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Autore: sleepingwithghosts    29/12/2013    4 recensioni
«Perché non ti svegli?», sussurrò dopo un po’, in preda all’ansia. Doveva rivedere quegli occhi, doveva porre loro delle domande, doveva capire. Le sfiorò le vene del braccio, di un colore scuro che bene conosceva, e sentì di nuovo quella morsa allo stomaco. Da quanto tempo si drogava? Avrebbe voluto saperlo. Perché lo faceva? Che cosa era successo nella sua vita di tanto tragico da farla rifugiare in quello schifo? Perché voleva uccidersi? Aveva bisogno di risposte. «Svegliati, ti prego», disse in un sospiro, il naso appoggiato sul suo polso. Aveva un buon profumo, pesca forse.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2007.

 

Round and around and around and around we go. Now tell me now tell me now tell me now you know

 

L’aveva vista andarsene via e non aveva fatto niente per fermarla. Aveva visto le sue spalle incurvate, la sua vita sottile, le sue gambe lunghe e magre allontanarsi, ed era semplicemente rimasto a guardarla, rapito dal colore della sua pelle, dai suoi capelli sempre più scuri, dai suoi movimenti delicati. «C’è qualcosa nel modo in cui ti muovi che mi fa sentire come se non potessi vivere senza te», glielo aveva detto un anno prima, e continuava a pensarlo. Quando c’era lei, il suo mondo tremava sempre. Non si sentiva stabile, non aveva più un equilibrio. Era la calamità naturale che smuoveva le radici che era riuscito a costruirsi grazie all’amore di mamma Constance, alla musica fatta con il fratello, alla finzione imparata in un corso di recitazione; il lavoro di una vita nel coprire la mancanza di suo padre, di un’infanzia difficile, di un’adolescenza sbagliata e poco sana, il tutto spazzato via da due occhi scuri e una risata cristallina.

Sorrise, un sorriso amaro, e rientrò in casa. La sentiva già, dentro lo stomaco, l’ennesima vacanza crearsi. Si espandeva, prendeva corpo, si sedimentava dentro di lui. «Voglio che rimani», le aveva detto.

E lei era rimasta, l’aveva fatto davvero, era rimasta con lui. Si era rimessa il cappuccio in testa e si era fatta guidare a casa sua. Non avevano slegato le dita neanche per un secondo, e con le code degli occhi si erano cercati, si erano studiati, ogni tanto la vedeva sorridere e il cuore gli si scaldava. Aveva aperto la porta di casa con le chiavi che gli tremavano in mano, sentendosi strano, insicuro. Aveva acceso delle luci, perché lo sapeva, la casa era disordinata, e l’unica cosa che non voleva era che lei inciampasse in qualche sua scarpa abbandonata. Si corresse mentalmente: quella non era l’unica cosa che voleva. Si voltò e la vide: le labbra socchiuse, gli occhi curiosi che abbracciavano la stanza alla ricerca di particolari che forse nemmeno c’erano, le braccia lasciate distese lungo i fianchi. Quando sentì gli occhi di Jared addosso, rimase qualche secondo immobile, pietrificata dal bagliore azzurro che emanavano, e poi gli si avvicinò. Alzò una mano e gli scostò un ciuffo di capelli dalla faccia. Jared chiuse gli occhi. Gli faceva male guardarla, era disorientante. Non sapeva più chi era, per che cosa valeva la pena lottare, se quel grumo che si sentiva in pancia era un buono o un cattivo segno.

Riaprì gli occhi quando sentì il respiro di lei sulle labbra. Lei era lì, a pochi centimetri da lui, e lo guardava, lo rivoltava, lo svuotava. Premette la bocca sulla sua, con forza, come se le labbra di lei fossero un appiglio, come ad urlarle “smettila, fammi tornare indietro, vattene e ridammi quello che sono”, e, allo stesso tempo, le strinse le braccia intorno alla vita, e l’avvicinò a se, abbracciandola come se lei fosse l’aria di cui aveva bisogno per sopravvivere. Le fece appoggiare le spalle al muro dietro di lei, e la sentì rabbrividire a causa del contatto con la superficie fredda. Si staccò da lei, il fiato corto e le spostò i capelli dietro le spalle. Erano una coperta dietro la quale aveva la tendenza di nascondersi, e ora si sentiva nuda davanti a lui, anche se i vestiti ce li aveva ancora tutti addosso. Stavolta fu lei ad avventarsi sulle sue labbra, mentre lui, le dita che le arpionavano i fianchi, la alzava un po’ da terra. Lei allacciò le gambe al suo bacino e chiuse gli occhi quando la bocca di Jared prese a mordicchiarle il collo. La baciava, incendiandola. Con le labbra salì fino al suo orecchio, e lei poté sentire il suo respiro strozzato, pesante, stremato, prima di sentire «Ti guarirò Mary, ti tirerò fuori dall’infermo». Lei gli prese il viso tra le mani e avvicinò il naso al suo, poi annuì e chiuse gli occhi. «Stanotte possiamo dimenticare tutto», continuò lui. «potrebbe essere come il paradiso». Mary gli carezzò il volto e si fece trascinare via dall’inferno, dal paradiso, da se stessa. Si perse, e non poteva che esserne contenta.

 

Ora, steso sul letto, un braccio sopra gli occhi per coprirsi dalla luce, Jared ripensava a tutto quello con un sorriso senza gioia. Aveva lottato così tanto, per lei. In quell’anno non c’era stato altro che lei: lei che lo guardava suonare, lei che lo spogliava, lei che cucinava pancakes la mattina, lei che lo baciava, lei che conosceva sua madre e le portava una torta in regalo, lei che prendeva peso, lei che aveva imparato ad amarlo, lei che la sera, dopo il lavoro, si distendeva affianco a lui e lo guardava per ore, carezzandogli il naso, le palpebre chiuse, gli addominali scolpiti. E lui, lui che si faceva cullare dal suo tocco, che faceva finta di dormire per non spaventarla, per farle continuare quella tortura, lui che la rincorreva per casa e poi la baciava fino a che i polmoni non protestavano in mancanza d’ossigeno, lui che vedeva gli occhi di sua madre illuminarsi quando la vedeva, lui che la vedeva ogni giorno più sana, ogni giorno un pochino più felice, lui che pensava di averla trascinata via dall’inferno, lui che pensava che ora, in quel loro paradiso personale, stesse bene. Lui che, soprattutto, si sbagliava.

Diede un pugno al cuscino. L’aveva vista andarsene via e non aveva fatto niente per fermarla. Continuava a dirsi che l’aveva fatto perché l’amava, ed era vero, era fottutamente vero che l’amava, che l’aveva fatto per lei, ancora una volta per lei, tutto per lei. Era una di quelle persone che non si accontentano mai, lei. Gliel’aveva detto «porto solo guai», gliel’aveva detto che non aveva più le forze di sognare, gliel’aveva detto ma lui non l’aveva ascoltata, lui testardo, lui rapito, lui giù innamorato, la speranza a farlo padrone.

Avevano litigato tante volte in quell’anno, si erano detti cose che non pensavano, si erano detto che si odiavano, che si facevano schifo, si erano distrutti e poi avevano ripreso ad amarsi, in quel letto perennemente sfatto, quel bisogno sulle punte delle dita, quel bisogno della carne, delle labbra, del cuore che continuava a soffrire, a sopprimersi, perché andava tutto bene. Ci provavano, si leccavano le ferite a vicenda e ricominciavano, fino al momento del litigio successivo, di altri piatti volati, di altre notti d’amore a chiedersi scusa.

Ma lei non ce l’aveva fatta più, lei che non si accontentava, lei che non sognava, lei che l’aveva consumato, distrutto, che l’aveva ferito, che l’aveva, nonostante tutto, amato. Si erano rincorsi per tanto tempo, si erano cercati, si erano allontanati, si erano presi e si erano picchiati. Come un gatto che gira intorno a se stesso per acchiapparsi la coda, ma non ci riesce mai. Era tutto un andare intorno, rincorrersi, perdersi, girare, girare girare perdere l’equilibrio, sentire la testa leggera e poi il petto pesante, sanguinare, soffrire, sorridere, piangere, girare, perdere la testa.

Aveva perso la testa per lei senza conoscerla, le aveva chiesto di restare, e poi, impazzito, l’aveva lasciata andare via. Perché aveva bisogno di ritrovare se stesso, perché lei, lei che amava tanto, la sua Mary di cui non conosceva ancora il nome reale, lei che era il pianeta più grande della sua galassia, che lo attirava con la sua forza di gravità, che lo faceva sbandare, che lo faceva tremare, lei che gli aveva strappato via le radici e vi si era sostituita, lei aveva deciso di andarsene, perché «ho un buco che nemmeno tu riesci a colmare, Jared, ed è una fossa che la paura ha scavato dentro di me, che non se ne va». Le si era avvicinata e gli aveva baciato le labbra, soffermandosi a contemplare il suo naso, che le era sempre piaciuto, guardandolo poi negli occhi e vedendoci dentro una tormenta. Scappò, con un «mi dispiace», prima di essere investita dalla tempesta, prima di vederlo rendersi contro che non aveva più radici, non aveva più una casa perché era casa solo dove c’era lei, le sue gambe pallide intrecciate alle sue, la sua pancia piatta su cui dormire, le sue ginocchia spigolose su cui appoggiarsi quando le sue membra tremavano. Scappò, ancora una volta, facendogli male, facendosi male. Con lo sguardo di Jared ancora puntato sulla schiena, disse, in un sussurro «Ci rincontreremo, Jared», ma lui non poteva sentirla. Ma lui non voleva sentire più niente se non la rabbia che gli montava in petto, secondo dopo secondo.

 

 

 

Buon Natale, pasticcini. Nessuno ha letto questa storia, praticamente, ma va bene così, non tutto quello che scrivo può piacere. Il punto è che questa storia piace a me, quindi continuerò a scriverla finché non sarà finita, non mi arrendo per così poco. Deb.

  
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