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Autore: Jo_March_95    30/12/2013    1 recensioni
-This phone call it’s..it’s my note.
That’s what people do, don’t they? Leave a note.
-Leave a note, when?
La prima sensazione è il vuoto, vuoto che incombe, vuoto che aspetta. E’ stato lì per tutto quel tempo, a torreggiare dal basso e imporsi sul niente. Resta lì spalancato ad attendere un corpo in caduta, corpo che preme, corpo che crolla.
La seconda sensazione è il bruciore, la gola si infiamma, la voce non esce, bolle pesanti si dispongono rispondendo alle leggi dell’entropia, distribuiscono silenzi dove nessuno potrà mai profanarli.
Un urlo si scaglia, è un proiettile di precisione, raggiunge il bersaglio, affoga nel centro. Spacca in due i timpani.
‹‹ SHERLOCK ››
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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                                    I was not magnificent



-This phone call it’s..it’s my note.
That’s what people do, don’t they? Leave a note.
                                                                                                                                                                   -Leave a note, when?



 
 
La prima sensazione è il vuoto, vuoto che incombe, vuoto che aspetta. E’ stato lì per tutto quel tempo, a torreggiare dal basso e imporsi sul niente. Resta lì spalancato ad attendere un corpo in caduta, corpo che preme, corpo che crolla.
La seconda sensazione è il bruciore, la gola si infiamma, la voce non esce, bolle pesanti si dispongono rispondendo alle leggi dell’entropia, distribuiscono silenzi dove nessuno potrà mai profanarli.
Un urlo si scaglia, è un proiettile di precisione, raggiunge il bersaglio, affoga nel centro. Spacca in due i timpani.
<< SHERLOCK >>
E’ John, urla più forte, crede di raggiungerlo, spera in una legge fisica che alteri la velocità del suono e renda corporei i suoi movimenti, chiama un po’ più forte per riuscire a sentirsi, tutto rimbalza e ritorna al mittente, quegli strilli acuti lo travolgono come un boomerang.
La terza sensazione è l’asfalto, John è veloce, lo mastica con i piedi, ne lascia miglia indietro, si scontra con la distanza che taglia in due il fiato. Sherlock continua la sua danza, è aggraziato mentre le braccia si piegano in maniera innaturale, nella compostezza dell’impatto nessun osso resta al suo posto, tutti insieme suonano una melodia scordata, sono archi di violino lacerati e legno smussato dall’umidità.
La quarta sensazione è l’impatto, John perde qualsiasi percezione, dimentica la prospettiva, non sente più rumori. Qualcuno lo travolge e quel dolore alla testa non è abbastanza da fermarlo, non ora che è quasi vicino, non ora che è quasi non così lontano. Non ora, non ora..
Sherlock non lo sente il pietriccio che spinge per entrare da ogni ferita aperta, dal taglio che squarcia in due le tempie e il sangue che scorre senza alcun freno.
John si rialza, fa leva sui reni per rimettersi in piedi ma le ginocchia non smettono di tremare e le pupille vagano impazzite, come magneti con troppi nord non sanno su quale dettaglio soffermarsi, a quale lembo di pelle potersi aggrappare, un alito di vita che gli dia di nuovo respiro. Perché così non funziona, così i polmoni sono afflosciati e la cassa toracica è compressa in uno spazio di vuoto cosmico. La bocca è spalancata, la trachea trasporta a singhiozzi molecole di H2O.  Qualcuno  afferra il biondo alle spalle, la natura non ha abbastanza energia per aiutarlo ad opporsi. Mani lo trascinano giù, mani lo tengono fermo, barriere di mani, di mani di estranei.
L’ultima sensazione è il contatto, le dita rigide di Sherlock sono rivolte verso l’alto, aspettano un messaggio, un codice morse spedito dal cielo. Un pallido calore lo avvolge, infiamma i polsi, se esistesse ancora un controllo riuscirebbe a tirar su gli angoli della bocca, oppure ad autoimporsi di non far trapelare nulla. Le unghie di John sono affamate, scavano tre i tendini per cercare un battito, per sentire il suono del sangue che fluisce, la promessa di un nuovo finale. Non fa in tempo a tracciare i contorni delle falangi nodose da violinista dell’altro mentre sono ancora irrigate, i primi capillari diventano viola, la bocca si avvia all’ultimo sospiro. Qualcuno lo afferra dalla giacca.. dicono che andrà tutto bene, dicono che ci penseranno loro.. l’ipocrisia li spinge a garantire l’immutabilità degli eventi, la paura spinge il dottor John ad aggrapparsi con ogni neurone a quei futuri inventati, se li lega stretti attorno al collo cosicché se dovessero lacerarsi almeno portino a fondo anche lui, lavato via dalla corrente.
 


-Nobody could be that clever.
                                                       
                                                                                                                                                                                                           -You could





Le pareti degli ospedali sono sempre troppo bianche  perché vogliono dare un volto alla morte, la gente si ci specchia e soppesa i propri fantasmi tra una sfumatura di intonaco e l’altra.
Il silenzi negli ospedali durano sempre troppo a lungo, perché vogliono prepararti al peggio, vogliono riprogrammarti e renderti un veicolo per il dolore.
Attraverso il silenzio impari l’assenza, attraverso il silenzio inizi a scrivere il tuo addio.

La testa di John continua a far male, il sangue è raffermo e una crosta antiestetica funge da apice su quello che sembra a prima vista un brutto bozzo da trauma cranico ma schiodarlo dalla sedia per portarlo nella sala risonanze è fuori discussione, le mani sono arpionate al ferro freddo e non hanno intenzione di lasciarlo.

I passi dei medici risuonano sempre troppo a lungo, negli ospedali. Annunciano l’arrivo di una notizia, ne stabiliscono la cadenza e l’andatura. Pochi passi frettolosi e forse si salva, pedate pesanti e forse è troppo tardi, se restano fermi stanno per recidere il filo.
Lo sguardo di John è perso nel vuoto, un’infermiera lo osserva senza dare nell’occhio, ha paura che svenga di nuovo, ha paura che ricominci ad urlare.

Passa tutta una notte, la gente arriva a pezzi e se ne va indolenzita e soddisfatta, con bende, gessi e punti, crede di poter restare intatta ancora per molto.
Un medico pieno di sangue esce dalla sala operatoria sulla sinistra, si leva la bandana verdognola, abbassa lo sguardo e punta verso l’unica anima assente  presente in sala. Gli occhi di John si fanno giganti, prova a scappare ma i piedi non rispondono, prova a fingere che non stia andando verso di lui, condanna con lo sguardo gli altri pazienti, spera sia l’uomo grasso con l’ infarto ad essere morto. Sua moglie è giovane, potrebbe rifarsi una vita. John senza..senza Sherlock non respirerebbe più.
La danza finisce con un tocco di grazia, il medico prende a torcersi le mani. Non è lui ad aver operato, gli altri, quelli con delle competenze, sono ancora dentro ad agitarsi attorno al corpo magro e nervoso di quel coinquilino strampalato. Chiede il permesso di rianimarlo, chiede di poter fingere di aver fatto tutto il possibile mentre lo lascia morire con una costola retta a  perforargli il cuore. John abbassa il capo, inizia a sentirsi male. Il primo conato è solo un avvertimento, il secondo allaga la sala di bile verde e ora non ci sono più scuse per la risonanza, lo portano dentro e lo infilano in una cellula che sembra aliena,mentre lui non può far altro che tremare. Se avesse un dio al di fuori di Sherlock pregherebbe, ma una divinità in punto di morte come la si salva?
Lo pungono con un ago per indurlo a dormire, ha le iridi gonfie e i bulbi arrossati, spalanca le palpebre in un moto di ribellione ma alla fine il calmante è più forte. Così non potrà più urlare, spiega l’infermiera con un sorriso, così non dovrò più insozzare l’aria con il mio dolore, le fa eco il biondo.

Dorme per 12 ore, si alza con le occhiaie lucide, come fossero nuove nuove di zecca. Il primo pensiero è rivolto all’amico, al migliore amico, al suo dio. Si chiede se sia ancora tutto intero, si chiede se sia ancora rosso di sangue o se il bianco delle pareti lo abbia inghiottito, se sia una specie di zombie. Si piega in due con un braccio all’addome, in quel gesto si tira dietro tutti i fili della flebo, fa cadere a terra il sostegno di ferro, il suono è secco e non c’è eco.
Dicono che abbia una specie di esaurimento nervoso, dicono che non sia insolito per i coniugi metabolizzare la perdita in modo sbagliato, lo guardano come se fosse un caso clinico, lo vorrebbero spedire in psichiatria perché quello sguardo spento e la litania gutturale li spaventa, però questo non lo dicono.
<< Sherlock? >> Non è neppure una domanda, piuttosto una richiesta, piuttosto un’ancora a cui aggrapparsi.
 Gli restituiscono i vestiti e lo incoraggiano ad indossarli prima di dare una risposta, vogliono avere l’impressione di parlare con una persona normale e non un pazzo con lo sguardo vitreo e la mascella abbandonata.
L’espressione facciale non cambia ma la giacca al posto del camice a quadretti azzurri aiuta i medici e li fa sentire più tranquilli, si lavano la coscienza con il dubbio che affligge John.
<< V-vivo? >>
Non sarebbe così stupido da morire, se lo sussurra interiormente ma un singhiozzo sfugge alla barriera di controllo inesistente.
Il medico annuisce ed è il secondo più lungo della sua vita, quel movimento decisivo, quella risposta di transitoria assolutezza.
Il resto è un blabla di paroloni medici e anticipazioni di quello che sarà il futuro, di incertezze saldate da documentazioni mediche e prognosi riservate. E’ lunga la lista dei danni e dei rischi, John vorrebbe tenerla a mente ma non ci riesce, vorrebbe non conoscerla a memoria e dimenticare tutti quegli anni di medicina, tutte quelle verità nascoste dietro formule chimiche e danni irreversibili.
Chiedono se vuole vederlo, sperano che un infarto non lo stronchi sulla porta della stanza 221, sperano che entrambi se ne vadano il prima possibile perché tutta quell’angoscia è insostenibile per coloro che devono conviverci tutti i giorni.

Se non fosse per la massa riccioluta di ciocche ribelli che contornano i lineamenti forti del viso, non si distinguerebbe dalle lenzuola a causa del pallore così accentuato.
Una grossa garza appiattisce il ciuffo e arriva fino a allo zigomo, nascondendo per intero uno di quei due pozzi azzurro verdi, quelle lenti di ingrandimento, quegli strumenti di scienza perfetta.
<< E-ehi >> La voce è roca e per niente amichevole, è come se un incontenibile desiderio omicida e un insostenibile bisogno di certezze si siano fusi. Vorrebbe vederlo aprire gli occhi, alzarsi con quei fianchi stretti e dondolare in punta di piedi fino alla finestra, a quel punto sarebbe John stesso ad afferrarlo per le clavicole e scaraventarlo di sotto ma stavolta starebbe bene attento a non lasciare la presa, cadrebbe insieme a lui, per sempre.
<< C-come hai potuto? >> Non alza gli occhi per non doverlo guardare, per non imprimere nella memoria quel sorriso smorto e le mani abbandonate, tutto il rosso che spinge attraverso le bende, i bip delle flebo e le vene nervose tartassate dagli aghi.
Non è una domanda e non è neppure retorica, è una di quelle invocazioni senza risposta e senza sete di sapere, è una di quelle affermazioni che vanno espresse con la voce acuta e il tono tagliente mentre in cuore martellano solo delle scuse.
<< Scusa scusa scusa scusa scusa scusa scusa scusa >>
L’infermiera arriva poco dopo, lo sorprende con una sedia in mano, in procinto di lanciarla chissà dove. Lo sgrida come avesse cinque anni, lo maltratta e lo spinge dimenticandosi che avendo perso il proprio baricentro non possiede più equilibrio. John si accascia, fa il patetico e si abbandona alle lacrime, lava quel pavimento fatto di piastrine e globuli bianchi, lava quelle guance scavate dalla vergogna, poi si rialza e va via sbattendo la porta.
E’ già lontano quando un bip di troppo attira l’attenzione, è come se quel comportamento avesse turbato Sherlock, è come se tutto quel dolore fosse stato assorbito e infatti quello increspa le sopracciglia e inizia una crisi convulsiva.


Servono due settimane prima che entrambi siano abbastanza in forze per un nuovo colloquio.
John si sente elettrico, neppure il giorno del ballo dell’ultimo anno era stato così ansioso. Nemmeno durante le sparatorie in Afghanistan aveva mai avuto un tentennamento. E ora eccolo volteggiare davanti lo specchio per decidere cosa indossare, se un maglioncino di lana o una camicetta a quadri, spera che Sherlock apprezzi il suo outfit da sotto le palpebre chiuse.
Neppure un miglioramento, da quella crisi epilettica al nulla.
Avevano obbligato il dottore a stare alla larga dalla stanza 221, credevano fosse dannoso per entrambi continuare con quei comportamenti morbosi. Eppure le cose si erano rivelate diverse, Sherlock era rimasto come in stato vegetativo, non rispondeva in maniera adeguata e anche John, un tutt’uno col divano, rifiutava di mangiare e di tentare di vivere.
Non riusciva a concepire l’idea di dover sopravvivere al proprio inquilino, voleva ridursi ad essere lui.
Ed eccola la buona novella, il permesso di andarlo a trovare.
Si riempie le tasche di appunti, prepara una valigia colma di giornali di cronaca rosa, prova ad accordare il violino ma dopo due minuti si rende conto di non avere la minima idea di come funzioni quindi si limita ad infilarlo nella custodia e stringerlo al petto come un bambino.
<< Oggi è il gran giorno >> Lo fischietta per strada, ma è un cinguettio da uccelletto spaurito.
Nessuno è andato a trovare il consulente investigativo, perché il biondo aveva deciso così.
“se non io, allora nessuno”, e così era stato.
Da solo, in quella stanza di bianco atterrante, una persona normale avrebbe avuto paura ma John dava per certo che la mente razionale di Sherlock non potesse cedere a simili debolezze per cui non prova alcun rimorso.
La porta è socchiusa e un leggero odore di alcol solletica le narici, basta una leggera pressione sul legno per far cigolare i cardini e spalancare l’ingresso della camera.
<< So di averti fatto arrabbiare l’ultima volta >> tiene lo sguardo fisso verso il basso, finge una conversazione normale con chi sai che ti risponderà, o, nel caso di Sherlock, con chi sai ti smerderà mettendo a nudo la tua ignoranza.
<< I-io non c-credo che tu..>> Commette l’errore di innalzare le pupille, le guance scavate del moro lo atterriscono, le labbra screpolate non proferiscono suono. E’ come un incubo, solo più bianco.. è come un incubo, solo senza potersi svegliare.
Ingoia il resto della confessione in un misto di parole e lacrime, non vuole avere un’altra crisi, non vuole un’altra pausa di due settimane.
<< Ho portato il tuo ..violino. Non ho idea di come si accordi o di come si tenga un archetto e spero solo di non aver lesionato le corde mettendolo nella custodia. In tal caso la prossima sparatoria alle due di notte non sarà contro il muro ma la mia testa, o sbaglio? >> E’ talmente ridicolo quel fiume di parole, che vale la pena lasciarlo andare. Continua il suo discorso passando attraverso qualsiasi sciocchezza gli passi per la testa, arriva persino a poggiare una confezione di Chesterfield rosse da dieci sul davanzale.
Arriva l’ora di pranzo e Sherlock non oppone resistenza mentre lo cibano con soluzioni saline e vitamine sparate diritte in vena, John prova a protestare ma alla fine mastica il panino a bocconi piccoli e amari.
Lo cacciano fuori che è notte inoltrata, il medico ha speso troppe parole quando con una persona con le conoscenze di John, con un dottore come lu,i sarebbe bastato sentir dire “idrocefalo” per mettere a posto tutti i pezzi.
Ma  John non piace giocare, non vuole riordinare un bel niente, non vuole farsi convincere da una diagnosi così incalzante.
<< Il suo ragazzo si sveglierà –il biondo non ha neppure premura di contraddirlo, quell’allusione gli scivola addosso e sedimenta in fondo all’anima- si sveglierà ma non sarà più la persona che conosce. All’inizio sarà disorientato, difficoltà di adattamento, potrebbe anche non parlare. Poi si presenteranno stati di coscienza alterati, cambi di personalità (..) >>
John fa il coraggioso, come un boyscout in gara per la medaglia, trattiene fiato e pugni per non scagliarsi in lacrime contro un muro. Ingoia quelle nuove consapevolezze sapendo di averle metabolizzate per 14 giorni ormai, infila una mano nella tasca del pantaloni e sfiora con i polpastrelli umidi un pezzo di carta stropicciato con su scritta la stessa sentenza proferita dalle labbra secche del medico di turno. John sapeva, sapeva da prima, sapeva tutto.

Il tragitto verso casa è sempre uno strazio,  più passano i giorni più ritornare è faticoso. Inizia a riaffiorare un leggero dolore al ginocchio, dapprima è uno zoppicare discreto, poi man mano più accentuato fino a dover ritornare alla stampella. Rifiuta di prendere il taxi perché il posto vuoto accanto al suo lo fa impazzire, rifiuta di fare sempre la stessa strada altrimenti inizierebbe ad averne la nausea.
Sherlock resta impalpabile nella luce austera filtrata dalle tende di tessuto leggero, le ferite si rimarginano all’esterno ma sotto quel cranio ammaccato i danni iniziano a fare paura.
<< Non resta che aspettare >>
Sono sempre le infermiere a sentirsi in dovere di consolarlo ma lui non ci fa caso, quelle carezze non lo sfiorano neppure.

<< So che stavi mentendo. >> Alla fine ci riesce, ci riesce a concretizzare quel pensiero, quella scheggia profonda nell’essere.
<< So che sei migliore di questo, so che sei il migliore. >>
Alla fine non si trattiene più, affonda il naso nell’incavatura del gomito e dalle palpebre strizzate iniziano a fuoriuscire quelle lacrime cristallizzate incapaci di lavar via alcun dolore. E forse quel suono irritante, forse quel calore bagnato o quell’umido rimpianto spingono Sherlock a fare un passo nella cortina di nebbia dell’incoscienza, ad avanzare verso la luce bianca emanata da John. Le iridi risplendono sotto la luce al neon, un sorriso enigmatico tira all’insù gli zigomi scheggiati, un impercettibile movimento della pupilla esagera l’andatura del destino e da nuova forma al presente.
E’ tempo di rinascere.

 
  
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