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Autore: itsonlyme    31/12/2013    7 recensioni
Se ti ritrovi a correre a perdifiato in un tunnel, di cui non vedi neanche uno spiraglio di luce ad indicarti l'uscita, ma poi trovi una scorciatoia che ti conduce ad un posto nuovo, cosa fai?
Dal primo capitolo:
Mossi l’aria che ci circondava. Il suo profumo mi entrò nelle narici, forte e dolce contemporaneamente.
Lui, sentendo la mia presenza, si girò a guardarmi per due secondi.
In quei due secondi mi rivolse un accenno di sorriso che mi fece perdere un battito, mancare la terra da sotto i piedi, poi tornò alla lettura, senza nemmeno darmi il tempo di ricambiare.
[ziam/side pairing larry]
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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But the salt in my wounds, 
Isn't burning anymore than it used to. 
It's not that I don't feel the pain, 
It's that it just I'm not afraid of hurting anymore. 
 
 
 
 
Novembre.
 
Mi rigirai fra le coperte calde del mio letto matrimoniale, cercando instancabilmente di riprendere sonno.
Non trovavo una posizione adatta per dormire; quando mi svegliavo da un incubo era sempre la stessa storia.
Dopo due anni, ormai, il ricordo iniziava a sbiadirsi nella mia mente ma, nonostante ciò, gli incubi mi tormentavano durante la notte. Non riuscivo più a dormire completamente sereno da tempo. Mi arresi, allungai il braccio sul comodino ed afferrai il cellulare per controllare l’orario. Erano quasi le 6:00. Il sole era ancora nascosto e, probabilmente, sarebbe rimasto coperto tutto il giorno. Decisi di rimanere qualche altro minuto sotto le coperte, a gustarmi il loro calore e la loro protezione. Da piccolo, anche in estate, mi ostinavo a coprirmi fin sopra la testa, credendole una sorta di protezione, perché avevo paura che qualcuno entrasse dalla finestra e mi portasse via o mi mangiasse vivo.
Le mie sorelle ridevano di me perché lo facevo ma non mi importava e, crescendo, la mia idea era cambiata di poco. Non credevo più che qualche mostro venisse a mangiarmi, ero solo convinto che venissero a farmi del male. Dopo mezz’ora, decisi di alzarmi e prepararmi la colazione e poi uscire a correre.
Uscendo da casa, mi tirai dietro la porta in legno massiccio del mio appartamento.
Era ancora presto, non c’era nessuno in giro. Il sole, non del tutto sorto, illuminava le strade ma non riscaldava. L’aria fredda e pungente mi costrinse a stringermi nella felpa grigia. Settai il cronometro, indossai gli auricolari ed iniziai la mia corsa appena dopo aver fatto partire la musica.
Mi ero abituato a quella corsa mattutina da quando abitavo lì. E mi ero reso conto di quanto mi facesse bene. Mi schiarivo le idee, mi rilassavo e faceva bene alla mia salute.
Nato a Wolverhampton, trasferitomi a Londra, Chelsea, per scappare, per lo più.
Circa due ore di distanza da casa mia mi avevano dato la possibilità di ricominciare da zero. Mettere un punto e ripartire da capo, per ritrovare la parte di me che amavo ma che qualcun altro, al posto mio, aveva sotterrato tempo prima.
Naturalmente mi era costato la lontananza dai miei genitori e le mie sorelle, ma avrei potuto vederli quando volevo; non mi ero mai pentito della mia scelta di cambiare aria, cambiare vita.
Se ti ritrovi a correre a perdifiato in un tunnel di cui non vedi neanche uno spiraglio di luce ad indicarti che stai per arrivare all’uscita ma trovi una scorciatoia che ti conduce ad un posto nuovo, però, cosa fai?
Io avevo fatto la scelta più ovvia. Fuggire forse era stato da codardi, ma poco mi importava.
Continuare a correre al buio non mi avrebbe mai portato a niente, tranne che al continuare a crogiolarmi nel dolore che sopportavo sulla pelle da troppo, troppo tempo, ma questo lo capii solo dopo arrivato a Londra.
A Wolverhampton, negli ultimi tempi, giravano voci strane e parecchio infondate sul mio conto, la cosa peggiore è che la gente ci credeva davvero, ma non me ne curai completamente, piuttosto, ci ridevo su. Pochi conoscevano la verità, ed era meglio in quel modo. Per quanto mi riguardava, avrebbero potuto continuare a pensare fossi morto o sparito nel nulla o che mi fossi suicidato.
Anche se avevo valutato davvero l’idea di farlo, non ne sarei mai stato capace.
Nella mia debolezza, nella mia fragilità, sapevo d’essere abbastanza forte da sapere che avrei potuto trovare una via d’uscita dall’oblio in cui ero sprofondato. Come nelle sabbie mobili. Mi ritrovavo coperto fino al collo ma sentivo che avrei potuto farcela e che qualcuno avrebbe teso la mano e afferrato la mia, tirandomi fuori, e non mi sbagliavo. Quindi, un po’ grazie all’aiuto di Harry, un po’ grazie a me stesso, mi ero risollevato e avevo dato inizio ad un nuovo Liam.
Avevo smesso di mettere la virgola, continuando all’infinito, ma avevo messo un punto fermo. Avevo acceso la miccia e avevo fatto saltare tutto ciò che avevo intorno, tutti gli schemi, tutti i ritmi, rotto tutto ciò che apparteneva al vecchio Liam, rimanendo con ciò che mi era strettamente necessario: la mia famiglia, nonostante la distanza, Harry e una nuova strada da seguire, quella giusta.
Poco tempo ci misi ad ambientarmi a Chelsea. Il mio appartamento si trovava in una zona tranquilla, era forse un po’ troppo grande per me da solo ma, grazie ai miei risparmi e al mio lavoro all’Heaven, uno dei pub migliori della zona, potevo permettermi l’affitto.
 
Ma perché scappare? Ero fuggito dalla mia città natale perché il mio vivere lì si era storpiato in sopravvivere e nessuno poteva solo “sopravvivere” per sempre. Avevo deciso di fare le valigie e fuggire via a distanza di due anni dal diploma.
 
Prima, tutto andava bene. Andavo abbastanza d’accordo coi miei genitori, a scuola me la cavavo, e c’era Andy.
Lui era il mio migliore amico, un fratello per me. Ma lui stesso era stato fra quelli che avevano contribuito per causarmi del male. Quando tutti erano venuti a conoscenza della mia sessualità, all’ultimo anno di liceo, avevano cominciato a prendermi in giro. Io ero il diverso; la scuola era diventata una vera tortura. Avevo iniziato ad assentarmi sempre più spesso, il mio rendimento finì con il calare, la mia bontà anche.
Le prese in giro potevo sopportarle, le dicerie, le cattiverie, i risolini sotto il naso, i sussurri, quelli sì. Per sopportarli, avevo cercato di inculcarmi in testa il fatto che, speravo presto, lo avrebbero dimenticato tutti, poiché il pallino di “Liam Payne il gay” sarebbe stato sostituito da qualche altro "evento". Ero stato bravo, ma avevo fatto male.
Non fu proprio come speravo, mi illusi miseramente, provocandomi il triplo del dolore quando tutto iniziò.
Oltre alle prese in giro da parte di tutti, i bulli cominciarono a prendermi di mira.
Si passò dalle prese in giro a voce, alle spallate, alle scritte insultanti nell’armadietto, ai libri sparsi per il corridoio, alla violenza fisica. Non passava un giorno senza che tornassi a casa con qualche livido violaceo che cercavo a tutti i costi di nascondere. Avevo paura anche a uscire dalla classe per andare in bagno, avevo paura di camminare per i corridoi.
Spesso mi prendevano di peso e mi portavano sul retro della scuola, in quel giardinetto abbandonato e non curato da anni, dove l’erbaccia, giallastra e pungente al contatto con la pelle, era altissima e favoriva i loro attacchi a persone indifese, piccole e fragili in confronto a loro. Persone proprio come me. Io ero una delle loro vittime, innocente come un bimbo.
Quelli che erano genericamente chiamati bulli erano quattro ragazzi, alti e larghi quanto dei tir. Chiunque aveva paura di loro, chiunque ne era terrorizzato e non poteva farne a meno, anche se nessuno riusciva ad ammetterlo. Erano proprio i mostri dei miei sogni. Gli “amici” di quei quattro preferivano farsi trattare da tappetino dei piedi, piuttosto che ammettere, anche a se stessi, la verità. Loro lo sapevano, sapevano di incutere paura e giocavano sporco con quelli che sapevano non ne avrebbero mai parlato con nessuno e che mai avrebbero potuto difendersi.
Avevo accantonato da un pezzo quella parte della mia vita, i cui ricordi, nonostante la continua guerra col cassetto dei miei ricordi continuasse, non sarebbero mai scomparsi. Era una ferita che avrei sempre portato dentro, che avrebbe sempre fatto male al minimo contatto.
Non riuscii a fare a meno di ripensare a quando, per la prima volta, in corridoio, mentre raggiungevo la mia classe dopo essere stato in bagno, li avevo trovati a discutere di come giustificare il prossimo loro attacco a chissà chi, forse proprio a me. Quando mi avevano notato alla fine del corridoio, li avevo osservati per circa tre secondi. E quei tre secondi mi erano bastati per farmi amaramente pentire di aver messo piede fuori da quella porta e di aver anche solo respirato. Si erano sorrisi complici, tutti e quattro, e in pochi passi me li ero ritrovati davanti, ad oscurarmi la vista e farmi diventare un insetto ai loro occhi, facile da pestare e da far scomparire senza essere notato. O uno stupido giocattolo inutile che non ti piace affatto e che quindi ti senti libero di rompere, di distruggere, sapendo che nessuno si curerà di ripararlo. Così mi avevano trattato e da quella volta mi avevano dipinto in viso una maschera che non si sarebbe lavata via solo con dell’acqua. Mi avevano portato in quel luogo del tutto isolato. La paura mi corrodeva dall’interno, mi mangiava vivo, mi impediva anche di difendermi con le parole. Mi provocavano e stavo zitto, neanche respiravo. Il nodo che mi stringeva la gola sembrava non volere sparire, deglutivo costantemente, avevo bisogno d’acqua e ciò che, invece, avevo ricevuto era stato un pugno assestato nello stomaco. Il primo di una lunga serie. Avevo ricevuto, poi, anche calci e insulti che neanche avevo ascoltato poiché coperti dall’estremo dolore fisico che stavo provando. Quella volta mi fratturai due costole e mi lussai una spalla per il forte impatto con il terreno duro sotto di me.
Decisi di non ribellarmi a quella violenza, poiché mi avevano convinto d’essere sbagliato e meritare tutto quello. A mia madre raccontai che avevo per sbaglio messo un piede male nella scala ed ero caduto e la stessa storia riferì lei ai dottori quando mi ricoverarono. Mancai molti giorni da scuola. Fui costretto da mia madre a tornarci, che, naturalmente, non sapeva il vero motivo per cui mi rifiutavo di mettere di nuovo piede tra quelle lugubre mura. Quando tornai in quella sottospecie di carcere minorile, la sensazione di essere fuori dal mondo mi assalì, speravo che qualcosa nell’animo di quei ragazzi fosse cambiata, che si fossero almeno un po’ pentiti, ma nel mio inconscio sapevo che niente in loro era cambiato. La loro cattiveria, la loro voglia di sentirsi padroni di tutto, la loro stessa paura d’esser sottomessi a qualcuno, la loro finta apatia; nulla era cambiato.
Così come decisi di non ribellarmi, decisi di non farne parola mai con nessuno, perché l’unica persona a cui ne avrei mai voluto parlare, per sentire anche una parola di conforto, era proprio la stessa che mi aveva tradito.
Sotto gli occhi attenti e cattivi di tutta la scuola, lui mi aveva umiliato.
Inveire contro di me senza alcun ragionevole motivo; dichiarare la mia omosessualità al mio posto senza alcun mio permesso; ferire i miei sentimenti, tradendomi.
Andy, quello che consideravo il mio migliore amico, era stato lui. Era riuscito a spegnere la parte di me che più amavo, quella buona e sempre gentile con tutti.
Potevo ancora sentire il dolore del suo tradimento sulla mia pelle.
Lo sentivo addosso a marchiarmi, come una pietra a scalfire la carne tenera del petto. Come il sangue che sgorga da una ferita e ti rimane addosso, scuro e fastidioso, quando coagula.
 
Mi accorsi delle lacrime fredde che scorrevano sulle mie gote solo dopo un po’. Avevo raggiunto il parco a circa due km da casa mia, impiegandoci poco meno di un quarto d’ora.
Asciugai le gocce d’acqua salata sul mio volto col palmo destro.
Continuai a correre e, per evitare di pensare, finsi di provare un qualche interesse per le nuvolette di vapore che emanavano le mie labbra quando espiravo. Naturalmente, non ci riuscii. E ripensai ancora ad Andy.
Fingere che non mi mancasse, anche a me stesso, era un’assurdità. Non conoscevo ancora del tutto la ragione della sua sfuriata che avevo cercato a tutti i costi di rimuovere dai miei ricordi. Ricordavo, però, che il giorno prima avevo provato a baciarlo. Non mi piaceva Andy, non ne ero innamorato, ma ero convinto che lui, pur essendo etero, non mi avrebbe respinto, essendo il mio migliore amico da anni.
Come un bimbo, mi ero convinto che baciare per primo il mio migliore amico sarebbe stato più sicuro. Ero stato ingenuo a pensarlo. Anzi, neanche ci avevo pensato e avevo agito impulsivamente, sbagliando tutto. Infatti, ad un centimetro dalle sue labbra, mi aveva spintonato e mi aveva lasciato solo in camera mia, senza più farsi vivo per due giorni interi. Quando aveva rimesso piede a scuola, mi aveva ignorato e aveva dato inizio alla mia fine.
Mi ero sentito come messo al rogo da lui. Lui mi aveva legato al palo, lui mi aveva cosparso di liquido incendiario e lui aveva gettato ai miei piedi i fiammiferi, mettendo inizio al mio dolore, incendiando la parte migliore della mia anima pura.
Dopo Andy, però, avevo conosciuto Harry. Un po’ come il mio arcobaleno dopo la tempesta. Pelle chiara, castano e riccio, occhi grandi e verdi. Ci avevo messo un po’ di tempo a fidarmi di lui del tutto, ma alla fine ci ero riuscito. Lo avevo incontrato in panetteria, il giorno dopo il mio arrivo a Londra. Era stato carino con me, aveva subito capito che ero nuovo in città e mi aveva promesso di aiutarmi ad ambientarmi, facendolo veramente. Mi aveva mostrato i posti per lui più belli e raccontato un po’ di lui, mostrandomi come ricominciare a fidarmi delle persone.
 
Perso nei miei pensieri finii la mia corsa e tornai a casa leggermente sudato, anche se faceva parecchio freddo.
Entrai in casa e mi cullai del calore di quelle mura ormai tanto familiari e in cui mi sentivo al sicuro. Mi spogliai e osservai il mio riflesso allo specchio.
La pelle olivastra, capelli corti e scuri, occhi castano chiaro, quasi il colore del miele d’acacia, profondi, a nascondere qualcosa di troppo grande anche solo per me stesso.
Non mi trovavo brutto ma ero indifferente a ciò che riguardasse il mio aspetto esteriore.
Entrai in doccia e mi rilassai a contatto con l’acqua bollente e il vapore che contribuiva a rendere l’aria calda. Mi lavai per bene e uscii indossando l’accappatoio bianco.
Dopo aver asciugato i miei capelli, mi vestii per casa indossando una tuta semplice e iniziai a sistemare l’appartamento. Fare l’uomo di casa non mi era mai piaciuto, ma da quando vivevo solo ero costretto. Il mio appartamento era moderno, quasi completamente in bianco e nero. Quando mi guardavo in giro mi sentivo come in un film antico e recitavo scherzosamente le parti di qualche film che avevo visto con mio nonno.
Quando finii di sistemare, controllai l’orologio. Era quasi ora di pranzo.
Decisi di chiamare mia madre mentre mi preparavo del pollo e patatine, sentire la sua voce mi fece stare bene.
Dopo quei pensieri che mi avevano attanagliato la mente per tutta la mattinata, mi aveva sollevato. Durante il pomeriggio decisi di rilassarmi, chiamai Harry che era a Holmes Chapel da sua madre. Fu un piacere sentirlo. Era lì da una settimana e mi mancava come se non ci vedessimo da un anno.
Quando l’orologio sulla parete segnò le otto, dopo aver cenato con un sandwich, cominciai a prepararmi per il mio turno serale all’Heaven.
Era venerdì sera, il sabato molti studenti non avevano lezioni quindi si dividevano nei pub per bere, ballare e divertirsi, o solo per rilassarsi e allontanare lo stress da scuola.
Arrivato al locale, Louis era già lì, dietro il bancone, con la solita pezza sudicia fra le mani. Lo salutai e indossai il grembiule nero mettendomi anch’io al banco, pronto a servire quei ragazzi scalmanati che sembravano non vedere l’ora di ubriacarsi, facendo finta di non sapere cosa comportasse una sbornia.
A mezzanotte il locale brulicava di ragazzi e io e Lou eravamo praticamente circondati da nostri coetanei urlanti che si spintonavano per avere prima qualcosa da bere. Persi il conto dei cocktail serviti neanche a metà serata, da Mojito a Bloody Mary, da Margarita a Pina Colada e Daiquiri. Io avevo bevuto solo due bicchieri d’acqua e la gola, infatti, mi bruciava per la secchezza.
La confusione si calmò solo verso l’una, quando il locale era pieno di ragazzi ma tutti abbastanza soddisfatti. Dopo aver bevuto, feci un giro del locale con lo sguardo. La pista era piena, le luci psichedeliche illuminavano il locale quel poco che bastava per vedere dove mettere i piedi e riuscivano a confonderti se mischiate all’alcol nello stomaco che saliva facilmente in testa.
Molti si strusciavano, qualcuno aveva bisogno di una camera, ragazze fintamente timide nei divanetti con un cocktail in mano che aspettavano il prossimo invito a ballare in mezzo ai tanti altri corpi caldi e sudati, i cui cervelli erano pieni di musica e alcol e tanta, tantissima, confusione.
Una ragazza bionda si avvicinò al bancone e, dopo avermi chiesto un Angelo Azzurro, si accomodò in uno degli sgabelli. Quando glielo servii mi guardò con occhi provocanti. Feci finta di stare al gioco quando iniziò a giocare con la cannuccia nera che le avevo appena messo nel bicchiere, stringendo le labbra o passandoci sopra la lingua.
Iniziò a flirtare spudoratamente con me dopo pochi secondi. Era bella ma, naturalmente, non mi attraeva. La cascata di capelli biondi che le scendeva sulle spalle le rendeva il viso, da ragazza, come quello di una bambina. Le sorrisi.
Dopo averci provato con me e vedendo che non riusciva ad andare al punto, o meglio, al suo obiettivo, passò alla schiettezza, senza più girarci in torno.
«Come ti chiami?»
«Liam, tu?»
«Maya».
Sorrisi, smettendo definitivamente di giocare poiché, dopo mezz’ora, non ne avevo più voglia. Illuderla non mi avrebbe portato da nessuna parte, almeno non le avrei fatto perdere ancora tempo.
Storsi le labbra in una smorfia e, per la prima volta, dissi quelle parole ad alta voce.
«Senti, Maya, sei molto bella ma io non sono etero».
Lei prima sbarrò gli occhi per la sorpresa, poi si alzò stizzita.
«Sei molto bravo a fingere, Liam, ma potevi evitare di farmi perdere tempo» urlò, per farsi sentire.
Io sorrisi innocentemente. «Scusa» le risposi.
Lei alzò le spalle. «Va be’, fa niente. Sei davvero carino e simpatico, fortunato colui che ti avrà. Ci si vede in giro».
Se ne uscì con quella frase che mi spiazzò.
Lo pensava davvero?
 
Quando io e Louis finimmo il nostro turno, erano ormai quasi le quattro. Ogni fine settimana, di routine, succedeva questo. Uscivamo stremati dal locale e riuscivamo a stento ad arrivare a casa tutti interi.
Uscimmo, come di consueto, dalla porta del retro che dava su una stradina buia e maleodorante.
Arrivammo alle nostre auto. «Ciao Lee, buonanotte» mi salutò, con il solito abbraccio.
«Buonanotte amico, ci si vede domani» ricambiai la stretta e gli sorrisi.
Salii in macchina e sfrecciai verso casa, avevo voglia di dormire.
Arrivato a casa, mi trascinai dentro con tutta la forza di volontà che possedevo in corpo.
Entrai e gettai per terra la mia tracolla, mi spogliai e, esausto, mi gettai fra le morbide coperte del mio letto a due piazze. Prima di addormentarmi ripensai alle parole di quella ragazza, Maya, e scoprii di esserne rimasto così colpito perché nessuno me lo aveva mai detto e, nessuno, probabilmente, lo aveva mai pensato.
 
 
 
It's just a spark, 
But it's enough, to keep be going. 
And when it's dark out, no-ones around, 
It keeps glowing 

 
 
 
 
Quando mi svegliai, la sveglia segnava le 9:30. Non mi premurai di alzarmi, i residui di stanchezza li sentivo ancora nelle ossa, anche perché mi ero svegliato durante la notte, come sempre. Avevo dormito poco più di quattro ore.
Rimasi coperto fino in testa per una buona mezz’ora, poi decisi di andare a correre comunque.
Mi preparai, indossai la tuta ed uscii di casa aspettandomi il sole alto a riscaldarmi. Ovviamente, mi sbagliavo. Il sole era coperto da quelli che sembravano enormi batuffoli di zucchero filato.
La mia corsa fino al parco fu rilassante e, invece di tornare immediatamente indietro, decisi di entrare, non avevo nulla di più interessante da fare.
Non c’era molta gente. La maggior parte, col freddo, preferiva stare al caldo di casa.
Una ragazza col cane, un ragazzo che correva, una coppia di anziani che camminava mano per mano e un ragazzo seduto su una delle panche assorto nella lettura di un libro. Rimasi ad osservarlo nella sua spontanea bellezza.
Studiai il suo profilo e ne rimasi incantato. Era bellissimo.
Capelli corvini, coperti dal cappuccio di una felpa grigia da cui fuoriusciva un lungo ciuffo sistemato all’indietro. Un filo di barba a coprire la mascella. Occhi attenti sul libro, semi chiusi, di cui non riuscivo a distinguere bene il colore, e lunghe ciglia a contornarli. Era minuto, teneva le gambe vicine al petto e, sopra queste, il libro.
Fremetti alla vista di tanta bellezza. Mi attraeva ma non riuscivo a muovere i piedi da terra per avvicinarmi a lui. La mia solita timidezza.
Forza Payne, puoi farcela.
Feci qualche passo, facendo scricchiolare i residui di foglie secche sull’erba.
Camminai con finta indifferenza, altri pochi passi e mi sedetti al suo fianco, su quella secolare panchina in legno scuro. Mossi l’aria che ci circondava. Il suo profumo mi entrò nelle narici, forte e dolce contemporaneamente.
Lui, sentendo la mia presenza, si girò a guardarmi per due secondi.
In quei due secondi mi rivolse un accenno di sorriso che mi fece perdere un battito, mancare la terra da sotto i piedi, poi tornò alla lettura, senza nemmeno darmi il tempo di ricambiare.
Mi imposi di non osservarlo, chiedendo a me stesso la ragione di tanta voglia di studiare i tratti di quel ragazzo di cui non conoscevo neppure il nome e sbiascicare qualche parola per costringerlo a parlarmi.
Dovevo trovare il coraggio e soprattutto una scusa per attaccare bottone.
Probabilmente, dall’esterno, apparivo come una tredicenne che vede un bel ragazzo e gli sbava dietro senza rendersene conto.
Aveva un’aria misteriosa, e, forse, era proprio quella ad attrarmi. La sua tranquillità, la sua completa quiete, il suo respiro regolare, la sua bellezza. Forse era quello a spingermi a volerlo conoscere.
Nell’attesa che qualcosa mi illuminasse, tirai fuori il mio cellulare dalla tasca della mia giacca. Decisi di mandare un sms a Harry.
-Amico, mi manchi. Ho bisogno delle tue illuminazioni.-
La risposta non arrivò, come immaginavo. Il mio amico di sicuro era ancora dormiente, reduce da una serata fuori coi vecchi amici.
Osservai la copertina del libro che teneva in mano. Riconobbi “Assassinio sull'Orient Express”, Agatha Christie. Avevo letto quel libro tempo prima e mi era piaciuto moltissimo.
Poi, senza fare due più due, parlai. Senza pensare, senza usare il filtro cervello-bocca.
«Che scrittrice, la Christie!» non potevo iniziare con frase peggiore.
Voltò la testa verso di me e mi osservò, serio, battendo le lunghe ciglia.
Liam, sei un vero disastro.
«Lo penso anch’io. Hai letto questo?» domandò, chiudendo il libro, per mostrarmi la copertina, infilandoci dentro due dita per non perdere il segno.
«Sì, l’anno scorso» risposi, imbarazzato.
«Ti è piaciuto?»
«Sì, e a te?»
«Sono solo a metà, troppo presto per pronunciarmi» alzò l’angolo delle labbra in un timido sorriso.
Annuii, dandogli ragione.
Bene, avevo già finito gli argomenti di conversazione.
Ma bravo, Payne, davvero.
Mi sorprese, parlando lui.
«Vieni spesso qui? Non ti ho mai visto.»
«In realtà, no. Tutte le mattine corro e, arrivato davanti il cancello, giro e me ne torno a casa. Sono poche le volte in cui entro. Tu?»
«Vengo praticamente ogni mattina a leggere. Mi rilassa. È un posto così tranquillo».
Annuii, chiedendomi perché mai non ci fossi entrato ogni giorno.
«Sei di Londra?» domandai.
«No, vengo da Bradford, nello Yorkshire. Tu?»
«Wolverhampton» risposi, laconico. Quella parte della mia vita faceva ormai parte del passato. Perché spolverare ricordi che non si vogliono far riemergere?
«Vivi da solo?» chiese, curioso.
«Sì, vivo qui da due anni. Perché me lo chiedi?»
Rispose semplicemente sollevando le spalle e mi cullai nel pensiero che davvero gli importasse perché voleva conoscere qualcosa di me.
«E cosa sei venuto a fare qui, tutto solo?» la sua domanda mi spiazzò, non me la aspettavo.
Cosa avrei dovuto rispondergli?
La verità, Liam.
E lo feci davvero. «Scappavo» sentenziai. Lui stiracchiò le labbra rosee in un sorriso.
«Sei un ricercato? Se è così dimmelo, almeno ti guardo le spalle» disse, suscitandomi una sincera risata.
«Magari. No, non scappavo dalla polizia, ragazzo sconosciuto» risposi, allargando le labbra in un sorriso sincero.
«E da cosa scappavi?» chiese interessato, chiudendo il libro e posandolo di fianco a lui, dall’altro lato della panchina.
«Beh, un giorno te lo dirò» celai una piccola promessa dietro quelle parole, una piccola speranza. Come una luce flebile nell’oscurità.
«E come sai che ci rivedremo e potrai dirmelo, ragazzo sconosciuto?» mi sfidò, usando le mie stesse parole.
«Non lo so e basta».
Sorridemmo e ci guardammo in silenzio per qualche minuto, senza alcun imbarazzo. Studiammo i nostri, anche impercettibili movimenti, i nostri respiri, i battiti dei nostri cuori, le nostre anime che si sfioravano appena.
«Purtroppo devo andare, il lavoro mi aspetta».
«Io vado a casa a togliermi questi vestiti di dosso» sorrisi. Ci alzammo dalla panchina che scricchiolò appena. Raccolse il suo libro e lo gettò dentro lo zainetto nero che teneva in spalla e che non avevo notato prima.
«Bene, allora, ci vediamo…» ricordò di non conoscere ancora il mio nome.
«Liam» completai la frase al posto suo. Lui annuì. «Io sono Zayn».
Zayn. Mi piaceva anche il suono del suo nome.
Allungò la mano verso di me, la strinsi. Il calore della sua mano con la mia, mi fece capovolgere lo stomaco. Era morbida, liscia, come la pelle di un bambino. Guardai la mia mano stretta nella sua e notai una rondine d’inchiostro indelebile nella sua. Fra il pollice e l’indice. Mi piacque da morire. Poi alzai lo sguardo nei suoi occhi e ci guardai dentro. Notai le piccole striature d’oro nel mare di cioccolato. Sorridemmo ancora, lasciandoci le mani.
Possibile innamorarsi in pochi istanti?
Attimi di sensazioni diverse, tutte confuse in testa, scanditi dal tempo.
«Allora , ciao Liam».
«Spero di rivederti presto» dissi, forse un po’ troppo piano perché mi sentisse, quando si era già allontanato da me.
Nella mia testa frullavano mille domande e perplessità, mille come e mille perché. Non avrei potuto mai rispondere a nessuna di queste, non ne sarei stato capace, tranne ad una.
Lo ha capito, Liam?
Sì, lo ha capito, ha capito tutto.
Nella strada verso casa, ripensai solo ai suoi occhi ammalianti e alla sua mano calda stretta nella mia.
Ma che ti succede, Lee?
Arrivato a casa, lavai via il sudore ma la strana sensazione rimase attanagliata nel mio stomaco. Un tornado stava trasportando via tutto, incurante. Sapevo quando e dove fosse iniziato ma non se, e dove, sarebbe finito. E sapevo anche che quel violento vortice dentro il mio stomaco portava il suo nome.
Zayn.
 
Cercai di continuare la giornata come l’avevo iniziata: normalmente. Mi riuscì parecchio difficile, poiché avevo un solo pensiero a ronzarmi in testa, mille domande ma tutte riguardanti lo stesso argomento. Riuscii a distrarmi solo durante il mio turno all’Heaven. Il locale, nonostante l’ampiezza, era stracolmo di gente. La puzza di sudore e di alcol era diventata fastidiosa, impregnava i muri. Troppi respiri chiusi nello stesso posto creavano una condensa umida e il bancone era stato preso d’assalto. Il sabato era, naturalmente, il giorno peggiore. La musica rimbombava nelle teste di tutti, la pista gremita di gente che si muoveva a tempo fra urla, risate e bicchieri rotti. Io e Louis neanche avevamo potuto scambiarci due parole, solo sguardi stanchi di chi ha voglia di buttarsi a terra e dormire perché non ce la fa più. Il proprietario, come al solito, sarebbe stato soddisfatto dei ricavi di quella serata senza preoccuparsi della nostra salute fisica e mentale.
Uscimmo dal locale, come sempre, poco prima delle cinque. L’aria pungente della notte ci costrinse a stringerci nei nostri giubbotti pesanti. Il sonno si faceva sentire.
«Che incubo stasera» commentò Louis, appoggiandosi alla sua macchina.
«Già. Tutti i sabati è così, dovremmo cominciare a farci l’abitudine. Tanto quello spilorcio di Cooper non prenderà mai qualcun altro» sentenziai, sbuffando.
«Lo so, ma noi non arriveremo alla fine dell’anno così» disse lui, sorridendo.
Il suo sorriso brillò nella notte.
Louis era bello. Ma bello per davvero.
Magro, non altissimo, vispi e piccoli occhi azzurri, labbra sottili e rosee, capelli sempre perennemente disordinati, pelle chiara, macchiata da tatuaggi per lo più sulle braccia.
«Lou, ho incontrato un ragazzo stamattina» sorrisi, al solo pensiero di lui.
«Davvero? Come si chiama?»
Sorrisi alla sua curiosità che, ormai, ben conoscevo. «Zayn».
«Racconta, ti si sono illuminati gli occhi, LeeLee» scherzò. Lo spintonai scherzosamente e gli raccontai del nostro incontro.
«E il suo numero?» domandò curioso.
«Non ce l’ho, è scappato via prima che potessi dire altro» dissi, imbarazzato.
Pensavo m’avrebbe preso in giro, ridendo di me e della mia inesperienza coi ragazzi. Mi dimostrò che mi sbagliavo. «Fa niente amico, se è destino vi rincontrerete».
«Il destino, sì..» mi interruppi, pensieroso. «Ho come paura che non lo rincontrerò più».
Parlai a lui come non avevo mai fatto e lui fece lo stesso, sorprendendomi. «Liam, senti, sono tuo amico, quindi non me la sento di dirti cazzate del tipo “vi rincontrerete sicuramente”, perché questo non lo so, ma se succederà e non gli chiederai il numero, sappi che ti ucciderò».
Risi alla sua sincerità e schiettezza. Louis era sempre stato bravo a mettermi di buon umore.
«Grazie, Lou.» dissi. Lui mi posò una mano sulla spalla. «LeeLee, così mi emoziono, basta» scherzò, ancora, tirando su il naso e asciugandosi lacrime immaginarie dal viso.
Si beccò una gomitata nelle costole che mi restituì immediatamente.
«Dovremmo andare a casa, muoio dal sonno» dissi io, sbadigliando sonoramente.
«Già, credo dormirò in macchina. Spero di non trovare nessun semaforo rosso».
Io risi. «Stai attento, torna a casa sano e salvo».
«Certo, mammina».
Gli diedi una spallata e lo salutai col nostro abbraccio di sempre.
Salii in macchina e partii verso casa, ripensando a quella frase che avevo detto, quella che il nuovo Liam si sarebbe sognato di pronunciare. 








La canzone è ''last hope'' dei Paramore.


 
 
Ciao fanciulli/e.
Ho preferito aggiornare ora, non so perché.
Allora, in questo capitolo, capiamo ciò che è successo a Liam. E' stato vittima di bullismo al suo ultimo anno di liceo e anche dopo la fine della scuola. Quei quattro ci andavano giù pesante con lui, fragile com'era. Inizialmente, neanche voleva dirlo a nessuno, perché lui stesso si era convinto di meritare tutto quel male. Circa due anni dopo, scappa dalla sua città, perché non ne può più.
Ma i demoni del suo (recente) passato non lo mollano, lui ci pensa insistentemente, nonostante non vorrebbe e lotta con la sua mente che lo obbliga, lo costringe a rimuginarci sopra e in qualche modo a farsi del male.
Lo fa ogni mattina, quando va a correre, solo che questa volta, incontra Zay, che gli sconvolge il mondo.
Pensa a lui, ma il suo passato lo tormenta, e ora non sa nemmeno se lo rivedrà più.(?)
Nel prossimo capitolo scopriremo come hanno vissuto i 'cari' di Liam, a cui lui comincia a pensare solo quando li rivede.
E poooi.. vedrete.
Ora vi lascio, augurandovi un sereno anno nuovo, sperando che porti buone cose a tutti.
Spero di aggiornare con regolarità, ma non ne sono sicura perché devo ancora studiare.
E spero anche in un vostro piccolo parere, ve ne sarei estremamente grata.
Un abbraccio.
-Chiara.









 
  
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