sorrise di sbieco. « Direi di sì » rispose, affondando le dita nella morbida e lunga sciarpa di lana color crema appena scartata. « Ma perché proprio una sciarpa? »
Il marito scrollò le spalle, pur soddisfatto della reazione della ragzza. « Non avevo idee. Dovresti ringraziarmi. »
« No » ribatté lei. « Mi piace ma non è quello che volevo. »
« E cosa volevi? » chiese il moro, incapacitato.
« Sapessi… Potrai sempre cercare di indovinare l’anno prossimo » sorrise innocentemente London. « Ora mangiamo, mi ha aiutato Ben a preparare tutto. »
Klaus sbuffò e si sedette a tavola. « Per fortuna. »

La serata trascorse abbastanza tranquillamente. Mangiarono, bevvero del vino, chiacchierarono, risero anche, per quanto potesse sembrare un evento paradossale.
Klaus aveva notato con piacere che London fosse di buon umore, ma lo attribuì alla compagnia del gemello. Senza Ben, dopotutto, la ragazza assumeva sempre quell’aria facilmente irritabile, che in sua presenza si cancellava quasi del tutto.

« Allora, ti è piaciuta la cena? » domandò l’albino, sorseggiando dal suo calice.
« Potresti trasferirti qui » rispose Klaus ridacchiando. « Almeno non moriremmo di fame. »
London gli diede uno scappellotto dietro la nuca. « Mi offendo, sai? »
« Non si può negare la verità » ribatté il marito ironicamente.
« Beh, non vale competere con Ben » fece lei. « Sa fare tantissime cose. »
Il fratello sorrise e le accarezzò una ciocca di capelli. « Non esagerare. »
« Io non esagero » disse la gemella, alzando gli angoli delle labbra in un sorriso molto simile a quello dell’altro.
Klaus alzò gli occhi al cielo, versandosi un altro bicchiere di vino rosso. 
« Come siete smielati, mio Dio. »
« Parli tu che non hai un briciolo di sensibilità » puntualizzò la moglie.
Il moro si portò il calice alle labbra. 
« Meno male. »
« Vado a prendere il dolce » sbuffò lei, allora, abbandonando quella conversazione che non stava neanche in piedi. Si alzò, dirigendosi in cucina e lasciando gli altri due momentaneamente soli e in silenzio.
Klaus, dopo aver finito quel bicchiere, se ne stava per riempire un altro, ma fu fermato da Ben che gli bloccò il polso prima che quello potesse afferrare il collo della bottiglia.

« Che c’è? » chiese il maggiore, alzando un sopracciglio.
« Non bere altro vino » gli consigliò il ragazzo, senza liberarlo dalla sua presa. « Ti fa male. »
« Che te ne importa, scusa-? » cominciò a domandare, quando notò qualcosa di strano sul braccio di Ben. Nel bloccargli la mano, la manica dell’albino si era leggermente spostata, scoprendogli una parte del polso. Klaus lo fissò per qualche istante, soffermandosi su quello che aveva tutta l’aria di essere un taglio, netto, preciso e già rimarginato, perfettamente in simmetria con il palmo della mano.
Non appena il ragazzo notò lo sguardo dell’altro indugiare sul proprio braccio, si scostò bruscamente da lui, abbassandosi la manica.

« Che ti sei fatto? » domandò il moro, nervoso.
« Niente. »
Klaus gli riservò un’occhiata penetrante e indagatrice, alla quale l’albino non seppe rispondere. « Ben… » insistette.
« Mi sono tagliato in cucina, nulla di grave » rispose frettolosamente l’altro, ma il cognato sembrava ancora meno convinto di prima. Senza aggiungere altro, Klaus si avvicinò con cipiglio determinato e, stringendogli un braccio, gli risollevò la manica, nonostante le proteste di lui.
Ciò che vide lo lasciò incredulo, scioccato. Al taglio precedente se ne susseguivano altri tre, a breve distanza l’uno dall’altro, ugualmente precisi e simmetrici. L’ultimo, quello che più si avvicinava alla piega del gomito, era ancora un po’ slabbrato ma non sanguinava, anche se era di un rosso preoccupante.
Klaus lo guardò con gli occhi spalancati, incapace di credere a quello che stava vedendo. 
« Che cazzo significa? » chiese, turbato.
Ben allontanò il braccio da lui con espressione colpevole e abbassò lo sguardo, tenendosi il polso ferito con la mano. Non disse niente, immobile sulla sedia.

« Ben » esclamò Klaus, afferrandogli le spalle e scuotendogliele leggermente. « Perché? »
Rimase a fissarlo per lunghi secondi, aspettando che si giustificasse o accampasse altre scuse inutili, ma il ragazzo sembrava non reagire, come se avesse troppa vergogna o timore di parlare.
« Avanti » lo incitò il moro, frustrato.
« … non dirlo a London, per favore » fu l’unica cosa che riuscì a mormorare Ben.
« Non glielo dirò, d’accordo » sbottò Klaus, « ma mi spieghi perché l’hai fatto? »
« ... io… insomma… » balbettò il minore.
« Va bene » acconsentì l’altro. « Non dirmelo, se non vuoi, ma promettimi che non lo farai mai più. Mai più, Ben, hai capito? »
« … Klaus… non posso assicurartelo… »
« Cosa? Non puoi? » chiese, incapacitato. « Devi. »
Ben sorrise amaramente, e dai suoi occhi traspariva una sofferenza completamente diversa da tutte le sofferenze che l’altro potesse immaginare. « Ti prego… ti prego, Klaus… dammi un solo motivo per non farlo… »
Nella testa di Klaus non ci fu tempo per ragionare: agì di conseguenza, vittima dell’istinto, afferrandogli la nuca e baciandolo di slancio e con foga, impedendogli di parlare oltre. Ben non reagì subito, spiazzato da quel gesto, ma non appena ebbe la forza di pensare a qualcosa che non fossero le labbra di Klaus premute con forza contro le proprie – diamine, aveva dimenticato quanto fosse una sensazione che lo faceva sentire vivo, completo, al posto giusto – si staccò di botto, rosso in viso e con le braccia scosse da tremiti involontari.
« No, Klaus » mormorò a bassa voce. « Non scambiarmi per London. »
« Non lo sto facendo » disse l’altro, continuando a tenerlo per le spalle e guardandolo bene in viso. « Ti sto semplicemente dando l’opportunità di… di salvarti. »
« Non ce n’è bisogno » ribatté Ben, a disagio. « Sto bene. »
Klaus scosse la testa. « Io so… so cosa stai passando, con la storia del bambino e- »
« No, non lo sai » lo contraddisse l’albino. « Non puoi saperlo. »
« L’ho capito, andiamo, non sono stupido. »
Il ragazzo lo fissò con sguardo spento. Non era sicuro che Klaus avesse capito davvero che era innamorato di lui, ma anche se così fosse stato non sarebbe cambiato poi molto. Dopotutto, avrebbe avuto sempre London accanto. E London sarebbe riuscita a curare ogni suo dolore, mentre lui… lui sarebbe rimasto solo.
« Ma non serve che tu capisca » gli disse. « Non conta più niente, ormai. »
« Senti, Ben » continuò il moro, « buttati tutto alle spalle, lascia perdere tutto ciò che ti fa stare male. »
Ben increspò la fronte e schiuse le labbra come per dire qualcosa, ma si bloccò in tempo. Cosa avrebbe potuto rispondere, del resto?
E dovrei lasciar perdere te e London? No, mai.
Prima che potesse aggiungere qualche altra cosa, la sorella ricomparve nella sala da pranzo con una piccola torta circolare coperta di glassa. 
« Ho portato… Cosa c’è? » domandò la ragazza, vedendo i due poco distanti l’uno dall’altro, entrambi con un’espressione indecifrabilmente affranta.
Klaus guardò il gemello, sottintendendo più parole di quante ne avrebbe potuto esprimere. 
« Niente, London. »
 

*


Le settimane si susseguirono velocemente da quel momento; arrivò l’inverno, che portò con sé un vento gelido e poco invitante; arrivò la neve.
London aveva sempre amato la neve. In quei momenti, per chissà quale ragione, le capitava spesso di sognarla. Sognava di cacciare la lingua per catturare quei piccoli fiocchi candidi, sognava di stendersi sul manto bianco e creare angeli agitando braccia e gambe come una bambina, sognava di danzare sulla neve a piedi nudi baciata dai deboli raggi di sole… Ogni notte, in quell’ultimo periodo, faceva sogni del genere, che le lasciavano una piacevole quanto poco duratura sensazione di spensieratezza nel corso della mattinata.
Anche quella notte aveva sognato la neve, ma, proprio sul più bello – le sembrava che stesse rincorrendo un cervo in un bosco lontano miglia e miglia da casa – quella visione si era interrotta.
Si svegliò con la fronte leggermente sudata, preda di un familiare dolore al ventre. All’inizio non vi diede molto peso, limitandosi a rigirarsi nel letto con uno sbuffo, ma poi le fitte cominciarono ad aumentare, fino a diventare quasi insopportabili. Impegnata a biasciare insulti tra i denti, si accorse solo dopo qualche istante che il lenzuolo era bagnato, e anche gran parte del suo pigiama.
Scattò a sedere il secondo successivo, tenendosi le mani sulla pancia, in panico.
Oddio, no, no, pensava, terrorizzata. Non può essere, no.

« Klaus! » urlò, cominciando a scuotere il marito violentemente. « Klaus, svegliati! Klaus! »
Il ragazzo si riscosse dal sonno quasi immediatamente, sobbalzando. « Che succede? » mormorò, con il tono ancora impastato.
« Il bambino » gridò lei, sconvolta. « Si sono rotte le acque! »
Klaus comprese cosa stesse accadendo solo dopo qualche secondo. « Ma… cosa… il bambino… » balbettò, incapace di elaborare una frase di senso compiuto.
London si appoggiò alla spalliera del letto, passandosi le mani sul volto impallidito di botto. 
« E’ troppo presto. Troppo presto! » fremette. « E’ solo il settimo mese! »
Klaus le strinse una mano, provando a darle almeno un sostegno fisico. « Ti senti male? »
« Brutto stronzo! » urlò la moglie. « Non vedi che potrei morire da un istante all’altro? »
Il ragazzo spalancò gli occhi, sentendosi più inutile che offeso. « Cosa devo fare? »
« Non lo so » si lamentò London, stringendo il lenzuolo, quasi terrorizzata. « ... non lo so, ma fa’ qualcosa, aiutami! »
« London, ma- »
« Fa’ qualcosa, cazzo! »
« Non posso farti partorire io » protestò Klaus.
La moglie inspirò profondamente, tentando di calmarsi. 
« No, ovviament- ah, porca puttana, mi sta uccidendo » biascicò, il petto che si alzava e abbassava per l’agitazione. « Chiama mamma... e Ben. Sì, chiama mamma e Ben. Falli venire qui, ti prego. »
« Sono le tre di notte… » provò a dire il moro, ma fu bloccato da un urlo esasperato dell’altra.
London gli afferrò un braccio. 
« Chiamali e basta, coglione! »

Klaus stava passando dei momenti davvero poco piacevoli. Era più o meno l’alba, dalla finestra si riusciva a intravedere il sole che spuntava da dietro le basse case del Distretto, e tutta la zona era immersa nella tranquillità… se solo non fosse stato per le urla che provenivano dalla camera da letto.
London l’aveva praticamente cacciato dalla stanza perché, a sua detta, le faceva salire l’ansia. Non che ci tenesse ad assistere al parto, comunque. Per quei pochi minuti che era rimasto all’interno aveva visto abbastanza da convincerlo definitivamente a uscire.
Erano ore che la preoccupazione e il nervosismo lo stavano logorando, spingendolo a girare avanti e indietro per casa agitatamente. Non era riuscito a fare nulla di costruttivo, tranne che farsi prendere dall’ansia più del dovuto.
Il momento era arrivato. Dopo quasi due anni di tentativi, litigi, problemi, bugie e tormenti… quel piccolo erede sarebbe finalmente nato, ponendo fine a tutte le complicazioni scaturite dalla follia di suo padre che aveva preteso l’impossibile.
Klaus non era sicuro che tutto si sarebbe risolto con la nascita del bambino, ma in fondo al suo animo ci sperava. Aveva visto London piangere, aveva visto Ben autolesionarsi, aveva visto il loro mondo precipitare in un buio baratro di egoismo e frustrazione, aveva visto se stesso sgretolarsi, cadere e cercare di rialzarsi con una forza che non era mai stata parte di lui, aveva visto il suo orgoglio rimpicciolirsi fino al punto di incominciare ad amare London come una persona normale… Ora tutte le carte erano scoperte. Non restava che mischiare il mazzo e cominciare da capo, con la speranza di una vita migliore. Non restava che vivere.
Un altro strillo più acuto della moglie interruppe i suoi pensieri, attraversandogli la testa.
Ti prego, frugoletto, pensò Klaus, nasci in fretta.
Il tempo sembrava scorrere davvero lentamente, quasi come a volersi prendere gioco di lui, che era stato escluso da quella stanza per palesi motivi. Rimase a fissare – o meglio, incenerire – la porta di mogano per un tempo interminabile, attendendo con le braccia incrociate e le spalle appoggiate al muro.
Guardò poi fuori la finestra, prendendo ad osservare la neve che aveva ricominciato a cadere placidamente dal cielo non troppo nuvoloso. Si distrasse per un secondo, annullando i propri pensieri di fronte alla grandezza della natura. L’alba dopo la notte, la neve che cade dal cielo, le persone che cambiano e crescono, la nascita di un bambino…
Fu in quel momento che il pianto di un neonato spezzò con violenza il silenzio che si era creato dentro di lui.

La porta si aprì dopo qualche minuto, rivelando un Benjamin dal viso pallido-verdognolo e un enorme sorriso stampato sulle labbra.

« Vieni, Klaus » disse il ragazzo, prendendogli un polso e trascinandolo nella stanza da letto. « E’ meravigliosa, devi vederla. »
Klaus entrò a passo titubante, trovando Erzsébet Bridge al fianco di London, che era stesa tra le lenzuola con un fagotto tra le braccia. Quando alzò il viso, gli sorrise, e lui pensò che quello fosse il sorriso più bello che le avesse mai visto rivolgergli.
Si avvicinò lentamente, con lo stomaco in subbuglio e il cuore in gola, fino ad accostarsi accanto a London. Si sedette sul materasso, ancora incapace di guardare la bambina. La ragazza tornò invece ad osservarla con meraviglia, passandole una mano sulla piccola testa velata di capelli bianchi e sfiorandole il nasino con l’indice.
Klaus si lasciò vincere dalla curiosità e sbirciò la figlia dei due gemelli, che intanto aveva smesso di piangere e osservava il mondo con gli occhietti verdi spalancati.
Si trovò a dare ragione a Ben; era meravigliosa, con la pelle chiara, le guance morbide e le manine che si protendevano verso il volto della madre.
London guardò di sottecchi la reazione del marito, continuando a sorridere.

« Si chiama Klaudia » sussurrò, mentre stringeva la piccola a sé.
« Il femminile di Klaus? » domandò l’altro, stupito.
La ragazza annuì e fece cenno al fratello di sedersi accanto a loro. 
« L’abbiamo deciso insieme. »
Ben avvicinò una mano per accarezzare la bambina e quella gli afferrò prontamente un dito, suscitando una breve risata generale.
« Klaudia Wreisht » disse Erzsébet, tra sé e sé. « Non suona male. »
Klaus si accorse solo in quel momento di star tremando. Dopotutto, si ritrovò a pensare, non suonava male per davvero.

 















   
 
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