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Autore: Mabelle    29/12/2013    1 recensioni
«Aspetta.» gli disse, e più di così era davvero impossibile aspettare. Era sulla soglia della porta di casa, aveva appena fatto girare le chiavi nella serratura e si voltò.
«Ti ho salvato mille volte, io.» e lui sorrise debolmente, non credendoci nemmeno un po’ a quelle parole.
«No, tu mi hai distrutto, Alizée.» e quante male potevano farle quelle parole.
Alla fine, forse, il suo dolore l’aveva davvero ucciso. Che ci aveva provato veramente a salvarla, a proteggerla, a prendersi cura di lei, ma Alizée aveva una forza distruttiva impressionante, era un uragano e l’unica persona che poteva fermarla era se stessa.
Per un attimo vorrebbe provare di nuovo a stringerla, a vedere cosa provava, a capire cosa si era perso, ma non lo fece. E aprì quella porta e la salutò come si salutano quelle persone che ti mancheranno un po’ sempre, ma dalle quali devi andartene per non finire del tutto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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[vi consiglio di leggere la one-shot con la canzone "terrible love" di birdy.]

a C,
che una volta mi disse di scrivere di noi


Aveva la schiena curva e le braccia incrociate sul petto. Sembrava dire ti prego, no, tu non distruggermi più. Indossava una semplice canotta bianca, le
piaceva sentirsi il freddo addosso e tremava un po’ per il gelido, un po’ per tutto. 
Le gambe nude, lunghe, esili e bianche. Che lei, il bianco, se lo portava dentro. 
Aveva le mani che sfioravano le costole e le sentiva, quelle ossa, pungere sotto la sua pelle. Colline vicine che affioravano.
Era appoggiata alla finestra con il viso leggermente inclinato a guardare qualcosa, che poi nemmeno lei sapeva cosa. Non c’è nulla da guardare alle sette di mattina, anche se il mondo già si muove, tu sei ferma e allora non vedi.
Aveva lo sguardo vacuo di chi ormai gli occhi non li sa più usare. Che, il dolore, alla fine, inizi a sentirlo dentro e ti squarcia la pelle, ti lacera e lo senti addosso. Ti percorre le vene.
Si passò una mano fra i capelli biondi e li spostò sulla spalla destra. Le tenne incastrate, quelle dita, fra i suoi boccoli.
Non voglio che ce ne andiamo, pensava. E mentre lo pensava, si chiedeva quanto tempo fa avevano smesso di amarsi. In verità, lei, di amarlo non aveva mai smesso e questo la tormentava. Che ti ritrovi ad un punto in cui uno dei due decide che bisogna finire e, tu, però, non lo sapevi che era troppo tardi, che il vostro tempo era già passato.
Abbandonò la finestra e forse abbandonò anche se stessa. Stava aspettando che il caffè salisse e sentiva l’odore nella cucina. 
Comparve la sua figura sulla soglia della stanza, aveva gli occhi stanchi di non era ancora abituato a dormire sul divano e i capelli spettinati di chi la voglia di sistemarsi non l’aveva ancora trovata. Era già vestito e lei non aveva sentito alcun rumore.
Lo guardava e come ogni mattina si ripeteva quanto fosse alto, quanto quel maglione gli stesse bene e si domandava perché si fossero fatti tutto quel male.

E pensò a quante volte si erano amati in quella cucina. Che si erano amati davvero, loro due. 
Lei si sedeva sul tavolo e aspettava che la stringesse e la baciasse, ricordandole che era il sapore della sua vita. 
Mangiava poco e lo sapeva. E allora l’aiutava, perché toccava a lui nutrirla, ora. Si metteva di fronte a lei e le offriva biscotti, le ripeteva quanto fosse bella. Non lo ascoltava nemmeno un po’, ma sorrideva comunque.
«Tu non sei grassa, piccina. Tu sei perfetta. Credimi, mangia un po’.» le diceva.
E mangiava solo perché c’era a lui a ricordarglielo, che la teneva più di ogni altra cosa.
La chiamava “piccina” perché lei lo era davvero. Era minuscola, fragile e sua. L’abbracciava spesso e scompariva fra le sue braccia, le baciava i capelli e poi lei alzava lo sguardo come per chiedergliene uno sulle labbra.
Gliele avrebbe consumate quelle labbra, lui.

«Vuoi del caffè?» gli chiese, mentre spegneva il fornello.
«Mi fa schifo il caffè, Alizée.» e si appoggiò allo stipite della porta mentre la osservava. Era dimagrita molto in quel periodo, forse perché lui l’aveva lasciata andare. 
Non si possono lasciare andare così le persone che hai tenuto per tanto tempo. Tu glielo devi dire, devi prepararle, devi ricordargli che a salvarsi ora dovranno pensarci loro. 
E lui non gliel’ha detto, non l’ha preparata e lei non si è ricordata che a salvarsi ora doveva pensarci da sola.
Anche ad Alizée non era mai piaciuto il caffè e non si domandò, però, perché l’avesse fatto. A volte le cose si fanno così, perché ti va di farle. 
Prese la moca, l’aprì e la lasciò nel lavandino. 
Ora non le piaceva quello sguardo, che i suoi occhi la spogliavano di tutto e lei era niente, allora.

Tempo fa la guardava una, due, tre, quattro e una volta sempre in più di quella precedente. Conosceva ogni minuzia, ogni neo, ogni cicatrice su quella pelle bianca e le aveva baciate, una ad una. 
C’era stato un momento in particolare in cui le disse una frase che le fece tremare i polsi «un giorno io e te faremo l’amore e ti dimostrerò che non ci sono solo i tagli come sollievo, Alizée.».
E l’avevano fatto davvero, l’amore. Sul divano, contro il muro, tra le lenzuola dei letti degli alberghi in cui avevano prenotato, sul pavimento. Si erano amati come solo loro due sapevano fare e si erano sentiti addosso, dentro, 
Aveva imparato a curarle le ferite e lei lo lasciava fare, voleva che colmasse il suo vuoto.
Eppure, ogni tanto, cadeva e allora voleva lasciare scivolare via tutto e non le importava più di nulla. 
«Tu non vai da nessuna parte.» la stringeva forte come se fosse un pacco di roba sua, la cullava e l’amava perché lei non era in grado di amare se stessa.

Era ancora appoggiato a quello stipite e lei avrebbe tanto voluto fargli delle domande a cui lui, puntualmente, avrebbe risposto male.
Forse mi ama ancora, forse da qualche parte mi ama ancora, pensava. E pensare non fa mai bene in questi casi. Bisogna chiederle, queste cose, ma si teme sempre un po’ la risposta e allora no, non si dice nulla.
«Non hai freddo, Alizée?» le domandò. Avrebbe voluto rispondergli che lei, il freddo, ce l’aveva dentro e non sentiva più nulla, non sentiva più loro due. Invece rispose che stava bene così, che in fondo è sempre stata bene così, con le gambe nude e un pezzo di cotone.
«Come stai?» queste domande non si dovrebbero mai fare perché conosci già la risposta e non bisogna farle tremare, le persone. E lui invece voleva farla tremare forse un po’ più di sempre.
«Io non sto. E tu?» non stava davvero. Non stava più dentro ai pantaloni perché erano troppo larghi, non stava più dentro ai reggiseni perché il suo seno era diventato davvero piccolo, non stava più dentro ai cappotti comprati mesi fa perché la facevano scomparire.
«Non sto così male. Sai, non sono più disposto a soffrire. Così mi sono svegliato una mattina e ho detto basta. Ho capito che non ce l’avrei mai fatta a salvare qualcuno, che nessuno dei due ce l’avrebbe mai fatta»

Una sera erano seduti sul divano, guadavano un film a caso perché ormai i film si scelgono così: a caso, Alizée si era ricomposta improvvisamente, sedendosi con la schiena dritta e le gambe incrociate. Lui l’aveva guardata con quegli occhi di chi non capisce mai cosa stai per fare veramente.
«Qualunque cosa succederà, mi devi promettere che non te ne andrai, che non mi volterai le spalle, che ci terremo stretti.» gli disse.
«Ma è assurdo, Alizée.»
«Tu promettimelo.» e alla fine cedette perché con lei non si poteva fare altrimenti.
«Te lo prometto, io. Ma perché dovrei fare una cosa così stupida?»
«Perché sì, perché capita.» allora la strinse forte e le scostò i capelli dal viso. Davvero si domandava come avrebbe mai potuto andarsene, che aveva perfino paura a lasciarla a casa da sola, figuriamoci una vita intera.
«Vuoi che ti salvi? Dimmi la verità.»
«Sì.»
«Allora ti salverò.» e, lui, la voleva salvare veramente.

C’era quella finestra. E c’era quel caffè buttato via. E c’era quella cucina. E c’erano lei e poi anche lui, ma non c’erano più loro due.
«Non hai avuto la forza di aspettare, forse eravamo ad un passo.»
«Da cosa, Alizée?»
«Dal continuare a resistere, ad esistere.»
«No, non eravamo ad un passo, noi due. Eravamo già troppo lontani.» e le persone che dicono queste cose già sanno cosa succederà e fa sempre un po’ paura. Loro due avevano fatto così tante prove di abbandono e, forse, quando era arrivato l’abbandono Alizée non lo sapeva riconoscere.
Abbracciamoci, teniamoci, avrebbe voluto dirgli e invece non gli disse niente. Non c’era niente da spiegare perché davvero non si poteva spiegare.
«Io non ti amo più.» e le sue colline vicine di ossa si ruppero, le tremarono i polsi di nuovo e ogni parte del suo corpo pulsava. C’è questo attimo, prima di crollare, in cui davvero non sai se cadrai oppure se saprai stare in piedi e lo scopri solo in questi casi, mai prima. Non ti puoi preparare, devi accettare il dolore. La fine ti squarcia sempre un po’ e tu non puoi fare nulla.

Era seduta sul pavimento con la schiena appoggiata al muro gelido e i capelli sciolti sulla spalla destra. Aveva pianto ed ora si sentiva un vuoto a perdere. Le capitava spesso di avere una sorte di crisi, soprattutto quando lui non c’era.
E la trovò lì, ferma, quando entrò in casa. Non disse nulla e si precipitò a stringerla, le sussurrava di piangere, di svuotarsi che poi l’avrebbe colmata di nuovo lui.
Prese le sue mani bianche e le baciò dolcemente, ogni centimetro di pelle.
«Io ti amo forte, Alizée.» 
«Ti amo forte anche io.» e scoppiò di nuovo in un pianto lacrimoso e fu scossa dai singhiozzi e lui la stringeva e le accarezzava i capelli. Si calmava così, lei.
«Grazie.»
«Di cosa?» le domandò.
«Di tenermi.»

C’era ancora quella finestra e quel caffè e quella cucina, ma no, lei non c’era più. 
Si domandava cosa avrebbe fatto di tutto quell’amore che aveva in corpo. Lo avrebbe soppresso? Lo avrebbe ignorato? Lo avrebbe dato a qualcun altro? E non voleva rispondersi, che, no, non potevano essere finiti. Non meritavano la fine, loro due.
Ora sentiva davvero il freddo e avrebbe voluto coprire quelle gambe esili e scomparire in uno di quei cappotti ormai troppo grandi che aveva. Non voleva essere lì. Voleva essere altrove. 
«Dove andrai?» gli domandò.
«Non lo so.» e invece forse lo sapeva. 

Avevano fatto diversi viaggi insieme, ma ce n’erano tre che avrebbe rifatto ancora e ancora.
L’aveva portata a Ferrara, a vedere il castello e le fece numerose foto anche se non era capace, e ne fecero anche insieme, con l’autoscatto. Mangiarono tante piadine e a lei piaceva quella cura. Non gli chiese mai perché la portò proprio in quella città dato che lui c’era già stato tempo prima. 
A Ferrara si amarono tanto. Si amarono anche per tutte quelle volte che non lo fecero. 
Andarono anche ad Oxford e il viaggio lo propose Alizée, che in verità lo si leggeva negli occhi che voleva tornarci. Così presero l’aereo e camminarono fra quelle vie inglesi, a guardare vetrine, a specchiarsi dentro, a baciarsi forte, a tenersi sempre. 
E poi la portò anche al mare. Si ritrovarono così, su una spiaggia, e si bagnavano e ridevano con gli occhi colmi. Le piaceva passeggiare sulla riva e una volta scrisse il suo nome, si voltò verso di lui e immediatamente un’onda cancellò tutto. E forse la stessa cosa accade a loro. Sono esistiti, ma stati annullati.

E la finestra c’era ancora, insieme al caffè e alla cucina, e lui non più.
«Dov’è il mio cappotto, Alizée?» si mosse verso di lui per indicargli dove fosse e lui lo prese velocemente.
Lo vide infilarselo. Braccia lunghe e svelte. E lei non lo fermò, perché l’aveva già fermato troppe volte.
«Aspetta.» gli disse, e più di così era davvero impossibile aspettare. Era sulla soglia della porta di casa, aveva appena fatto girare le chiavi nella serratura e si voltò.
«Ti ho salvato mille volte, io.» e lui sorrise debolmente, non credendoci nemmeno un po’ a quelle parole.
«No, tu mi hai distrutto, Alizée.» e quante male potevano farle quelle parole. 
Alla fine, forse, il suo dolore l’aveva davvero ucciso. Che ci aveva provato veramente a salvarla, a proteggerla, a prendersi cura di lei, ma Alizée aveva una forza distruttiva impressionante, era un uragano e l’unica persona che poteva fermarla era se stessa.
Per un attimo vorrebbe provare di nuovo a stringerla, a vedere cosa provava, a capire cosa si era perso, ma non lo fece. E aprì quella porta e la salutò come si salutano quelle persone che ti mancheranno un po’ sempre, ma dalle quali devi andartene per non finire del tutto.

Si videro altre volte dato che lui doveva prendere i suoi vestiti e le sue cose. Le prime volte lo lasciò solo a raccogliere tutto, e lei si rifugiava in cucina, davanti a quella finestra, a piangere. Non si raccontarono mai nulla, forse perché nessuno dei due voleva sapere. 
Ci furono dei momenti in cui avrebbe voluto chiamarlo e urlargli che gli sarebbe mancato per tutta la vita, che il dolore la stava dilaniando e lacerando. Voleva dirgli che non mangiava, che si scordava di farlo. Voleva dirgli un sacco di cose, lei, e invece non gli disse nulla.
E se ne era andato. E non era pronta. E aveva fatto male.
E ogni tanto tremava durante la notte. Una volta gli augurò anche il male, lei che il male non lo augurò mai a nessuno. Voleva che cadesse e che non ci fosse nessuno ad afferrarlo perché erano tutti troppo distrutti, e allora lui avrebbe voluto rialzarsi da solo e non ce l’avrebbe fatta o forse dopo tanto tempo.
Ogni cosa le ricordava lui. Era ovunque, tranne dove doveva essere veramente. 

E ci mise un po’ a capirlo, che lei era troppo fragile per vivere ma troppo potente per morire.
E, ancora adesso, doveva ricordarsi che sapeva respirare da sola.





mabelle.
E' la mia prima One-Shot scritta nelle storie originali e, probabilmente, ho aspettato tanto tempo sia perché non mi sentivo pronta sia per scrivere di qualcosa che sentivo davvero. Ed io ho sentito davvero questa storia.
Non ho specificato il nome del ragazzo nella os, sebbene ne avessi in mente uno, perché è un ragazzo che conosco veramente e quindi volevo che si utilizasse il suo vero nome oppure lo si tacesse. 
La maggior parte dei dialoghi sono accaduti veramente con quella persona e per me è stato molto difficile riportarli.
Nella mia mente ho elaborato e rielborato questa One-Shot numerose volte e finalmente ho avuto il coraggio di scriverla. E' forse la storia che sento più di tutte in quanto l'ho vissuta.
"Metterla su carta" è stato un po' il mio modo per dire: siamo esistiti, nonostante tutto.
Spero vi sia piaciuta e grazie per aver letto.
Un bacio.

 

  
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