2007.
“Round
and around and
around and around we go. Now tell me now tell me now tell
me now you know”
L’aveva
vista
andarsene via e non aveva fatto niente per fermarla. Aveva visto le sue
spalle
incurvate, la sua vita sottile, le sue gambe lunghe e magre
allontanarsi, ed
era semplicemente rimasto a guardarla, rapito dal colore della sua
pelle, dai
suoi capelli sempre più scuri, dai suoi movimenti delicati. «C’è qualcosa nel
modo in cui ti muovi che
mi fa sentire come se non potessi vivere senza te»,
glielo aveva detto un
anno prima, e continuava a pensarlo. Quando c’era lei, il suo
mondo tremava
sempre. Non si sentiva stabile, non aveva più un equilibrio.
Era la calamità
naturale che smuoveva le radici che era riuscito a costruirsi grazie
all’amore
di mamma Constance, alla musica fatta con il fratello, alla finzione
imparata
in un corso di recitazione; il lavoro di una vita nel coprire la
mancanza di
suo padre, di un’infanzia difficile, di
un’adolescenza sbagliata e poco sana, il
tutto spazzato via da due occhi scuri e una risata cristallina.
Sorrise,
un
sorriso amaro, e rientrò in casa. La sentiva già,
dentro lo stomaco, l’ennesima
vacanza crearsi. Si espandeva, prendeva corpo, si sedimentava dentro di
lui. «Voglio che rimani»,
le aveva detto.
E
lei era
rimasta, l’aveva fatto davvero, era rimasta con lui. Si era
rimessa il
cappuccio in testa e si era fatta guidare a casa sua. Non avevano
slegato le
dita neanche per un secondo, e con le code degli occhi si erano
cercati, si erano
studiati, ogni tanto la vedeva sorridere e il cuore gli si scaldava.
Aveva aperto
la porta di casa con le chiavi che gli tremavano in mano, sentendosi
strano,
insicuro. Aveva acceso delle luci, perché lo sapeva, la casa
era disordinata, e
l’unica cosa che non voleva era che lei inciampasse in
qualche sua scarpa
abbandonata. Si corresse mentalmente: quella non era l’unica cosa che voleva. Si
voltò e la vide: le labbra socchiuse, gli
occhi curiosi che abbracciavano la stanza alla ricerca di particolari
che forse
nemmeno c’erano, le braccia lasciate distese lungo i fianchi.
Quando sentì gli
occhi di Jared addosso, rimase qualche secondo immobile, pietrificata
dal
bagliore azzurro che emanavano, e poi gli si avvicinò.
Alzò una mano e gli
scostò un ciuffo di capelli dalla faccia. Jared chiuse gli
occhi. Gli faceva male
guardarla, era disorientante. Non sapeva più chi era, per
che cosa valeva la
pena lottare, se quel grumo che si sentiva in pancia era un buono o un
cattivo
segno.
Riaprì
gli occhi
quando sentì il respiro di lei sulle labbra. Lei era
lì, a pochi centimetri da
lui, e lo guardava, lo rivoltava, lo svuotava. Premette la bocca sulla
sua, con
forza, come se le labbra di lei fossero un appiglio, come ad urlarle
“smettila,
fammi tornare indietro, vattene e ridammi quello che sono”,
e, allo stesso
tempo, le strinse le braccia intorno alla vita, e
l’avvicinò a se,
abbracciandola come se lei fosse l’aria di cui aveva bisogno
per sopravvivere. Le
fece appoggiare le spalle al muro dietro di lei, e la sentì
rabbrividire a
causa del contatto con la superficie fredda. Si staccò da lei,
il fiato corto e le
spostò i capelli dietro le spalle. Erano una coperta dietro
la quale aveva la
tendenza di nascondersi, e ora si sentiva nuda davanti a lui, anche se
i
vestiti ce li aveva ancora tutti addosso. Stavolta fu lei ad avventarsi
sulle
sue labbra, mentre lui, le dita che le arpionavano i fianchi, la alzava
un po’
da terra. Lei allacciò le gambe al suo bacino e chiuse gli
occhi quando la
bocca di Jared prese a mordicchiarle il collo. La baciava,
incendiandola. Con le
labbra salì fino al suo orecchio, e lei poté
sentire il suo respiro strozzato,
pesante, stremato, prima di sentire «Ti guarirò
Mary, ti tirerò fuori dall’infermo».
Lei gli prese il viso tra le mani e avvicinò il naso al suo,
poi annuì e chiuse
gli occhi. «Stanotte possiamo dimenticare tutto»,
continuò lui. «potrebbe
essere come il paradiso». Mary gli carezzò il
volto e si fece trascinare via
dall’inferno, dal paradiso, da se stessa. Si perse, e non
poteva che esserne
contenta.
Ora,
steso sul
letto, un braccio sopra gli occhi per coprirsi dalla luce, Jared
ripensava a
tutto quello con un sorriso senza gioia. Aveva lottato così
tanto, per lei. In
quell’anno non c’era stato altro che lei: lei che
lo guardava suonare, lei che
lo spogliava, lei che cucinava pancakes la mattina, lei che lo baciava,
lei che
conosceva sua madre e le portava una torta in regalo, lei che prendeva
peso, lei
che aveva imparato ad amarlo, lei che la sera, dopo il lavoro, si
distendeva
affianco a lui e lo guardava per ore, carezzandogli il naso, le
palpebre
chiuse, gli addominali scolpiti. E lui, lui che si faceva cullare dal
suo
tocco, che faceva finta di dormire per non spaventarla, per farle
continuare
quella tortura, lui che la rincorreva per casa e poi la baciava fino a
che i
polmoni non protestavano in mancanza d’ossigeno, lui che
vedeva gli occhi di
sua madre illuminarsi quando la vedeva, lui che la vedeva ogni giorno
più sana,
ogni giorno un pochino più felice, lui che pensava di averla
trascinata via
dall’inferno, lui che pensava che ora, in quel loro paradiso
personale, stesse
bene. Lui che, soprattutto, si sbagliava.
Diede
un pugno
al cuscino. L’aveva vista andarsene via e non aveva fatto
niente per fermarla. Continuava
a dirsi che l’aveva fatto perché
l’amava, ed era vero, era fottutamente vero
che l’amava, che l’aveva fatto per lei, ancora una
volta per lei, tutto per
lei. Era una di quelle persone che non si accontentano mai, lei.
Gliel’aveva
detto «porto solo guai», gliel’aveva
detto che non aveva più le forze di
sognare, gliel’aveva detto ma lui non l’aveva
ascoltata, lui testardo, lui
rapito, lui giù innamorato, la speranza a farlo padrone.
Avevano
litigato
tante volte in quell’anno, si erano detti cose che non
pensavano, si erano
detto che si odiavano, che si facevano schifo, si erano distrutti e poi
avevano
ripreso ad amarsi, in quel letto perennemente sfatto, quel bisogno
sulle punte
delle dita, quel bisogno della carne, delle labbra, del cuore che
continuava a
soffrire, a sopprimersi, perché andava tutto bene. Ci
provavano, si leccavano
le ferite a vicenda e ricominciavano, fino al momento del litigio
successivo,
di altri piatti volati, di altre notti d’amore a chiedersi
scusa.
Ma
lei non ce l’aveva
fatta più, lei che non si accontentava, lei che non sognava,
lei che l’aveva
consumato, distrutto, che l’aveva ferito, che
l’aveva, nonostante tutto, amato.
Si erano rincorsi per tanto tempo, si erano cercati, si erano
allontanati, si
erano presi e si erano picchiati. Come un gatto che gira intorno a se
stesso
per acchiapparsi la coda, ma non ci riesce mai. Era tutto un andare
intorno,
rincorrersi, perdersi, girare, girare girare perdere
l’equilibrio, sentire la
testa leggera e poi il petto pesante, sanguinare, soffrire, sorridere,
piangere, girare, perdere la testa.
Aveva
perso la
testa per lei senza conoscerla, le aveva chiesto di restare, e poi,
impazzito,
l’aveva lasciata andare via. Perché aveva bisogno
di ritrovare se stesso,
perché lei, lei che amava tanto, la sua Mary di cui non
conosceva ancora il
nome reale, lei che era il pianeta più grande della sua
galassia, che lo
attirava con la sua forza di gravità, che lo faceva
sbandare, che lo faceva
tremare, lei che gli aveva strappato via le radici e vi si era
sostituita, lei
aveva deciso di andarsene, perché «ho un buco che
nemmeno tu riesci a colmare,
Jared, ed è una fossa che la paura ha scavato dentro di me,
che non se ne va». Le
si era avvicinata e gli aveva baciato le labbra, soffermandosi a
contemplare il
suo naso, che le era sempre piaciuto, guardandolo poi negli occhi e
vedendoci
dentro una tormenta. Scappò, con un «mi
dispiace», prima di essere investita
dalla tempesta, prima di vederlo rendersi contro che non aveva
più radici, non
aveva più una casa perché era casa solo dove
c’era lei, le sue gambe pallide
intrecciate alle sue, la sua pancia piatta su cui dormire, le sue
ginocchia
spigolose su cui appoggiarsi quando le sue membra tremavano.
Scappò, ancora una
volta, facendogli male, facendosi male. Con lo sguardo di Jared ancora
puntato
sulla schiena, disse, in un sussurro «Ci rincontreremo,
Jared», ma lui non
poteva sentirla. Ma lui non voleva sentire più niente se non
la rabbia che gli
montava in petto, secondo dopo secondo.
Buon
Natale,
pasticcini. Nessuno ha letto questa storia, praticamente, ma va bene
così, non
tutto quello che scrivo può piacere. Il punto è
che questa storia piace a me,
quindi continuerò a scriverla finché non
sarà finita, non mi arrendo per così
poco. Deb.