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Autore: Easily Forgotten Love    18/05/2008    1 recensioni
Brian e Stefan si sono appena lasciati. Sebbene sia stata una scelta consapevole, Stefan non sa ancora quanto possa fare male. E Brian, che quella scelta l’ha subita, non riesce ad accettare di arrendersi senza provare a riprendersi ciò che ama.
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Stefan Osdal
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I personaggi qui usati, chiaramente, non ci appartengono.
Ovviamente non fanno nulla di quanto qui descritto.
Ovviamente niente di quanto qui descritto corrisponde alla realtà dei fatti.
Ovviamente non s’intende offendere nessuno (per quanto possa apparire strano, siamo davvero fan dei Placebo).
Ovviamente non ci danno una lira per perdere il nostro tempo a scrivere ‘ste cose, lo facciamo perché ci diverte e perché in modo contorto dimostra l’affetto che nutriamo verso Brian e compagni.
 
Ciò detto, due note pratiche per chi volesse leggere la storia che segue.
Le vicende qui raccontate si collocano spiritualmente nel periodo immediatamente antecedente “They have trapped me in a bottle…”, tuttavia non si tratta di un vero e proprio prequel nel senso pieno del termine. Chi si fosse posto domande oziose sul come e perché Brian e Stef si siano lasciati e sul come e perché Vincent sia entrato nella vita di Stefan, avrà qui una versione del fattaccio.
Ciò detto si fa notare che:
Vincent Cavendish non è un personaggio reale ed è di legittima proprietà dell’Easily Forgotten Love.
Allo stesso modo anche Abba “Pongo” Olsdal è proprietà privata dell’Easily.
 
Un bacio e buona lettura dall’Easily ^_^

**

 
A volte le cose finiscono.
 
-Si tratta di un favore personale, Vincent.
…in realtà, le cose finiscono quasi sempre.
-Di questo non dubitavo, Alex, generalmente non mi chiami se non è un favore personale.
Solo che a volte fa male.
 
-Starò benone, Steve. E poi, credimi, continuare a vivere assieme sarebbe stato solo un problema. Questa cosa renderà più facile a tutti e due ricominciare.
Ed alcune di queste volte, fa così male da non avere nemmeno la forza di chiudere e basta.
-Sarà, ma io vedo tutta questa storia piuttosto incasinata, Stef. Insomma…tu e Brian non vi siete davvero lasciati.
Così le cose, anche se finite, si trascinano.
 
E gli strascichi di una storia finita sono peggio, a volte, di tutto quello che di male.
Di cattivo.
Di doloroso ci si sia scambiati stando assieme.
 
Cammina lungo l’aiuola, passeggiando sul bordo sottilissimo che la delinea. Al di là dell’orlo, nel manto di erba è infisso un cartello che ammonisce dal calpestare il prato.
Gli sembra di sfidare l’autorità dei guardiani del parco, un paio sono già passati gettandogli da lontano un’occhiata perplessa ed infastidita. Va bene dover riprendere i ragazzini perché si comportano in modo stupido, ma una persona adulta…!
Sa che dovrebbe piantarla, voltarsi nel freddo grigio di Londra e rifare al contrario lo stesso percorso. Mollare il parco, il vialetto con l’aiuola ricoperta di verde umido e tornare a casa.
Ma il problema è che non riesce nemmeno più a chiamarla “casa”.
…vorrebbe che gli agenti immobiliari si sbrigassero a trovargli un altro appartamento. E vorrebbe che si sbrigassero a vendere quello.
Vorrebbe addormentarsi in un letto diverso. Svegliarsi e dimenticare di essere se stesso.
 

WITHOUT YOU, I’M NOTHING

 
Vorrebbe, in definitiva, sentirsi meno stupido.
E meno solo.
Il cellulare squilla nella tasca del cappotto, infila la mano a prenderlo e guarda il nome che appare sul display un momento prima di aprire la comunicazione.
-Alex…
-Brian, dove accidenti sei? L’intervista era mezz’ora fa.- ricorda pazientemente la manager dall’altro lato della comunicazione.
Immagina che dovrebbe provare qualcosa. Tipo un minimo di contrizione per aver – tanto per cambiare – mandato a puttane un impegno di lavoro.
-Ah.
Lo immagina, ma da qui a provare davvero qualcosa il passo è lungo.
Un po’ troppo di questi tempi.
Sospiro di Alex.
-O.k., quanto pensi di metterci ad arrivare adesso?- chiede.
-Non so…una decina di minuti.- risponde guardandosi attorno.
La quiete sonnacchiosa del parco gli dice che ci vorrà molto più tempo. Quanto meno per scrollarsi di dosso il desiderio di restare lì, a non fare assolutamente nulla…Nemmeno vivere.
-Bene, allora muoviti.- ordina lei prima di chiudere la comunicazione.

***

-Non lo so, Alex, non vedo a cosa dovrebbe servirmi andare da uno psicologo…
Lo guarda. Scettica solleva un sopracciglio, ma si astiene da ogni commento.
Per Stefan è più facile cogliere la sua perplessità in quei pochi gesti che in un milione di parole, benefici del passare tanto tempo a stretto contatto con una persona. Sospira, ma insiste lo stesso.
-Pensavo dovesse essere Brian a farsi vedere da qualcuno.- obietta pacatamente.
La donna nota comunque la sottile sfumatura di cui si colora l’espressione. Non è nel tono usato, quello è talmente inespressivo e piano da sembrare quasi disinteressato, ma è nella natura del rapporto che lega quei due. Da lì trae origine il fatto che Stefan parli di Brian e dei suoi problemi – del suo doversi “far vedere da qualcuno” – con una naturalezza disarmante. Brian è uno specchio di acqua per Stefan, ci vede attraverso, e sul fondo limaccioso di quella personalità contorta ha visto qualcosa che lo determina ad accettare Brian in ogni sfumatura. Per quanto assurda, anormale, fastidiosa e pericolosa per il prossimo possa essere.
-Ci sto lavorando.- ridacchia lei, e torna verso il tavolo con il the.
Stefan le sorride riconoscente quando gli posa davanti una delle due tazze, Alex si volta a recuperare anche il bollitore e lo sistema accanto a loro. Sa che sarà una cosa lunga. E difficile.
In qualche modo per entrambi.
-Ha fatto scappare anche l’ultimo, vero?- s’informa intanto Stefan, prendendo a bere a piccoli sorsi la bevanda troppo calda.
-Avevi dubbi?- chiede lei storcendo il naso- La risposta è sempre la stessa “mi spiace, signorina, non posso continuare a curare il Sig. Molko, per il semplice fatto che lui non intende affatto farsi curare”.- Sospira ancora, sollevando la tazza che sembra decisamente grande tra le sue dita sottili.- A volte mi chiedo se non sarebbe stato meglio aspettassi ancora un po’ per piantarlo…- ammette a voce bassa, fuggendo lo sguardo dell’altro ragazzo.
-Non sarebbe cambiato nulla.- ribatte paziente Stefan.
Alex si agita infastidita sulla sedia. Stefan sa che si sente in imbarazzo a parlarne, perché questa storia è davvero difficile per tutti loro e non è nemmeno giusto che ci vadano di mezzo. Ma era inevitabile che succedesse, e lui e Brian avrebbero dovuto metterlo di conto a suo tempo, ben prima di fare iniziare tutto. Il finale era quasi scontato già allora e, quindi, sarebbe stato corretto che ne prendessero atto e si comportassero con più diligenza per tutelare gli interessi di chi stava loro intorno. Alex per esempio, ma anche Steve. E non è solo un problema di lavoro, è proprio un problema di amicizia.
-Senti, Stef!- sbotta lei all’improvviso, appoggiando rumorosamente la tazza e fissandolo bellicosa.
Stefan la guarda più che ascoltarla, e pensa che è piccola quasi quanto le sue dita. Senza trucco ha il viso di una bambina, ed i capelli sono quasi sempre in disordine se può evitare di pettinarli. Se fosse più sottile di così si spezzerebbe a metà e, decisamente, meriterebbe un uomo che la amasse davvero, un matrimonio da favola ed una vita da principessa.
Ed invece è solo Alex…La piccola, bellicosa, bellissima Alex. Gli fa decisamente tenerezza.
Così sorride.
Lei se ne accorge e capisce che sprecherà fiato, s’imbroncia e fa un verso buffo per indicare che si sta spazientendo. Stefan, richiamato all’ordine, si scuote ed annuisce per dirle che ascolterà ubbidiente.
-Beh…- esordisce Alex. E non sa neppure dove andare, come dimostra il fatto che si perda subito dopo aver iniziato. Continua comunque, anche se a fatica, raccogliendo le idee dal fondo della testa.- Stef,- chiama piano, affettuosa nella propria preoccupazione.- ascolta il consiglio di una scema, parlarne con qualcuno ti farà solo bene.- sussurra.
A Stefan viene quasi voglia di abbracciarla. Le sorride ancora.
-Facciamo a modo tuo.- concede con facilità.

***

Lo Studio non è in centro, è in una periferia profumata, con un parco enorme a due passi dal palazzo e viali alberati in cui passeggiano persone che non hanno la fretta consueta della Londra di sempre. Stefan lo apprezza. Anche perché ha dovuto lasciare la macchina distante ed ha avuto un bel pezzo di strada da fare a piedi, durante il quale pensare lucidamente alla propria vita. È un lusso di questi periodi, lo è ancora di più riuscire a fare quelle riflessioni sotto il profumo carico delle foglie e dell’erba, senza il frastuono delle auto ed il grigio pesante della città.
Così gli è stato molto più facile sorridere alla signorina compita che gli ha aperto la porta, lei gli ha chiesto se voleva del the e poi lo ha rassicurato che il dottore sarebbe stato subito da lui ed è uscita dalla saletta d’attesa, linda ed ordinata, in cui lo ha rinchiuso con i propri pensieri.
Stefan si guarda attorno. Gli piace la scelta di colori, sembra un proseguimento dell’ambiente esterno: marrone ocra, tendente al rosso, sul legno chiaro dei mobili, il gusto profumato di un’antichità un po’ autentica un po’ riprodotta con stile, un verde chiarissimo, che si mescola di beige e di rossi soffusi sulla tappezzeria e nei tappeti orientali…e libri. Stefan pensa che non vedeva così tanti libri dal giorno che ha lasciato casa. Dal giorno che ha lasciato Brian.
Brian legge moltissimo.
…ma è molto più disordinato.
Sorride.
Lui i libri li affastella. Li mette uno sull’altro quando finisce lo spazio a disposizione sugli scaffali. Anche a terra. Non ha mai badato al fatto che potessero rovinarsi, perché Brian i libri li vive, gli piace leggerli, sottolinearli, farci segni e note a margine. E legge qualsiasi cosa. Dai trattati scientifici ai romanzetti rosa per signore. C’erano pile intere di libri in casa loro e la stanza di Brian era un campo minato di queste pile disordinate, sempre pronte a crollarti addosso al minimo movimento sbagliato. Lui non trovava mai nulla di quello che cercava. Si arrabbiava e cominciava a creare un disordine anche peggiore. Disfaceva le pile, le trasformava in un profluvio casuale di volumi sul pavimento, ci zampettava in mezzo alla ricerca inutile di qualcosa ed era capace di sedersi sui libri che non poteva spostare per avere spazio a sufficienza per cercare in mezzo agli altri.
-Stefan Olsdal?
Si volta per trovarsi davanti un ragazzo, poco più vecchio di lui, trenta o trentuno anni. Ha un viso magro, dai tratti decisi: zigomi alti, naso dritto e fronte ampia. Gli occhi sono chiarissimi, con ciglia folte e dorate, la bocca sottile e disegnata con precisione. È un viso piacevole, molto bello, con un’espressione serena e rilassata, rassicurante. È alto – anche se non quanto lui – con un fisico asciutto dai muscoli definiti e magri, che denota cura di sé costante e paziente, così come l’abbigliamento impeccabile – un casual di classe, portato con disinvoltura ed eleganza – o il taglio preciso dei capelli castani – né troppo lunghi né troppo corti. Riflessi dorati anche lì, nota Stefan, così come nota il mento e le guance perfettamente rasate e la mano curata, che gli viene testa in un gesto di saluto.
-Sì, sono io.- risponde a quel punto, ricambiando la stretta.
-Io sono Vincent Cavendish.- si presenta lui.- Vogliamo accomodarci di là?- chiede poi sciogliendo le dita ed accennando alla porta da cui è entrato.
Lascia che Stefan lo superi, tirando poi l’uscio dietro di sé e lo segue per accelerare il passo sul manto soffice di tappeti che copre il parquet dello studio. Stefan si concede più tempo, gira intorno lo sguardo per cogliere nell’insieme i quadri alle pareti, gli scaffali infiniti di libri che ricoprono anche questa stanza, le sculture di bronzo sistemate con cura sulla scrivania enorme e pesante e poi lo stereo a parete – così fuori luogo ed anacronistico – con i cd ordinatamente disposti sotto, su una mensola apposita.
-Bello studio, dottore.- si complimenta pianamente lo svedese, mentre accoglie l’invito dell’altro a prendere posto in una delle due poltrone davanti la scrivania.
-Chiamami pure Vincent.- sorride lui.- Siamo praticamente coetanei.
Stefan ricambia il sorriso con uno molto più falso ed imbarazzato. Si sistema sulla poltrona, che è troppo piccola, ed allunga le gambe davanti a sé, scivolando sulla seduta quel tanto che basta a posare le mani intrecciate sul ventre piatto sotto la maglietta attillata.
-Immagino che adesso dovrei dire perché sono qui…- esordisce a quel punto.
-Perché Alex ti ci ha mandato.- ridacchia Vincent rubandogli la risposta.- Sa essere incredibilmente inopportuna quando vuole, vero?- s’informa poi, sistemandosi a sua volta contro lo schienale della sedia e fissandolo accondiscendente da lì.
Stefan si rilassa, il sorriso si fa meno forzato ed una punta più sincero. Inclina il capo e posa la tempia sul pugno chiuso, contro il bracciolo della poltrona.
-Conosci Alex?- realizza.
-Eravamo compagni di scuola.- confessa Vincent.- Lei era la ragazza più carina della scuola.
-E tu le andavi dietro.- ipotizza Stefan, divertito.
Vincent ricambia quel divertimento.
-No.- risponde però.- Io ero già gay allora.- confessa quindi con semplicità.

***

-Non posso crederci!
Stefan ride di Alex ed ottiene come punizione un colpo in testa da un vecchio e rovinatissimo pupazzo di peluche, che vorrebbe essere ancora un leoncino ma è ormai ridotto a poco più di un gattaccio spelacchiato e sbiadito di un biondo inconsistente. Lo svedese lo recupera al volo quando gli rimbalza addosso e con cura lo posa accanto a sé sul divano che lo ospita in casa della manager.
Lei sparisce dietro la porta della cucina e continua a protestare imperterrita mentre mette su l’acqua per il the.
-Io ti mando da Vincent perché tu parli dei tuoi problemi con Brian e voi parlate di me?!
-Non posso crederci io, Alex. Prendersi una cotta per il migliore amico gay è un tale clichè!- la deride Stefan impietoso.
Alex torna in salotto, mani sui fianchi e capelli più arruffati del solito. Lui la osserva pacificamente dallo stesso divano, semisdraiato tra i cuscini affastellati su un lato e con il capo all’indietro sullo schienale imbottito.
-Punto numero uno,-  inizia ad elencare lei con precisione, sfoderando anche le dita per poter tenere il conto sulla punta delle unghie smaltate di rosso – che fosse gay l’ho saputo solo al ballo di fine anno, quindi un bel po’ dopo essermi presa una cotta ed ancora dopo averlo invitato ed aver fatto la figura della scema. Punto numero due,- prosegue con la stessa flemma metodica- prendersi una cotta per l’amico gay non è un clichè, ma un classico intramontabile. Prova ne è il fatto che nel gruppo sei tu il mio preferito.
Il bollitore fischia educatamente richiamando l’attenzione della donna ed Alex torna indietro, mentre è il turno di Stefan di uscirsene con una blanda protesta a mezza voce.
-Qui stai mentendo.- afferma- Il tuo preferito è Brian e, nonostante tutto, lui è molto meno gay di me.
Alex armeggia tra tazze e cucchiaini, il rumore delle stoviglie copre il suo sospiro paziente, quando torna nuovamente nella stanza lo fa accompagnandosi all’odore carico del the aromatizzato. Porge la tazza all’altro e gli si lascia cadere accanto appena lui la accetta, ripiegando le gambe al petto e poi sotto di sé e puntando gli occhi verdi dritti sul muro di fronte. Il televisore cupo e nero la occhieggia dalla parete, rimandandole l’immagine sua – in tuta e calzerotti di lana – e di Stefan – in jeans e maglietta a mezze maniche come non sentisse mai il freddo.
-Che ne pensi, allora?- s’informa sbirciando la risposta di Stef nel riflesso nero.
Lui la guarda un momento e poi segue il suo sguardo ed incrocia anche lui quelle due figure più scure su un fondo già tetro. Ci rimane impigliato dentro proprio come lei e si osserva mentre scuote la testa in un gesto che mima perplessità.
-Mi…piace…- ammette a fatica.- Ma non vuol dire che mi fidi di lui.
Alex ride, allontanando la tazza per non farne uscire il contenuto bollente.
-Quindi devo riferirgli che il tentativo di aggirare le tue difese con la storia del “siamo tutti amici” è fallito?- s’informa lei.
Stefan gli ricambia la risata con una piccola e soddisfatta.
-Beh, dai, è stato smaccato!
Alex sta in silenzio, posa la tazza sulle ginocchia e prende a tirare i riccioli, guardandoli allungarsi sulla televisione fino a raggiungere una lunghezza invidiabile. Se li stirasse sarebbero quasi indecenti da portare.
-Vincent non imbroglia, Stefan.- dice alla fine, stringendosi nelle spalle.- Puoi fidarti di lui.
Stefan si volta ancora e stavolta i loro occhi s’incrociano in silenzio, quando torna a guardare i due riflessi alla televisione respira a fondo ed annuisce.
-…magari però sono io a non voler essere sincero.- ammette a mezza voce.- L’ultima volta mi sono fatto un po’ male.

***

Si sveglia perché dalla stanza accanto arriva un rumore ovattato e confuso, coperto ogni tanto da due voci che, pur mantenendosi basse, sono irate e si accapigliano per un predominio rabbioso. Si rigira nel letto, ha mal di testa perché la notte prima ha dormito male e poco e, per prendere sonno, ha finito per concedersi una dose generosa di alcolici. Posa una mano sulla fronte, provando un benessere fugace nel premere contro il dolore sordo che gli pulsa al di là delle dita, ma poi le lascia scivolare via, lungo i capelli cortissimi, e le allarga sul materasso a fare da sostegno mentre solleva il busto e ruota le gambe per portarle a terra sulla moquette. Cammina scalzo, recuperando da una poltrona una maglietta bianca, ed esce nel salottino adiacente la camera da letto.
Una delle due figure la riconosce subito. Lo fa il suo sangue, che sembra svegliarsi di colpo dal torpore innaturale dell’alcol, e la sua pelle, che prende a fremere appena in un solleticare fastidioso. Porta una mano al braccio nudo e gratta via quella sensazione, avvicinandosi mentre anche l’altra figura diventa più chiara e lui riconosce uno dei camerieri dell’Hotel dove alloggia.
-Che sta succedendo?- chiede con voce impastata.
A voltarsi è quello più basso. Piccolo e magro. Il viso di sempre, truccato perché pare che ormai non riesca a farne a meno neppure quando non sono in scena su un palco. La vita di Brian Molko sembra essersi trasformata in un unico palco, fatto delle recite in cui nasconde le occhiaie dietro il correttore ed il pallore innaturale dietro il fondotinta. Eppure è perfetto come sempre, dal rimmel sulle ciglia già lunghe, al lucidalabbra chiarissimo che gli rende la bocca più turgida e bella che mai, sono perfetti perfino i capelli corti e sparati dal gel, che gli si aprono attorno come un ventaglio impossibile di frecce nere.
È perfetto lui. Bello come sempre. Bello peggio del solito.
Ed è la solita tortura trovarselo davanti.
-Stefan!- sbotta appena lo vede.
Ma a coprire le voci di entrambi - i pensieri di entrambi - ci pensa quella concitata dell’altro uomo, che s’infila tra le loro con prepotenza incalzante.
-Non sono riuscito ad impedirgli di entrare, Sig. Olsdal!- si giustifica affrettatamente. Stefan annuisce distratto ed intontito, cercando di ricordare il nome del ragazzo che gli si agita davanti preoccupato.- Mi ha anche rubato il passepartout!
-Non l’ho rubato!- ribatte Brian petulante, facendo apparire tra le mani una chiave magnetica attaccata ad una cordicella, la lascia oscillare offrendola all’uomo, che gliela strappa di mano senza troppa delicatezza mentre lui arriccia il naso in una smorfia ridicola e prosegue- Era un prestito!
-Sì, sì, va bene.- s’intromette Stefan prima che il cameriere possa riprendere ad inveire.- È tutto a posto, Oscar.- lo rassicura, ricordando il nome ed utilizzando per spingere l’uomo con educata fermezza verso la porta della stanza.- Ti ha restituito la chiave, è entrato nella stanza…Non c’è nessun problema.
-È sicuro, Sig. Olsdal? Aveva detto che non voleva essere disturbato e…
-Sono sicuro, Oscar, grazie.- risponde lui pianamente, aprendo il battente ed aspettando che esca in corridoio.
L’uomo getta un’occhiata affatto convinta a Brian, che gli ritorce contro una linguaccia che Stefan intercetta voltandosi a fissarlo con aria di disapprovazione paterna, poi il bassista richiude la porta e si volta a fronteggiare il proprio cantante.
-Tu la frase “voglio stare un po’ da solo” non la capisci quando è qualcun altro a dirlo a te, vero?- domanda colloquiale.
Brian sbuffa. Gli da le spalle e prende a muoversi nella stanza, ignorando volutamente la domanda mentre si libera a fatica dell’ingombro offerto dal cappotto che ha addosso. Lo abbandona in un mucchio disordinato su un divano e poi si lascia cadere proprio lì accanto, incrociando le braccia sul petto con aria agguerrita e tornando a puntargli addosso uno sguardo ostinato e silenzioso.
Stefan sospira, passandosi ancora la mano tra i capelli, la lascia ricadere sul fianco e si dirige verso il telefono posato sul tavolino dietro il divano di Brian.
-Io intendo ordinarmi la colazione,- gli annuncia- ti unisci a me o digiuni per protesta?- s’informa premendo i tasti per contattare la hall.
-Vuol dire che posso restare?- arguisce Brian a mezza voce.
-L’unico modo che ho per metterti alla porta allo stato dei fatti è farlo fisicamente.- afferma Stefan pacato, buttando giù prima che dall’altro lato gli rispondano.- E questo magari non sarebbe un problema, ma penso che lederebbe definitivamente quel po’ di dignità che ancora hai.- conclude ricomponendo il numero e portando la cornetta all’orecchio.
Quando riattacca dopo aver parlato con la signorina alla hall, Brian è ancora lì, che lo scruta con quegli occhi troppo verdi, in un silenzio che spaventa Stefan con la propria intensità. Storce il naso, muovendosi per allontanarsi il più possibile da quella presenza tanto “ingombrante” ed intanto si informa.
-Non saresti dovuto essere con Alex agli Studi per una riunione?- chiede colloquiale.
Brian si stringe nelle spalle, socchiudendo lo sguardo e lasciando per un istante Stefan libero di respirare senza costrizioni. Il bassista si avvicina al tavolo che occupa il centro della sala e sposta una sedia per potersi accomodare lì. Tra lui e Brian ci saranno forse tre o quattro metri, troppo pochi si dice mentre osserva l’altro riaprire gli occhi e tornare a puntarglieli addosso.
-Non avevo voglia e non sono andato.- ammette Brian come se fosse una cosa perfettamente normale.- E poi Alex non ha davvero bisogno di me per tenere a bada quella gente…
Stefan si concede di ridacchiare un po’, dovrebbe rimproverarlo ma non si sente di farlo. Tanto per cominciare sarebbe una cosa troppo “intima”, troppo simile ai ruoli che ricoprivano quando erano una coppia, per potersela permettere senza conseguenze. Così registra la decisione di Brian e non la commenta che con quel sorriso divertito.
-E poi oggi non è mica un giorno qualunque!- afferma intanto Brian, ritrovando d’un colpo la stessa euforia infantile con cui ha inscenato il “litigio” di poco prima con l’inserviente. Sorride come un bambino ed a Stefan fa male davvero e lo spinge a sollevarsi in piedi d’impulso un’altra volta. Gli gira le spalle con la scusa di raggiungere il mobile bar ed aspetta che lui vada avanti e si spieghi.- Sai che ricorrenza è?- insiste invece il cantante.
Stefan trova sul fondo del frigo una bottiglietta d’acqua, la preleva voltandosi a guardarlo mentre svita il tappo.
-…no- ammette pianamente.
Il sorriso di Brian si vena di una tristezza un po’ troppo accentuata per poter continuare a mascherarsi dietro la finzione di plastica di cui si è ricoperto prima di uscire di casa. Ma la voce non vacilla lo stesso, il tono rimane fermo quando riprende a parlare in modo leggero.
-Un mese esatto che ti ho promesso che non avrei più toccato quella merda.- gli ricorda, puntando felice un dito verso di lui.- Sono stato bravo, no?
“…sei uno stronzo.”, pensa Stefan distintamente, fissando ora il dito piccolissimo e smaltato di nero che gli si pianta dritto all’altezza del cuore, ora quel viso di ragazzino trentenne, in cui le occhiaie ed il pallore sotto il trucco diventano d’improvviso fin troppo evidenti. Solleva di scatto la bottiglia e se la porta alle labbra, rifuggendo quella vista e cercando inutilmente di sfuggire anche al suono che fa la gola di Brian quando lui inizia a ridere sommessamente.
Abbassa lo sguardo per ritrovarselo comunque davanti. Serafico e soddisfatto, la mano di nuovo accanto, posata sulle gambe accavallate, il viso inclinato, appoggiato sul pugno chiuso al bracciolo della poltrona.
-Speravo di festeggiare.- ammette Brian.
-Non penso.- soffia fuori Stefan, tornando a piegarsi per infilare la bottiglia al proprio posto. Ringrazia la porta quando qualcuno fa suonare il campanello. Brian si solleva dal divano e va ad aprire, permettendo allo stesso cameriere di prima – che gli getta un’occhiata gelida avanzando nella stanza e che viene ripagato da una risatina soffocata in risposta – di entrare accompagnato da un carrello pieno.
-Grazie.- lo congeda Brian accompagnandolo nuovamente oltre la soglia e sbattendogli la porta in faccia, per potersi poi allungare subito a sbirciare sotto gli scaldavivande ordinati sul carrello.- Mmh!- mugola felice.- Croissant.- annuncia a Stefan, servendosi da uno dei vassoi.
Il bassista non dice nulla e non si muove. Osserva da lontano Brian mentre sbrindella la brioche, reggendola con grazia tra le dita impiastricciate di zucchero, e ne ingoia i pezzettini piccolissimi in cui la riduce, talmente assorto e felice compiendo un’operazione tanto semplice da sembrare assolutamente innocuo. Solo che lui continua lo stesso ad averne paura. Paura di avvicinarsi, circumnavigare il baluardo offerto dal tavolo del mobile bar e doversi trovare a distanza troppo ravvicinata, da soli e senza scuse per continuare quel ridicolo balletto di bugie a mezza voce…
-Allora mi dicesti che ci saresti stato.- riprende a parlare Brian all’improvviso. Non lo guarda mentre affonda quel rimprovero tra la paura ed il rimorso che Stefan si sente addosso e sotto pelle, continua imperterrito la propria opera metodica di distruzione del croissant, ignorando volutamente la marmellata densa che si riversa fuori macchiandogli le dita nemmeno fosse un moccioso.- Io ti ho creduto.- gli ricorda ancora. Finisce la brioche e cerca sul carrello, accanto al vassoio, un tovagliolo con cui pulirsi le mani.- E per quel che mi riguarda ho mantenuto la mia promessa.- gli dice continuando a non guardarlo. Si muove per raggiungere il divano e raccoglie il cappotto infilandolo rapidamente.- Ci vediamo, Stef.- saluta pacatamente uscendo nel silenzio pesante dell’altro.

***

Lo Studio ha un colore più tetro quando fuori piove. La luce non arriva ed il marrone rossastro diventa meno luminoso e più pesante, come l’odore di carta e di antico. È quasi opprimente ed è scoraggiante.
Stefan ricaccia la sensazione in fondo alla pancia. Dietro di lui Vincent Cavendish dice qualcosa in tono basso alla segretaria, lei esce chiudendo la porta e lui non fa nessun rumore nel tornare a sedersi alla scrivania che si frappone tra loro. Gli solleva addosso quello sguardo troppo chiaro, Stefan ci affonda dentro e prova a dimenticare il resto.
-Allora.- esordisce colloquiale Vincent.
Stefan prende fiato e continua a ricambiare il suo sguardo in attesa.
-Volevi sapere perché mi trovo qui.- gli ricorda.
Vincent sorride e si mette comodo sulla poltrona.
Stefan contraccambia il sorriso.
-Il motivo si chiama Brian.- comincia a raccontare.
 

  
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