“I'm the voice inside
your head
You refuse to hear
I'm the face that you have to face
Mirrored in your stare
I'm what's left, I'm what's right
I'm the enemy
I'm the hand that will take you down
Bring you to your knees
So who are you?
Yeah, who are you?”
Foo
Fighters, “The pretender”
Knowing
no one: war time
Le esplosioni risuonano così vicine da far tremare il sangue nelle vene.
Il calore delle tue stesse fiamme comincia a darti alla testa, senti il volto bruciare, le gocce di sudore solcare le pieghe della pelle come aratri ardenti, benzina sulle ferite lasciate dalle troppe lacrime.
Non senti più il dolore, non senti più la ruvidezza del tessuto contro i polpastrelli che sfregano l’uno contro l’altro, non ne senti più il rumore breve e secco, più silenzioso ma più devastante di uno sparo, non senti la stanchezza, perché le tue urla – di rabbia, di esaltazione, di onnipotenza, di disgusto – sovrastano tutto, persino i tuoi stessi pensieri.
Destra, sinistra, un proiettile che strappa l’aria a due centimetri dalla tua tempia ti impone di voltarti rapidamente, di schioccare nuovamente le dita.
Un urlo, e l’odore acre del grasso bruciato danno conferma del bersaglio colpito in pieno.
Il resto del plotone è disperso tra i ruderi e ciò che rimane del quartiere. Tra le rovine annerite il fumo si alza verso il cielo limpido, quasi bianco – pallido, attonito, cadaverico.
Muovi passi decisi, il respiro rotto e la gola secca per le esalazioni sulfuree, gli occhi sbarrati come fari nella nebbia, alla ricerca del prossimo obiettivo da colpire, del prossimo nemico da cui difendersi.
Un rumore da dietro capovolge il mondo per un secondo, mischia il giorno e la notte – quello sfondo grigio cupo, fumo e umidità, afa del mezzogiorno contaminata dalle sferzate acuminate delle raffiche serali – il freddo e l caldo, la paura e l’eccitazione.
Il tempo di girare su te stesso – i muscoli della gambe scattano come molle anticipando il cervello, il pensiero razionale, la decisione ponderate: l’istinto è ormai padrone incontrastato – e ti prepari al nemico, al suo attacco, alla sua distruzione.
Solo all’ultimo arresti i tuoi movimenti, bloccando i tendini tesi nello sforzo, i nervi che sembrano voler uscire dal tuo corpo come elastici impazziti.
Quando il fumo si dirada, la sagoma davanti a te è il tuo riflesso speculare: il braccio teso, le gambe divaricate, la mascella serrata.
Solo la mano ferma cinque centimetri davanti al tuo viso, a differenza della tua, è armata di una pistola.
Maes riesce ad abbozzare un ghigno scherzoso, ma la goccia che scivola lungo la sue tempia è inconfutabile testimone di ciò che quella smorfia vuole nascondere.
“Ehilà…” hai intenzione di uccidere anche me? “Preferivo la stretta di mano, come saluto…”
Abbassate il braccio lentamente, lasciando andare il respiro che entrambi stavate trattenendo.
“Andiamo.” sussurra Maes, mentre ripone la pistola nella fondina. “Il distretto è preso, per oggi è finita.”
Lo segui senza parlare, intravedendo il resto della truppa compattarsi sulla via del ritorno al campo, una volta raccolti i pochi feriti sopravvissuti.
“Maes…”
Risponde alla tua voce incerta alzando una mano senza voltarsi: “Non ti preoccupare. Non ti preoccupare…”
Leggi tra le righe della sua ostentata nonchalance: il fumo, i rumori assordanti, la scarsa visibilità… Poteva capitare a chiunque, di non saper distinguere un alleato, un uomo da un altro.
Ma Maes non è solo un alleato, non è esattamente un commilitone, è qualcosa di diverso da un compagno.
E l’idea di non essere più in grado di distinguere il tuo migliore amico dalla massa informe di “nemici” che hai davanti, ti fa più paura di quanto sei disposto ad ammettere.
Dunque.
Ho perso il
conto dei
giorni passati dall’ultimo aggiornamento. Effettivamente, se
ci penso mi viene
da sprofondare dalla vergogna.
Sarò
sincera: sarà perché
non ho tra le mani un nuovo capitolo di FMA da troppo tempo,
sarà perché l’aver
rivisto Lady Oscar mi ha trasportato su altre sponde (benedetta
nostalgia!),
sarà perché gli esami non finiscono mai (e
purtroppo non è solo un modo di
dire), sarà perché l’ispirazione
è come un onda, soggetta alle maree e al
cambiare della luna.
Fatto sta
che
fortunatamente gran parte del lavoro
era
già più o meno pronto, altrimenti sarei in una
crisi ben più profonda (ma
shatzy, siamo telepatiche fino a questo punto?).
Ieri mi
è capitato tra
le mani il volumetto di FMA con la storia di ishvar: per qualche strano
motivo
gira per casa come se avesse vita propria, e spunta fuori nei momenti e
nei
luoghi più impensabili.
Due minuti
dopo ero al
computer e il foglio bianco di word non era più tanto bianco.
PS: E ora
che il primo
bacio è andato… cambiamo argomento! ^^”
No, scherzi a parte,
scusatemi, sembra che l’abbia fatto apposta…
E’ un capitolo un po’ strano messo
così, proprio dopo un momento come quello, ma ho i miei
motivi per tirare in
ballo Maes proprio ora, fidatevi.