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Autore: TheUnknownDevice    29/12/2013    3 recensioni
“La convinzione fotte la gente”, disse qualcuno.
Honey, dopo aver passato dieci dei suoi diciotto anni su una sedia a rotelle, è convinta di non avere nulla: non ha un paio di gambe funzionanti, non ha dei genitori, non possiede alcun amico né un qualche animale domestico.
Dylan, lo scapestrato e fin troppo attraente ragazzo che irrompe nella sua vita e le propone un patto a doppio senso, invece, sembra essere contento e fiero della propria vita.
Ma non è tutto come sembra, dipende solo dai punti di vista. E quando gli antipodi si scontrano, ogni cosa è davvero possibile, perché tutto passa, ma niente cambia davvero. Forse, solo se ne sei profondamente convinto.
È come in una guerra, come un accordo di mutuo soccorso tra Paesi alleati. Il primo a cadere perde, ma può contare sull’aiuto dell’altro.
Una solida alleanza, un tacito patto a doppio senso, un appiglio per salvarsi dalla fredda ed esigente realtà.
And nothing else matters - E non importa nient'altro.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo secondo

 
Take me home

 
 
 
'Take me down to the Paradise City,
where the grass is green
and the girls are pretty.
Oh, won't you please take me home.'

- Paradise City, Guns N’ Roses
 


Mi strinsi nel cappotto verde militare, guardando a destra e a sinistra in attesa di un qualche aiuto divino.
Erano passate due ore dalla mia telefonata con Cedric. Non sapendo che fare, mi ero diretta verso la mia classe e, scusandomi col prof di lettere, mi ero sistemata al mio banco – quello senza la sedia – per assistere alla lezione.
Così, ora mi trovavo sul marciapiede davanti alla scuola, quello che ormai fungeva da fermata del bus.
Non lo avevo mai fatto ma, non avendo Matilda che mi accompagnasse a casa, avevo pensato di prendere il pullman, magari aiutata a salire da qualche anima pia.
Ma mai idea fu più deleteria, poiché – nemmeno fossero una massa informe di bufali – una marea di studenti si riversò sul primo bus che arrivò, spintonando a destra e a sinistra per arrivare almeno alle porte.
Afflitta, sospirai un «bene» e mi diressi verso il cartello della fermata – ormai vuota – sperando che ci fosse un altro pullman per quell’ora.
 
«Cazzo!» Non fui ad imprecare, bensì una voce sconosciuta alle mie spalle.
Mi voltai, spostando tutta la carrozzella, e notai il tizio di poche ore prima – sì, il corridore – che si grattava la nuca con fare pensieroso ed alterato.
 
«Porca miseria! Ora come faccio?» Il ragazzo parve accorgersi solo in quel momento della mia presenza, poiché increspò le labbra in un sorriso malizioso ed in poche falcate raggiunse la mia postazione.
 
«Ehi, ma chi si rivede...», mi salutò, accovacciandosi per arrivare alla mia altezza – o meglio, alla mia bassezza.
«Ehm, sì ciao...» Non sapendo il suo nome, aggrottai le sopracciglia in una muta richiesta d’aiuto.
 
«...Dylan. Mi chiamo Dylan Hamilton. Tu devi essere Honey Hendricks, giusto?», mi domandò, ghignando.
 
«E tu come fai a sapere chi sono?!» Qualcosa non tornava.
 
«Ma dai! Non ti ricordi?» Mi guardò spalancando le iridi smeraldine.
 
«Cosa dovrei ricordare esattamente?»
 
«Eravamo in seconda elementare; avevamo adottato una cavia, una di quelle piccole e puzzolenti, e l’avevamo tenuta con noi per tutto l’anno. Mi ero affezionato a quell’esserino, caspita! Aspetta, com’è che si chiamava..?»
 
«Teddy. Si chiamava Teddy, credo», risposi, illuminata.
 
«Sì, esatto!», sorrise, «Ma allora ti ricordi, eh?»
 
«Sì... aspetta: quando lo portarono via ci fu un bambino che pianse a dirotto», sorrisi, pensando a quanto fosse stato esilarante, ai tempi.
 
«Già», rispose mesto, mutando la sua espressione in un sorriso imbarazzato.
 
«No!», m’illuminai, «Non dirmi che eri tu, quel bambino!»
 
«Ehm, ecco... sì.»
 
«Wow. E così tu sei Dylan, quel Dylan? Il bambino più capriccioso e rompiscatole di tutta la classe è davvero davanti a me?»
 
«In carne ed ossa, Miss ‘sono la più brava della classe’», mi prese in giro, imitando una smorfia di disprezzo.
 
«Mmh, non lo fui per molto tempo, però», sussurrai, pensando che non mi avesse sentita.
Ed ora puoi anche immaginare il perché, pensai.
 
«Eh già» Calò il silenzio, mentre confrontavo la peste che avevo conosciuto alle elementari con il bel fusto – e che fusto, ragazzi! – che avevo sotto agli occhi in quel momento.
Non ci sono proprio paragoni.
Fu lui il primo a ridestarsi, ergendosi in piedi in tutta la sua altezza e cominciando a spingere la mia sedia.
 
«Ehm, Hamilton, dove credi di poter andare?»
 
«Ehm, Hendricks, ti riporto a casa, che domande!», se ne uscì lui, bello come il sole.
 
«Ma se non sai nemmeno dov’è!», sbottai. Iniziavo ad innervosirmi.
 
«Oh, giusto,» Parve rinvenire, il genio, «allora credo proprio che dovrai dirmi dove abiti», asserì, sul volto l’espressione più seria e convinta che avessi mai visto.
 
«Bè, mi pare ovvio. Ti conosco da appena dieci minuti – se non pure di meno -, so a malapena il tuo nome e pretendi pure che mi faccia accompagnare a casa da te?» Era proprio il colmo.
 
«Ma su! Non siamo degli estranei, ci conosciamo da quando eravamo dei bambini e poi... andiamo, è pericoloso andare in giro da sola, per una come te...» Lo interruppi, scioccata.
 
«Per una come me, eh?»
 
«N-no, non hai capito...» Sembrava in netta difficoltà; niente a che vedere con l’espressione sicura e spavalda di poco prima. «Hai capito, dai... lo sai che intendo, Hendricks...»
 
«No. Non lo so, Hamilton. Spiegamelo tu, dato che una come me non potrebbe comprendere!» Alzai di qualche ottava il tono, sentendo le lacrime già pungermi gli occhi.
Mi aveva sempre dato fastidio la pena o la falsa commiserazione della gente; solamente perché ero costretta su una sedia a rotelle del cavolo, non voleva dire che non fossi in grado di muovermi o, meglio ancora, di ragionare.
Inoltre, appunto questo pensiero mi aveva resa dura e schiva con la gente a me circostante, tant’è che avevo creato una barriera talmente spessa ché difficilmente qualcuno aveva osato avvicinarvisi.
Da ciò era scaturita la malsana abitudine – nemmeno tanto volontaria – di non piangere più. Dalla morte dei miei, dopo una lunga e violenta serie di nubifragi, decisi che i miei occhi non avrebbero più versato nemmeno una goccia. Niente di  niente.
E così era successo.
Perciò sapevo bene che, nonostante ci fosse un forte impulso, quelle lacrime sarebbero rimaste lì dov’erano, senza aver alcuna possibilità di fuga.
Sentii il ragazzo vicino a me sospirare, prima di cacciare le mani nella tasca del suo giubbotto – rigorosamente di pelle – ed estrarvi un accendino, seguito da un pacchetto di Lucky Strike.
Ci mancava giust’appunto che fumasse.
Senza degnarmi di uno sguardo, l’accese e la portò alle labbra – gesto che, in un altro momento, mi avrebbe pure fatto sospirare. E non solo, eh.
Nera di rabbia, afferrai malamente le ruote della sedia – rischiando persino di forarle – e le mossi energicamente verso quella che doveva essere la strada di casa. E speravo che lo fosse, poiché s’era fatto quasi buio ed era la prima volta, in quattro anni di liceo, che incappavo in una situazione simile. Ciononostante, presi il coraggio a due mani e mi feci guidare dalla poca memoria che possedevo e da qualche punto di riferimento conosciuto.
Ero sull’orlo di una crisi nervosa, quando sentii una spinta più vigorosa far muovere la sedia.
Mi voltai, confusa e leggermente spaventata, facendo scontrare il mio sguardo con quello tormentato del maratoneta.
Prima che potessi parlare, levò la sigaretta che ancora aveva tra le labbra e parlò: «Non facciamone un dramma, Hendricks. Il mio aiuto ti conviene, quindi niente domande, mh?» Assottigliò lo sguardo, buttando fuori il fumo inalato.
Mi rivoltai agitata sulla carrozzella, torturando le mie già malmesse unghie.
 
«Johnson Street, 28/B», mi pronunciai, sibilando il mio indirizzo nemmeno avessi dovuto rivelargli dove si trova la fonte dell’eterna giovinezza.
 
«Ora si inizia a ragionare, Hendricks.» Lo sentii distendere le labbra in un sorriso trionfante, oltre che maleodorante.

«Almeno potresti spegnere quella cosa, per favore?», lo pregai. Era più forte di me, odiavo il fumo all’inverosimile, anche più della sedia a rotelle.
 
«Ti dà fastidio?»
 
«Ehm, sì. Molto.» Meglio essere sinceri.
 
«Okay, ma ricorda che sei tu quella in debito con me, non il contrario. Il servizio taxi consente al conducente di fumare, o sbaglio?»
 
«Ehi, io non ti ho chiesto niente, ricordalo!»
 
«E ci risiamo. Hendricks, calma; stavo scherzando», così dicendo, si sporse in avanti donandomi una visuale in primo piano delle sue iridi verde prato, seppur capovolte. Mi sorrise smagliante, mostrando una schiera di denti a dir poco perfetti.
Ma un difetto questo qui non ce l’ha?
Sì, Honey. Fuma.
Ah, giusto.
Ancora persa in quel miscuglio di colori troppo perfetti, non m’accorsi che la velocità della mia sedia a rotelle era aumentata notevolmente.
 
«Hamilton, capisco che tu non riesca a tenere a bada la tua indole da corridore, ma potresti rallentare? Non credo che la sedia possa reggere.» In realtà mi stavo divertendo anche più del lecito.
 
«E dai, Hendricks, questa carrozzella deve sgranchirsi un po’, lasciala stare!» Rise di gusto. Vidi, nonostante l’accelerazione, che aveva gettato a terra la sigaretta mezza intatta, per poi impugnare i manici della sedia e correre come esattamente aveva fatto quella mattina, a scuola.
 
«Non dirmi che non senti l’adrenalina scorrere nelle tue vene, Hendricks, perché non ci credo!» La velocità era una gran fregatura ma, allo stesso tempo, una gran genialità; poter sentire la sua voce in preda alla foga della corsa era qualcosa di maledettamente fantastico.
 
«Certo, certo. Che gran cosa, l’adrenalina!»,  scherzai, anche se probabilmente doveva aver ragione. Insomma, non avevo mai potuto – per forza di cose – sperimentare cosa realmente fosse la tanto amata ‘adrenalina’, ma pensai che potesse avvicinarsi di molto a ciò che stavo provando io in quel momento.
Faceva un freddo cane, sì; il vento mi sferzava i capelli in una maniera troppo violenta e sfrontata, l’aria era impregnata di fumo e smog, del sole non rimaneva che una vaga parvenza all’orizzonte e, per finire in bellezza, il cielo minacciava un temporale epico.
Honey, non ti stupire: siamo a novembre.
Mi sfregai le mani, colta da un improvviso brivido di freddo – e forse non solo di freddo – stringendomi ancor di più nel cappotto, che era divenuto improvvisamente troppo leggero.
Come a capire il mio disagio – che poi tanto disagevole non era – Dylan rallentò, svoltando l’angolo.
 
«Miss Hendricks, si ricordi bene di pagarmi per la corsa, prima di scendere dal taxi», ghignò lui, sporgendosi ancora una volta in avanti.
 
«Quale taxi?»
 
«Bè, il taxi Hamilton, ovvio.»
 
«Oh, allora cercherò di ricordarmene, signor maratoneta dei miei stivali.»
 
«Sei diventata improvvisamente sfrontata, Hendricks? Non eravamo degli sconosciuti, noi?» Si stava proprio prendendo gioco di me. Malgrado ciò, non seppi prenderla del tutto come una battuta, la sua, e mi rabbuiai all’istante.
 
«N-no. Cioè, credevo che... ecco...» Ed ecco che la sicurezza tanto ben ostentata andava scemando dietro alla mia innata ed incorreggibile timidezza.
 
«Ehi, Miss Hendricks, ma tu devi sempre prendere tutto e tutti sul serio, eh? Era uno scherzo, caspita!» E così dicendo, si mise a ridere, facendo echeggiare la sua voce per tutta la strada, nonostante essa pullulasse di persone e veicoli d’ogni genere.
Sorrisi di rimando, imbarazzata, appuntandomi mentalmente di non dare troppa corda al mio cervello bacato, specialmente quand’è in modalità ‘allerta’.
Con uno scatto repentino – ah, zio Cedric e le sue espressioni tecniche sul calcio – accelerò nuovamente, regalandomi un vero brivido di piacere – e non di freddo.
 
«Si prepari, Miss. L’atterraggio è vicino; ripeto: l’atterraggio è vicino. Allacciare le cinture di sicurezza, grazie.»
È proprio un bambino, pensai.
 
«Okay, okay!», gridai, per farmi sentire tra il trambusto delle auto.
 
 
- - -
 
 
Quando la corsa fu davvero finita, provai un leggero – ma proprio lieve, eh – moto di tristezza, subito sostituito dal sorriso smagliante di Dylan, che si era parato tra me ed il cancelletto di casa mia.
La macchina di Cedric era già parcheggiata, segno che era rientrato presto dal lavoro.
 
«Okay, Miss. Il mio compito qui è terminato. Ci vediamo domani a scuo...» Maledetto sorriso.
Prima che potesse continuare, il portoncino di casa si spalancò e vi uscì uno zio Cedric mezzo addormentato e intontito.
 
«Hamilton?» Fu il sopracitato a nominarlo, non io.
Di tutta risposta, Dylan s’illuminò improvvisamente. «Mister?»
 
«Sì, e io sono Honey», conclusi stupefatta, «Vi conoscete?!»
 
«Ovvio! Lui è il mio coach!», rispose con tanto d’occhi, Dylan.
 Oh, ma quant’è piccolo il mondo!
 
«Già», disse solo l’altro, alzando un pollice. «Honey, ti ho preparato una specie di pranzo, nonostante sia già quasi ora di cena», proferì lo zio, sorridendomi dolcemente, «Oh, credo che il forno debba essere controllato!» Scomparve, Cedric, dietro la porta, mentre Hamilton mi rivolgeva uno dei suoi sguardi più commossi.
 
«Ma allora... non sei una Miss...», disse toccato, «...sei una mister
Oh Gesù, aiutalo, perché, davvero... non sa quel che dice.
 
«Eh, così pare.»








UnknownVoice:

Ehilà, buonasera a tutti! Stranamente, sono stata veloce con l'aggiornamento ;) Ma non abituatevici troppo, è solo la magia del Natale *ride sommessamente*
Anyway, in questo capitolo si introduce il vero e proprio personaggio di Dylan (nome che adoro, tra l'altro *-*), il bel fusto amico d'inafanzia dimenticato da Honey. E come si fa a dimenticarlo, uno così? Eh, vabbè :D
A parte gli elogi a Dylan, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che non sia stracolmo d'errori; non ho potuto rileggerlo, perciò se avete qualcosa da farmi notare, ditelo pure. E poi, spero che, in generale, mi facciate sapere che ne pensate: le persone che seguono la storia stanno aumentando, spero di cuore anche coloro che recensiscono ;) Ve ne sono grata, grazie!
Alla prossima,
UnknownDevice

 
  
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