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Autore: Alaire94    30/12/2013    0 recensioni
Avete mai pensato a una vita senza emozioni? A come sarebbe se il cuore non battesse più e non foste più di un involucro freddo e apatico? Lottereste per conservare quel piccolo frammento di umanità rimasto in voi o vi abbandonereste alla sorte?
Cercheranno di farti credere che la loro è una giusta causa, ti prometteranno ignobili punizioni, ma non sempre ciò che luccica è oro e non sempre nel buio c'è il male. Benvenuti a Edentia, nel paradiso che forse paradiso non è.
Genere: Angst, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tigri in camera da letto

 

La campanella di fine lezione mi fece ritornare alla realtà. Ero intontita, come avessi dormito per ore e mi mossi dall'angolino solo quando ormai tutti erano usciti dall'aula.

Sentivo una morsa dolorosa all'altezza dello stomaco ed era alquanto strano visto che non potevo provare dolore.

Mi mischiai fra gli studenti.«Invisibles an», pronunciai a bassa voce, ritornando così ad essere visibile.

Dovevano esseri i ricordi improvvisi. Ricordare mi faceva provare emozioni, a quanto pareva. Nonostante ciò, i conti continuavano a non quadrarmi: com'era possibile che accadesse? Ero ormai un'Harveil e da qualche tempo mi ero arresa alla mia natura. I miei capelli erano ormai completamente candidi, il mio viso granitico e quelle poche emozioni che provavo erano talmente lievi che faticavo a percepirle.

Eppure in quel momento sentivo molte cose, tutte ugualmente forti. Il vuoto per la mancanza di mamma nella mia vita, la nostalgia per i tempi andati e il desiderio di essere ancora come gli studenti che mi circondavano. Nel profondo volevo una normalità che non sarebbe mai tornata.

Sono un'Harveil, nulla può cambiare questo, dissi a me stessa, contrastando quel tumulto che mi si agitava dentro. Mi provocava un dolore acuto: il mio corpo non era più adatto ad ospitare qualcosa di così profondamente umano. Eppure, come mi era stato dimostrato, succedeva e avrei dovuto recarmi di nuovo a Edentia per scoprire cosa mi stava succedendo.

Mi concentrai nel cercare la testa di Milena fra gli studenti, ma senza successo. Doveva essere stata una dei primi a schizzare fuori dalla classe, probabilmente entusiasta di liberarsi di me almeno per qualche tempo. Decisi di non affrettarmi per raggiungerla: in fondo era impertinente quello che noi Harveil facevamo. Ci infiltravamo come ladri nella vita della gente e, anche se per il loro bene, rubavamo il loro spazio personale.

M'incamminai lungo le strade acciottolate del centro, preceduta da altri studenti, senza fretta di arrivare a casa di Milena.

Attraversai la piazza di fianco al Duomo, quella in cui avevo dormito la notte. A quell'ora del primo pomeriggio era animata da studenti di ritorno dalla scuola e turisti con lo zaino in spalla e macchina fotografica alla mano. Il silenzio, rotto solo dal borbottio in una qualche lingua straniera, donava un'atmosfera intima, di relax, dovuta anche all'abbraccio del sole di settembre.

Ben presto giunsi di fronte alla porta del palazzo di Milena. Feci per allungare il dito verso il campanello, ma rimase lì, a mezz'aria. Non sapevo bene per quale motivo, ma qualcosa non mi convinceva; un allarme suonava nella mia testa, sebbene non avessi idea da che cosa fosse provocato. Decisi di dargli ascolto: mi fidavo ciecamente del mio istinto perché non mi aveva mai tradita. Dovevo agire in fretta, prima che accadesse qualcosa di irreparabile.

Chiusi gli occhi, visualizzai nella mente la stanza di Milena e mi ci teletrasportai. Forse si sarebbe spaventata, forse avrebbe avuto una reazione che io non potevo prevedere, ma il mio istinto diceva chiaramente che il teletrasporto era la cosa giusta da fare e io mi convinsi a non soffermarmi su certe sottigliezze.

Quando aprii gli occhi, mi si presentò uno scenario che avrei potuto benissimo immaginare. Harry mi aveva messa in guardia quando mi aveva presentato la missione, mi aveva spiegato come reagire.

Sai cosa devi fare, mi dissi. Eppure, per quanto fossi preparata a vedere due tigri in una camera da letto, non potei impedire di avere un attimo di esitazione.

Milena era relegata nell'angolo di fianco alla finestra. I capelli spettinati, gli occhi sbarrati dal terrore e il viso talmente pallido che credetti stesse per svenire.

Mi lanciai verso di lei un momento prima che una delle tigri spiccasse un balzo per poi cadere a terra, scossa da scintille blu. A quanto pareva il mio scudo aveva funzionato: non avevo ancora avuto occasione di testarlo.

Restai per qualche secondo immobile, a guardare l'enorme corpo della tigre dimenare le zampe e produrre mugolii di dolore. Era un esemplare davvero maestoso con quel folto pelo ramato striato di nero che sfumava sempre più verso il bianco della pancia. E gli occhi, che fino a poco prima erano minacciosi e felini, in quel momento di agonia, parevano chiedere pietà.

Spostai lo sguardo verso l'altra tigre. Non c'era più; al suo posto era apparso un ragazzo sui vent'anni. Aveva i capelli corti e spettinati, pelle pallida e il viso punteggiato da qualche elegante lentiggine. Il mento appuntito rendeva il viso allungato, in armonia col corpo slanciato, gli occhi verdi avevano un qualcosa di surreale.

Era chiaro che, per quanto si sforzasse, non avrebbe mai potuto passare per umano, non ai miei occhi; si muoveva in modo sinuoso, più simile a un animale che a un uomo, il suo sorriso era di un tipo che non avevo mai visto e che avrei preferito non vedere mai. Era un ghigno inquietante, talmente inumano che risvegliò in me una paura che mi bloccò.

O forse... forse non era paura. Era un'emozione intensa che non riuscivo ad identificare: non ero più capace di dare un nome a quello che provavo. Nel mio stato tutto si confondeva irrimediabilmente.

«Che cosa gli hai fatto?», mi domandò, indicando quella che poco prima era una tigre e che si era trasformata in un cane, un dobbermann per la precisione. I suoi potenti guaiti di dolore mi stavano perforando i timpani.

«Si riprenderà», risposi. Non ne ero del tutto sicura, ma sapevo che noi Harveil tendevamo a provocare meno dolore possibile. Il nostro compito era solo quello di mantenere l'equilibrio.

Si avvicinò e io indietreggiai automaticamente, schiacciando Milena contro l'angolo. La sentivo tesa e il suo silenzio era la prova di quanto fosse terrorizzata.

«Non ti avvicinare o proverai le stesse pene che sente il tuo compagno», lo avvertii.

Il suo ghigno si allargò mentre continuava ad avanzare. Scansò la sedia della scrivania, per poi giungere di fronte a me, appena al di là dello scudo. Doveva essere un amante del rischio o forse, semplicemente, credeva di non aver nulla da perdere.

Fui costretta a guardare negli occhi verdi, a studiare ogni minuscolo lineamento di quel viso bellissimo e inquietante allo stesso tempo. C'era malinconia nel suo sguardo, frustrazione; cose che non mi sarei mai aspettata di vedere. Harry mi aveva parlato di mostri crudeli e senza scrupoli, avidi di potere. La tristezza non era certo un'emozione che mi faceva pensare alla malvagità.

«Io non ho paura dei morti», affermò, scrutandomi duramente.«Forse non oggi o domani, ma avremo quello che vogliamo e non sarà uno stupido scudo a fermarci».

Non riuscii a formulare una risposta. Lui era estremamente determinato, lui aveva attaccato per scelta. Io non ero così sicura di quel che facevo; non era la mia battaglia. In vita avevo combattuto mille guerre non mie, ma era diverso: in cambio avevo ricevuto sorrisi.

Nella situazione in cui mi trovavo non avrei avuto niente a rendermi felice, se non forse l'approvazione di altra gente apatica come me.

Lo guardai impalata, mentre prendeva fra le mani il suo compagno - diventato un criceto dal pelo bianco - e, dopo avermi perforata con lo sguardo, si lanciò dalla finestra aperta proprio di fianco a noi.

Attesi qualche secondo prima di sciogliere lo scudo. Quel ragazzo, anzi, quell'essere mi aveva lasciato talmente tante emozioni incontrollabili che impiegai del tempo per reprimerle a dovere.

Era stato alquanto devastante. Avrei voluto fare qualcosa, dire qualcosa, ma mi aveva paralizzata. Perché non ero riuscita ad essere un vera Harveil per una volta che lo desideravo?

Devi andare a Edentia, devi verificare, mi dissi, promettendo a me stessa che ci sarei andata a breve.

Mi sedetti sul letto, cercando di recuperare la consueta apatia.

Milena fece qualche passo incerto. Se di solito era sicura di sé, in quel momento la sua espressione tradiva paura e confusione.

«Cos'erano?». La sua voce non era più che un sussurro.

Alzai lo sguardo verso di lei e le feci segno di sedersi di fianco a me.«Erano dei mutaforma e vogliono il monile di tua nonna. Mi credi adesso?».

Vidi i suoi occhi spalancarsi e la sua mano correre istintivamente alla tasca dei jeans stracciati, da cui estrasse il medaglione. Accarezzò la pietra scura con le punte delle dita.«Sì, ti credo». Alzò lo sguardo su di me.«Ma perché?».

«Quelle creature...». Presi un profondo respiro, cercando nella mia mente le parole che più avrebbero potuto rendere credibile quella storia.«Vivono in una città sotterranea, sotto i nostri piedi. Sono estremamente malvagie e desiderano intraprendere una guerra con voi umani per vivere in superficie. Cercano il tuo medaglione per risvegliare il loro antico sovrano Akamazur in quanto in passato un potente mago l'ha usato per addormentarlo per sempre». Mi fermai prima di continuare, per controllare che mi stesse seguendo. Mi guardava con occhi spalancati, accesa di interesse.«Deve essere passato di mano in mano fino ad arrivare a te e io sono qui per impedire che ciò accada».

«Ma neanche tu sembri... normale», osservò con espressione alquanto confusa.

Ero vagamente offesa, ma sapevo che, per quanto scomoda ai miei occhi, era la verità. Io non ero normale, ero diversa da lei e per un qualche arcano motivo faticavo ancora a mettermelo in testa.

Mi alzai dal letto e mi diressi verso la scrivania, dove era appoggiato uno specchio insieme ad altre inutili cianfrusaglie. Lo presi in mano e guardai distrattamente il mio riflesso, forse nel tentativo di convincermi della verità.

I miei occhi spenti, il mio inquietante pallore cadaverico ne erano le prove. Eppure avevo l'impressione che fosse una maschera, un involucro che avevo dovuto infilare a forza.

I capelli ne erano sfuggiti, erano ancora in parte neri e, se pochi giorni prima il bianco sembrava prevalere, ora non ve n'era che qualche striatura. Chi o cosa ero veramente? Pensavo di averlo capito, ma in realtà il dubbio non era mai svanito. Era rimasto in stallo, fermo, in attesa di lampeggiare ancora in cerca di considerazione.

Non potevo dare una risposta. Per ora dovevo continuare a indossare la maschera: era l'unica sicurezza che avevo.

«No, non sono normale», ammisi, riponendo lo specchio sulla scrivania.«Sai, è stato difficile anche per me accettare tutto questo e lo è ancora. Io sono un'Harveil e sono stata mandata qui per mantenere l'equilibrio fra bene e male».

«Da dove vieni?».

Scossi la testa.«Non posso dirtelo: mi è proibito. L'unica cosa che posso dirti è che io cercherò di proteggerti. Ti puoi fidare di me».

Lo sguardo di Milena si perse lungo i poster appesi alle pareti, mentre le labbra sottili si tiravano leggermente; non era ancora sicura di potermi credere. Si spostò i lunghi capelli striati di verde alla destra del collo e prese a toccarli distrattamente.«Va bene, mi fiderò di te». Alzò gli occhi su di me. Non li avevo mai notati, forse perché mai mi aveva lanciato uno sguardo tanto intenso, ma erano azzurri con qualche sfumatura grigio chiaro.«D'altronde non ho altra scelta».

Sospirai, rendendomi conto che io e lei eravamo nella stessa, medesima situazione. Tutte e due non potevamo fare altro che arrenderci alle scelte di altri.

In quel momento sentii il rumore di una serratura scattare; la porta di ingresso si aprì con un tenue cigolio, seguito dal ticchettio di tacchi sulle piastrelle lisce della cucina.«Sono tornata!», annunciò una voce di donna.

«Ora è meglio che... che usi il tuo trucchetto di questa mattina», suggerì Milena con un sospiro malinconico. Cominciavo a capire che forse il suo atteggiamento ribelle, il suo look sfrontato non erano che una reazione alla solitudine.

In fondo dava l'idea di essere una brava ragazza: per quanto lo negasse, si era fidata di me sin dall'inizio perché, in caso contrario, non mi avrebbe mai fatta salire in casa sua.

Riuscii a diventare invisibile giusto un attimo prima che una donna sulla quarantina, slanciata e fin troppo magra entrasse in camera.

«Come va, Milly?», le domandò, cercando di accennare un sorriso.

Aveva un'aria davvero stanca: i capelli corti tinti di biondo erano spettinati e, per quanto avesse cercato di nasconderlo col fondotinta, aveva profonde occhiaie sotto gli occhi.

«Tutto bene», rispose non del tutto sicura. D'altronde era appena stata attaccata da una coppia di mutaforma, era più che normale che non si sentisse del tutto bene.

Mi alzai dal letto, decisa ad uscire di casa: non mi sembrava corretto origliare quella conversazione tra madre e figlia. Non volevo invadere a tal punto la sua vita, l'avevo già fatto anche troppo.

Più silenziosamente che potei, passai dietro la schiena della donna e uscii dalla porta della stanza. Vidi Milena seguirmi con gli occhi e assumere un'espressione perplessa, ma io mi portai un dito sulle labbra, facendole segno di tacere.

«Sei sicura che vada tutto bene?», sentii domandare ancora la madre mentre mi dirigevo verso la porta d'ingresso e furtivamente la aprivo.

 

***

Angolo autrice

Finalmente le feste mi lasciano un attimo di tregua e così ho deciso di postare un altro capitolo... Spero che qualcuno possa gradirlo 

   
 
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