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Autore: Rosmary    31/12/2013    7 recensioni
{Prima classificata a "Il contest dei desideri!" di @orny@}
"Quando Rose fermò la sua corsa, s’accorse d’essere in affanno, troppo in affanno, d’avere dolenzie in tutto il corpo e d’essere sin troppo debole, così debole che sarebbe volentieri svenuta lì, sull’uscio del portone della scuola, macchiandosi di neve e fanghiglia. La debolezza era tale che neanche sobbalzò quando due braccia forti le circondarono la vita, sorreggendola e invitandola a trarre forza da loro.
“Non dovevi seguirmi,” biascicò lei.
“Non essere stupida,” rimproverò lui.
"
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Nuovo personaggio, Rose Weasley | Coppie: James Sirius/Rose
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
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I personaggi presenti in questa storia, fatta eccezione per quelli di mia invenzione, sono proprietà di J.K. Rowling;
la oneshot è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Il rating è arancione a causa del tema della storia, che rientra nelle 'tematiche delicate'.






 
I fantasmi l'inseguivano, lei imparava a correre
 
 

I palmi sudati delle mani aderivano come ventose alla parete dinanzi a lei, il busto era chino sullo sporco gabinetto, le gambe, meno rigide del necessario, si divaricavano e richiudevano a intervalli irregolari, il capo, chino anch’esso, si sporgeva verso la circonferenza bianchiccia e fetida. La fronte era madida di sudore, come ogni altro lembo di pelle. Dalle labbra pallide continuava a fuoriuscire tutto ciò che avrebbe dovuto stare all’interno, al sicuro nello stomaco. Alle volte, aveva la sensazione di ricacciare anche sostanze che aveva solo immaginato di ingerire. La vista venne ben presto appannata dallo sforzo e dalle lacrime, ch’erano figlie del primo e, forse, anche della frustrazione. Quando smise di riversare in quel gabinetto la propria colazione, lasciò che le unghia rosicchiate graffiassero, senza sortire risultati, la parete gelida e lurida. Restò china per una manciata di minuti ancora, buttando fuori anche le lacrime, che, al pari della colazione, non ne vollero sapere di restare dentro di lei. Deglutendo a fatica, a causa dell’acuto bruciore alla gola, tornò eretta, sfregando le mani tra loro, nel penoso tentativo di scacciare via il marciume. Uscì dallo striminzito cubicolo con gli occhi ancora arrossati e acquosi e l’aria stravolta. Si diresse al lavandino e, senza specchiarsi, lavò via il fetore del vomito, sciacquando mani, braccia, viso, maledicendo l’impossibilità di spogliarsi e gettarsi nel vano doccia. Lavò dalla bocca l’alito cattivo e il disgustoso sapore lasciatole dal rigetto. Le lacrime, bollenti al contatto con la pelle, ripresero a rigarle il giovane volto. Con fasulla calma, slegò i capelli e l’intrecciò nuovamente. Solo allora sollevò quegli occhi azzurri e incrociò il proprio riflesso, ritrovandosi ad ammirare la compostezza della treccia e a inorridire alla vista del pallore della pelle e della scurezza delle occhiaie. Non riuscì a osservarsi oltre, preferì poggiare la mano tremante sulla maniglia della porta, calarla e uscire dal bagno.
 
“Hai finito, finalmente.”
 
“Prego?”
 
La ragazza osservò perplessa il giovane mago che le era di fronte, non lo riconobbe e con una punta di sollievo lo aggirò in silenzio. Il ragazzo, dal canto suo, finse indifferenza e, senza indugiare, s’infilò nel bagno lasciato libero dall’altra e l’inconfondibile tanfo di vomito, nell’immediato, gli infastidì l’olfatto. Non volle chiederselo in quel momento, se fosse stata lei a lasciare quell’impronta.
 
“Rosie, iniziavamo a preoccuparci,” affermò accalorato Albus, quando la cugina tornò a sedersi al tavolo.
 
“Ne ho approfittato per sistemare le mille maglie che indosso,” ribatté lei, incurvando le labbra in un sorriso tirato.
 
“Ecco la spiegazione! Ora possiamo ordinare, che dite?” domandò retorica Allison Macmillan1, attirando senza troppe remore l’attenzione di Leopold2, il nuovo, ma pur sempre attempato, gestore della Testa di Porco.
 
“Sicura che vada tutto bene, Rosie?”
 
“Sì, John, tutto bene,” confermò lei, calando lo sguardo e fingendo d’analizzare il fondo del bicchiere vacante.
 
Da quando l’incubo l’aveva risucchiata, conviveva col terrore che qualcuno, tra amici e conoscenti, potesse scoprire quella vergognosa verità, rintracciando tutti quegli indizi che lei, giorno dopo giorno, faticava sempre più a nascondere. Quante volte s’era ritrovata a fingere influenze, ansie, cattive digestioni e quante volte, invece, aveva negato tutto, increspando le labbra in sorrisi ingannevoli e mascherando con qualche cosmetico i marchi che quel male le lasciava sulla pelle.
Anche in quell’istante, di soppiatto, studiava le espressioni dei tre ragazzi con cui condivideva le giornate: Albus, l’unico cugino con cui avesse un reale rapporto, merito dell’essere coetanei, probabilmente; Allison, l’amica spigliata e gioviale, capace di portare un po’ d’allegria ovunque, la sua migliore amica; John Canon3, l’appassionato di fotografie magiche e Babbane, il primo ragazzo per cui avesse provato un sentimento diverso dall’amicizia, aveva solo dodici anni all’epoca e John era troppo impegnato a ridere e a giocare per accorgersi di lei. Era stato la sua prima delusione d’amore, che era poi evoluta, per volontà della buona sorte, in una solida amicizia.
Li osservava Rose, e lo faceva in silenzio, con crescente timore. Li osservava ordinare le quattro Burrobirre al cordiale Leopold, spettegolare su quanto fossero ridicoli i capelli tinti di biondo del nuovo professore di Divinazione e li osservava, disciplinando il tremore, chiederle tacitamente di partecipare alla conversazione. E lei, come sempre più spesso accadeva, si limitò ad annuire, proferire un monosillabo a caso e tornare al proprio mondo, pregando che si accontentassero di quel tipo di partecipazione.
 
“Tesoro, devi mangiare, stai dimagrendo a vista d’occhio,” osservò premurosa Allison. “Non sarai innamorata?!”
 
L’allusione fece irrigidire i lineamenti di Albus, offeso alla sola idea che la cugina non si fosse confidata, e quasi soffocare John con una nocciolina. Allison ridacchiò divertita, dando a Canon comprensivi colpetti sulla schiena.
 
“Sei fuori strada, Allison,” affermò debolmente Rose. “Sono solo stressata per lo studio. Abbiamo i G.U.F.O. quest’anno,” si difese.
 
“Papà mi ha detto che, purché faccia del mio meglio, va bene tutto, ma mamma mi ha fatto capire a chiare lettere che se ne aspetta almeno quattro. Invidio tantissimo Lily e James, loro sono tranquilli.”
 
Il commento di Albus, com’era prevedibile, scatenò un’accesa discussione su quanto fosse utile e importante ottenere questo o quel diploma. John, che aveva nonni e zii Babbani, professò l’importanza di una materia come Babbanologia, mentre Allison si produsse nella consueta filippica contro Pozioni e a favore di Rune Antiche, una materia, a detta della Tassorosso, eccessivamente trascurata. Rose, d’altro canto, annuiva e interveniva l’indispensabile, con affermazioni diplomatiche e pacate.
Fu quando le comparve dinanzi il boccale di Burrobirra che l’equilibrio tornò a frantumarsi. Puzzava quella roba, puzzava terribilmente. L’avvicinò a sé, ostentando una tranquillità che non le apparteneva affatto, ma non riuscì neanche a bagnare le labbra di Burrobirra che un conato la sorprese. Strizzò più volte gli occhi, assalita dal panico. Non poteva tornare in bagno, sarebbe stato sospetto.
 
“Rose, che hai?”
 
Ancora la voce preoccupata di Albus. Col respiro che accelerava, schiuse gli occhi e guardò spazientita il cugino. In momenti come quello, il mondo intero riusciva a renderla nervosa, figurarsi l’apprensione di chi non doveva accorgersi di nulla.
 
“Mal di testa,” mentì. “Vado fuori.”
 
“Ti accompagno,” affermò immediatamente Allison, alzandosi assieme a Rose.
 
“No, Allison, davvero. Ho bisogno di silenzio.”
 
Non aggiunse altro, ma guadagnò l’uscita con l’insopportabile consapevolezza d’aver lasciato al tavolo tre amici sospettosi che, durante la sua assenza, avrebbero certamente discusso dello strano atteggiamento, ipotizzando cause. Si ritrovò a pregare, ancora una volta, che gli esami fossero una motivazione abbastanza convincente. Dopotutto, non è forse lo studio una delle maggiori cause di cefalea? L’argomentazione non la convinse, ma non aveva tempo e lucidità per riflettere su giustificazioni e bugie. Aveva disperatamente bisogno di un bagno… Il respiro sempre più accelerato e le vertigini quasi la costringevano a barcollare. Infreddolita dal clima invernale, s’allontanò quanto più le fu possibile dalla Testa di Porco, trovando sostegno in una staccionata malridotta. Strinse le mani attorno a quella, costringendo le nocche a sbiancare e, quando non ne poté più, riversò ciò che non aveva in corpo fuori, sul terreno coperto dalla neve, che smise d’essere bianca.
Tossì più di una volta. Era una tosse roca, causata dallo sforzo, che l’obbligò a sputacchiare saliva. Il sapore che le insozzava il palato era orribile: quando lo stomaco era vacante, toccava ai succhi gastrici venir fuori e loro, crudeli, imponevano sapori e bruciori insopportabili, di gran lunga peggiori rispetto allo strascico lasciato dal cibo e dalle bevande.
 
“Tutto bene?”
 
Fu una domanda diretta, priva d’enfasi, ma che riuscì a pietrificare la giovane strega. Sgranò gli occhi Rose, terrorizzata per davvero, e artigliò con ancora più forza la staccionata. Non si voltò verso l’interlocutore, provava vergogna per le proprie condizioni. Mille domande vorticavano nella mente della ragazza, ch’era incapace di risalire al proprietario delle voce. Una voce sicuramente maschile, certamente conosciuta. Non John, non Albus: loro avrebbero già preteso che si voltasse. Uno dei suoi tanti cugini, allora… James, magari, con i suoi modi schivi e arroganti, oppure Fred, con la sua incapacità di vivere in modo normale. Scartò anche quelle ipotesi. Forse… forse… Forse, un compagno di corso, un Grifondoro... Se solo avesse avuto il tanto decantato coraggio della propria Casa e si fosse voltata…
 
“Stai bene? Vuoi che chiami qualcuno?”
 
Non se ne accorse lei ch’erano trascorsi solo pochissimi secondi. Nonostante i sensi in allarme, continuava a non capire a chi appartenesse quella voce, ch’era familiare e dannatamente estranea al tempo stesso. Decise di mentire in ogni caso, come sempre.
 
“Non preoccuparti, sto bene.”
 
Quella menzogna ostentata con poca convinzione offese l’intelligenza dell’interlocutore, che si strinse nel cappotto e ricacciò le mani in tasca. Più guardava la strega e più tornava a sentirlo, il tanfo che, poco prima, aveva insozzato l’aria del bagno e sentiva il quasi irrefrenabile impulso d’urlarle ch’era proprio una stupida a dire di stare bene, perché non stava bene affatto, e di tirarla via da quella staccionata, obbligarla a confidarsi, a… Ma non poteva far nulla in quel momento, se non continuare a fingersi un estraneo troppo invadente o troppo altruista e a guardare le spalle di lei sollevarsi e calarsi come se fosse in affanno o tremasse.
 
“Non sembra,” disse dopo un po’. “Ti ho vista vomitare.”
 
L’affermò con un filo di voce, sentendosi, per una ignota ragione, terribilmente indiscreto, ma era bene che lei capisse l’inutilità della messinscena. D’altronde, era stato il fato a volere che lui abbandonasse la Testa di Porco al momento, forse, meno opportuno.
 
“Metti un paio d’occhiali, allora, perché vedi male,” affermò lei a denti stretti, ferita e imbarazzata dall’impudenza dello sconosciuto.
 
Il ragazzo, malgrado la situazione, incurvò le labbra in un sorriso ammirato: era cocciuta e orgogliosa come conveniva alla loro famiglia. Fu quando entrambi sentirono chiamare Rose, che s’irrigidirono. Lei, frettolosa, s’abbassò verso la neve, raccogliendola tra le mani e aspettando che si sciogliesse, così da bagnarsi il volto. Lui, d’altro canto, si limitò ad andare via, rivolgendo un semplice cenno del capo al gruppetto che s’avvicinava alla ragazza.
 
“Rosie, ma che ti è preso? Perché sei seduta a terra?”
 
“Ti sei sentita male? Sei svenuta?”
 
“Ragazzi, non l’asfissiate,” impose spiccio Albus, aiutando la cugina a rialzarsi, nonostante lei rifiutasse il soccorso.
 
“Sono soltanto scivolata… sapete, il mal di testa… e quel ragazzo… voleva aiutarmi, ma ho fatto da sola.”
 
Quelle parole e concetti a esse affini vennero ripetute dalla ragazza durante l’intero finesettimana. Albus, Allison e John, infatti, avevano smesso di fingere che tutto andasse bene. Nei mesi precedenti, per rispettare i tempi e gli spazi dell’amica, s’erano finti ciechi, sordi e muti. Era stata proprio Allison a convincere i due maschietti a temporeggiare. ‘Rispettiamo i suoi tempi’ aveva affermato severa, ma il sole era tramontato troppe volte da quel patto e il tempo d’aspettare era terminato. La conseguenza fu che la primogenita di Hermione e Ron Weasley studiò i metodi più astuti e originali per evitare i tre studenti.
Non aveva la voglia, e la forza soprattutto, di spiegare. D’altronde, si chiedeva, a cosa serviva spiegare? E, cosa più importante, cosa avrebbe dovuto spiegare? Neanche lei riusciva a mettere ordine in quel caos ch’erano divenuti i suoi pensieri e le sue sensazioni. Sapeva solo d’essere perennemente in ansia, in debito di tempo.
Aveva sempre una fretta smodata, come se la vita fosse pronta a scivolarle dalle mani da un momento all’altro. Perennemente assalita dalla paura di fallire, di non essere abbastanza. Abbastanza per chi o per cosa non le era chiaro. Essere abbastanza per le aspettative che altri avevano su di lei, forse. Oppure, essere abbastanza per le aspettative che lei stessa s’era fabbricata nei confronti della propria persona. Non riusciva proprio a capirlo… Tutto confuso era, maledettamente confuso. Una confusione che generava stati d’animo incerti e instabili, che tramutavano a loro volta in frustrazione. L’insieme di questo qualcosa, che conviveva da inizio anno con lei, aveva dato origine a quella che i medici Babbani avrebbero definito depressione, magari al suo stadio iniziale.
Da lì all’avere conseguenze fisiche il passo era stato breve: il suo corpo, martoriato dagli stati emotivi, esigeva una valvola di sfogo. Così erano iniziati i digiuni, la nausea, la stanchezza e, da tre settimane a quella parte, il vero e proprio rigetto. Come un cane che si morde la coda, il dimagrimento involontario, le occhiaie, il pallore e la debolezza nutrivano, giorno dopo giorno, il male dell’adolescente.
Quel pomeriggio, non diversamente dai precedenti, aveva accuratamente evitato tutti, obiettando d’avere delle importanti lettere da scrivere ai nonni materni. In realtà, quel giorno in particolare, aveva finalmente deciso di risolvere quello che ai suoi occhi era un grosso problema: trovare quello sconosciuto e intimargli il silenzio.
Iniziò dalla biblioteca, ch’era sempre molto affollata a quell’ora del pomeriggio; da quando, infatti, una decina d’anni prima, la bibliotecaria Pince era andata in pensione ed era stata sostituita da Madama Sally Flighty4, quel luogo non era più simbolo di rigidità e religioso silenzio, bensì di chiacchiericcio moderato e una certa elasticità sul prestito dei libri. La Flighty, era noto, era una cinquantenne a cui i pettegolezzi piacevano oltre ogni misura, per cui, in cambio di una succulenta chiacchierata era più che disponibile a chiudere non uno, ma ben due occhi. Anche allora, mentre studenti di tutte le età girovagavano tra gli scaffali e organizzavano gruppi studio, la sua sola preoccupazione era stare ben dritta sulla sedia e far vagare quei piccoli occhi neri, nascosti da occhiali rettangolari sempre troppo grandi, su uno studente prima e su un altro poi. Harry, che l’aveva vista una sola volta in una foto scattata di soppiatto da Hugo e Lily, diceva che con quell’aria indiscreta e quel collo allungato dallo sforzo di curiosare, somigliava tanto a sua zia Petunia; se non fosse stato per i corti capelli biondi, che le arrivavano alla nuca, il Prescelto avrebbe affermato – non senza rabbrividire – che sua zia aveva una gemella.
Fu una vera fortuna per Rose che la suddetta Flighty fosse troppo impegnata a seguire i movimenti del fascinoso William Smith5 per notare il suo strano atteggiamento, e fu ancora merito della fortuna se nessuno s’accorse di un giovane dall’aria intrigante che afferrò quasi con prepotenza il braccio di Rose, costringendola a fare marcia indietro e a uscire dalla biblioteca.
 
“James, mi spieghi cosa ti prende?”
 
“Dobbiamo parlare io e te.”
 
Il tono di James, al pari del suo sguardo, non ammetteva repliche e Rose ne fu sinceramente sconcertata, poiché non aveva mai avuto un particolare rapporto con lui, nonostante fossero cugini, nonostante fosse il fratello di Albus. Lo seguì in silenzio sino a una delle finestre del solitario corridoio, lo scrutò dubbiosa e intimorita, perché James aveva un’espressione preoccupata tatuata in volto, preoccupata e anche un bel po’ arrabbiata.
 
“Cosa c’è?” chiese lei ansiosa.
 
“Com’è andato il fine settimana, Rosie? Ti sei divertita?” controbatté lui con amaro sarcasmo.
 
“Non capisco, James. Se hai qualcosa da dirmi, parla e basta.”
 
E James Potter parlò e più parlava, più Rose percepiva il pavimento spaccarsi sotto i propri piedi, spaccarsi e poi franare, costringendola a barcollare, a cercare inesistenti appigli e a sperare infine di sprofondare del tutto. Ma quell’orrido pavimento non le consentiva neanche quella forma di ristoro, poiché nel suo franare aveva lasciato scaglie di sé tutt’attorno, scaglie in cui Rose s’era impigliata; ed eccola lì, con un piede penzoloni nel nulla e l’altro incastrato tra gli appuntiti pezzettini di pietra, a dimenarsi come una belva ferita, perché l’equilibrio di cui ancora disponeva, se non era sufficiente per rimetterla in piedi, era abbastanza per non farla precipitare del tutto. Era un incubo e Rose sapeva perfettamente che nessuno l’avrebbe svegliata, poteva solo viverlo prima e sopravvivergli poi.
 
“Mi stai ascoltando?” domandò nervoso James, accorgendosi dello sguardo vacuo della cugina.
 
“Io… avevo mangiato i cereali il giorno prima e quelli mi fanno sempre male…”
 
“Mi credi così stupido, Rosie? Ti ho vista! Ti ho vista vomitare nella neve, ti ho vista uscire da un bagno che puzzava ancora di vomito!”
 
“Io non sapevo che fossi tu!” sbraitò lei, nel vano tentativo di difendersi.
 
“E questo cosa significa? Meglio che non lo sapevi, così non ti sei nascosta.”
 
“Era solo un’indigestione.”
 
“Certo, un’indigestione che va avanti da mesi, vero?” Lei sbarrò gli occhi e lui seppe di poter continuare. “Ci credi tutti idioti? Tutti ciechi e sordi? È evidente che stai male, Rosie, se ne accorgerebbe chiunque, me ne sono accorto persino io, e di certo io e te non passiamo insieme le giornate.”
 
Il tono di James, come al solito, era sicuro, duro, a tratti persino insofferente, e Rose decise di non poterli sopportare, l’atteggiamento di James e la sua scoperta, così agì com’era abituata a fare da un po’ a quella parte: fuggì.
Scappò veloce, correndo nella speranza che lui non la seguisse, e più correva, più pensava a quanto beffardo con lei fosse stato il destino. Chi avrebbe potuto immaginare che lo sconosciuto che aveva bisogno del bagno alla Testa di Porco e che l’aveva poi soccorsa quand’era china sulla staccionata fosse proprio James? Un James abilmente camuffato dalla Pozione Polisucco, un James che quel giorno aveva come unico scopo lo scoprire quale disonesta strategia avevano intenzione di mettere in pratica i Serpeverde nella partita contro Grifondoro, un James che per puro caso s’era scontrato con la vita della cugina, un James sbagliato al posto sbagliato.
Quando Rose fermò la sua corsa, s’accorse d’essere in affanno, troppo in affanno, d’avere dolenzie in tutto il corpo e d’essere sin troppo debole, così debole che sarebbe volentieri svenuta lì, sull’uscio del portone della scuola, macchiandosi di neve e fanghiglia. La debolezza era tale che neanche sobbalzò quando due braccia forti le circondarono la vita, sorreggendola e invitandola a trarre forza da loro.
 
“Non dovevi seguirmi,” biascicò lei.
 
“Non essere stupida,” rimproverò lui.
 
“Non lo dire a nessuno, ti prego… io me ne vergogno tanto…”
 
Pianse, odiandosi per quell’ennesima manifestazione di fragilità in presenza del cugino, ma non poté fare altrimenti, e James si mostrò molto meno invadente ed emotivo del fratello minore, perché la lasciò piangere, senza porle domande o stringerla a sé o donarle conforto. La lasciò piangere curandosi di non allentare, né rafforzare la stretta intorno alla vita, così che lei potesse percepirlo lì, ben rispettoso delle sue lacrime. Solo quando la sentì tirare su col naso e allontanare la schiena dal suo addome, James seppe di poterle parlare, di poter azzardare domande cui forse delle risposte sarebbero seguite. Lasciò anche che lei facesse qualche passo, così che una minima distanza vi fosse tra loro, e osservò quella chioma rossa costretta nella solita treccia e poi quegli occhi azzurri, così limpidi che sembravano essere incapaci di mentire.
Quella situazione era assurda per il Grifondoro: lui non avrebbe dovuto scoprire nulla, altri avrebbero dovuto sorprendere il dolore di Rose e obbligarla a buttarlo fuori, non lui, lui era inadatto, non aveva tatto e neanche pazienza, non era per niente l’ideale per la cugina. Peccato che non potesse neanche tirarsi indietro.
 
“Parliamo, Rosie,” disse allora, tentando d’apparire, senza successo alcuno, meno brusco del normale. “Cosa succede?”
 
Rose asciugò malamente le lacrime con la manica della divisa, puntò lo sguardo sul petto di lui, così da evitarne il volto, e boccheggiò due o tre volte prima che la sua voce trovasse l’ardire di palesarsi. “Lo dirai a mamma e papà?”
 
“Solo se mi costringerai a farlo.”
 
Annuì lei, concordando con la diplomazia di quella risposta. “E ai tuoi? Ai tuoi genitori lo dirai?”
 
“Non è affar loro, giusto? E poi dirlo ai miei sarebbe come dirlo agli zii, quindi no, Rosie, non lo dirò nemmeno a loro.”
 
Abbozzò un incerto sorriso Rose: era tremendamente strano che lui la chiamasse Rosie, tutti in famiglia la chiamavano a quel modo, certo, ma in genere James non si rivolgeva a lei, mai, e quelle rare volte in cui accadeva, la chiamava semplicemente Rose; ed era tremendamente strano anche che, per una volta, quel Rosie non avesse contorni dolci, accomodanti, amichevoli, rassicuranti… No, era un Rosie deciso, categorico, brusco, era simile al Rose Weasley della mamma o del papà quando, arrabbiati, le facevano un rimprovero o, peggio, una vera e propria ramanzina. Era tremendamente strano quel Rosie, come lo era essere lì a confidarsi con James.
 
“Non lo dirai a nessuno,” impose d’improvviso Rose, imitando i modi categorici del cugino, e James fu colpito da quel cipiglio autoritario, ma non si scompose, accennò solo un annoiato sì col capo e, così facendo, la invitò a proseguire. “Sono tre settimane che mi succede quello che hai visto e io non so proprio come fare per stare bene.”
 
Quella frase, che sembrava l’inizio di un ragionato discorso, si rivelò essere la diga distrutta da un fiume in piena, perché Rose si lasciò andare del tutto, parlando e parlando e parlando ancora, né logica, né altro ordinavano quel marasma ch’erano le sue parole, erano tutte scoordinate, messe in fila l’una dietro l’altra per puro caso. Non aveva importanza per Rose essere chiara e comprensibile, tutto ciò che realmente desiderava era cacciare via quei pensieri, condividerli con qualcuno, sfogarsi… sfogarsi e basta. Parlava e a tratti quasi dimenticava d’avere un interlocutore, perché neanche lo guardava più, James, e gesticolava frenetica, con la voglia di dare forma a tutto quello che diceva, e alle volte qualche lacrima insolente tornava a infastidirle prima gli occhi e poi il viso, e altre volte sorrideva, di un sorriso isterico, triste, vinto. E James l’osservava come non l’aveva mai osservata prima: per davvero. Era talmente abituato all’idea che aveva di Rose che non si era mai preso la briga di andare oltre, di vedere la persona dietro la ‘cugina’. Quella fu forse la prima volta che James guardò Rose con gli occhi di un semplice ragazzo, smettendo i panni del cugino, del familiare, e fu strabiliante per lui constatare quanto quella Rose lì, la vera, fosse tanto diversa dalla Rosie della sua mente. La Rose reale aveva una sua individualità, una sua vita, ch’era sua e sua soltanto, non esisteva in funzione degli zii e di Hugo; erano ‘scoperte’ banali e anche piuttosto sciocche, James era abbastanza intelligente per capirlo, ma ciò non impedì a nessuna di loro di mostrarsi e pavoneggiarsi come se fossero state le più grandi scoperte dell’ultimo secolo.
 
“Rose, Rose, calmati ora,” impose James, conscio che lei non sarebbe stata in grado di fermarsi da sola.
 
“Scusami…”
 
“Non scusarti, non sopporto le persone che si scusano.” Lo guardò confusa, trovava quell’affermazione del tutto bizzarra. “Non serve a nulla scusarsi, è da ipocriti. Se reputi una cosa sbagliata, non la fai e basta, non è che prima la fai e poi ti scusi,” spiegò lui.
 
“Alle volte, non è così semplice capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, può succedere che si capisca d’aver sbagliato solo dopo aver commesso l’errore.”
 
“Può darsi, sì, ma resta che mentre sbagliavi eri convinto di fare bene, quindi, le scuse non servono, perché saresti ipocrita a scusarti per qualcosa che reputavi giusto nel momento in cui lo facevi.”
 
Rose scosse il capo, confusa. “Non riesco a capire il tuo pensiero.”
 
“Lascia perdere.”
 
“E le persone che sbagliano senza rendersene conto?” insistette lei.
 
“L’hai detto tu, no? Non capiscono di sbagliare, quindi non si scusano. Di cosa dovrebbero scusarsi, della loro stupidità? Ma se nasci stupido non è mica colpa tua.”
 
Sbottò in una risatina divertita Rose e si stupì nel constatare che i suoi muscoli sapessero ancora ridere. “Grazie,” disse, ma lui la guardò perplesso e lei s’affrettò a proseguire. “Di questo,” chiarì, indicandosi le labbra ancora increspate in un sorriso.
 
“Non mi piacciono neanche le persone che ringraziano,” affermò lui allora, ma sorrideva a sua volta, e Rose capì che stava solo scherzando e rise ancora.
 
James s’avvicinò a lei, pretese la sua mano e, in silenzio, la guidò verso una panchina, che ripulì dalla neve con la bacchetta e vi si sedette, costringendo Rose a fare altrettanto. La Grifondoro non sapeva cosa lui avesse in mente, non conosceva molto bene James e i suoi modi, nonostante fossero cugini, ma volle fidarsi, dopotutto, s’era esposta con lui come mai con nessun altro, compresi i suoi più grandi amici.
 
“Perché mi hai portata qui?”
 
“Ero stanco di stare in piedi.”
 
“Vuoi sapere altro, James?”
 
“Voglio sapere cos’è o chi è a non farti sentire abbastanza.”
 
“Te l’ho già detto: non lo so. La mia è una sensazione.”
 
“E io te l’ho… Ah, no! Non te l’avevo detto! Non ti credo.”
 
Lo sguardo di Rose, nell’immediato, fuggì a quello scuro del ragazzo. Intrecciò le dita delle mani tra loro la ragazza, torturandole come più poteva, avvertendo un insopportabile peso all’altezza dello stomaco: aveva di nuovo bisogno di riversare in terra tutto ciò ch’era dentro di lei. Resistette. In quell’occasione, deglutendo più volte e a fatica, sopportando un fastidioso bruciore agli occhi causato dallo sforzo, lei resistette e inghiottì tutto ciò che non aveva dentro, ma che ‘miracolosamente’ avrebbe saputo uscire fuori.
Solo qualche istante prima, parlare a James del proprio tormento le era sembrato un toccasana, s’era sentita più libera, più leggera, non sola; ma ora che quell’ostinato sedicenne pretendeva di più tutto il ristoro era andato in pezzi, e l’oppressione e l’ansia erano tornate a farle visita in tutto il loro sadismo. Fu solo l’inaspettata mano di James che s’andò a posare su quella tremante di lei a dare a Rose la forza di parlare ancora.
 
“Io… io mi sento così fragile… così esposta e allo sbaraglio… sì, allo sbaraglio! Sono… sono gli anni dei G.U.F.O. e io dovrei sapere cosa fare, dovrei avere dei progetti… Tutti hanno dei progetti, tutti tranne me! Alle volte, ho la sensazione di restare indietro… indietro… mentre tutti vanno avanti. E io sono sempre lì, indecisa, senza sogni, senza direzioni… mentre gli altri vanno avanti. E ho paura. Paura di perdere occasioni, di deludere i miei genitori e ho paura di me stessa… di deludermi. Io pensavo fosse più facile, ma ho una tale confusione in testa… ma ce l’ho solo io! Albus… Albus vuole diventare un Auror come suo padre e Allison vuole insegnare Rune… sta già scrivendo un manuale per i suoi studenti! Capisci?! Studenti che non ha! Ma lei sta già scrivendo il manuale! È un’instancabile lavoratrice Allison, non si spaventa davanti a un libro troppo grande o qualcosa di troppo difficile, lei si rimbocca le maniche e affronta qualsiasi cosa… John… oh, John vuole girare il mondo e catturarlo con la sua macchina fotografica, vuole narrare la storia magica e Babbana attraverso le fotografie… Persino Hugo sa cosa fare della sua vita! Hugo giocherà da portiere professionista, o almeno è quello che crede lui… Tutti hanno un sogno per cui vivere, James, tutti, ma io no. Io… io davvero non ho la più pallida idea di cosa fare da grande… non lo so! E poi ci sono la mamma e il papà, che alla mia età avevano già combattuto Voldemort, Lupi Mannari, Dissennatori, Basilischi… mamma aveva persino già fondato la prima associazione della sua vita! Ed era stata anche al ballo col ragazzo più ambito di tutta la scuola… Io cosa faccio, invece? Io sono indietro, James… tutti vanno avanti e io resto indietro…”
 
Pause, lacrime, parole marcate e altre quasi sibilate al nulla. Né più, né meno di uno sfogo quello di Rose, ma uno sfogo che non aveva mai concesso neanche a se stessa, tanto che sgranò gli occhi e tacque d’improvviso, prendendo coscienza di tutte quelle parole dette e del loro significato: tutti vanno avanti e io resto indietro aveva detto e ripetuto. Era davvero così? Trovò il coraggio di voltarsi verso James solo perché desiderosa di una risposta, e lì vi trovò quei due occhi castani che la scrutavano, quelle sopracciglia incurvate in chiaro segno di perplessità, e vi trovò anche quelle labbra sottili incurvate in un’espressione tanto somigliante a un ghigno.
 
“Sei molto presuntuosa se credi d’essere la sola a non avere la più pallida idea di cosa fare nella vita.” Lei non poté evitarsi di guardarlo ferita: s’era aspettata comprensione o indifferenza, ma non accusa, e lui bene interpretò i suoi pensieri. “Cos’è, piccola Rose? Ti aspettavi un abbraccio e belle parole? Sveglia, ragazzina, che questi non sono mica problemi. Ci stai male? Senti di stare indietro? Allora va’ avanti! Torna a vivere, Rose, perché solo chi non ha più nulla da fare a questo mondo parla come te.”
 
“E credi che sia tanto semplice? Che non ci abbia provato?”
 
“Non ci hai provato abbastanza,” ribatté James, acciuffando il viso di Rose tra le dita. “Lasciali perdere, gli altri, lasciali perdere tutti. Io l’ho imparato alla svelta, che non dovevo confrontarmi con nessuno, io sono io e basta. Papà mi avrà anche chiamato James Sirius, ma io non sono né quel James, né quel Sirius e mi va benissimo così.”
 
“Forse, perché ce l’hai, una strada da seguire, e quella ti basta.”
 
“Tutti ce l’abbiamo, Rose, anche tu.”
 
“Non prendermi in giro… Non è possibile che tutti abbiano una strada da percorrere… io non ne ho… non so in che direzione andare.”
 
“Non prendermi tu in giro: l’impossibile non esiste, è solo l’invenzione di chi deve giustificarsi i fallimenti.”
 
“Sei molto bravo con le parole, ma se anche avessi ragione sull’impossibile, rimarrebbe l’improbabile. E allora è improbabile che tutti abbiano una direzione.”
 
Ghignò ancora James, per la prima volta divertito. “Beh, improbabile mi sembra un buon compresso, d’altronde, se si elimina l’impossibile, anche l’improbabile diventa plausibile6.”
 
Per la terza volta da che era in compagnia del ragazzo, Rose rise e rise con una leggerezza che non ricordava di possedere, rise senza ben capire in che modo quel discorso tanto impegnativo e tanto logorante per lei s’era tramutato in un simpatico battibecco, concludendosi con una affermazione in perfetto stile James Sirius Potter, proprio quel James Sirius, quello che s’era alzato dalla panchina e che la incitava a fare altrettanto, quello che s’era sfilato il mantello della divisa e gliel’aveva poggiato distrattamente sulle spalle, quello che le stringeva una seconda volta la mano e la guardava come a volerle dire ‘inizia a correre, Rose, che nessuno resta indietro per sempre’.
 
“Grazie, James.”
 
“Non mi piacciono le persone che ringraziano,” ribadì lui e lei sorrise.
 
Rientrarono e nessuno dei due s’era aspettato di vedere Albus, Allison e John davanti all’ingresso della Sala Comune Grifondoro, scuri in volto e agitati. E nessuno di loro s’era aspettato di vedere Allison correre ad abbracciare Rose, mentre Albus le sbraitava contro e John la fissava avvilito.
 
“Ma cosa ti è saltato in mente? Sparire dopo pranzo e riapparire ora, hai saltato Pozioni! Non sapevamo dov’eri e la Hulton7 non faceva uscire né me, né John, ma quella non fa uscire mai nessuno, e ha chiesto di te e ci siamo dovuti inventare che eri in camera tua a fare i conti con l’influenza… Ma ti rendi conto? E Allison non sapeva niente, quando l’abbiamo raggiunta pensavamo stessi con lei, ma nemmeno… E non ti trovavamo! Ti abbiamo cercata, ma niente…”
 
Continuava a parlare Albus, facendosi tutto rosso in viso perché preferiva trattenere il respiro piuttosto che perdere una manciata di secondi utili a vomitare altre parole. Allison tentava di calmarlo, afferrandogli il braccio, la mano, la spalla, persino i capelli, ma Albus se la scrollava sempre di dosso, e John non faceva altro che annuire. Gli occhi di Rose, se si inumidirono, non lo fecero in modo sfacciato, e non una lacrima risentita e colpevole bagnò le gote della giovane strega, ma un’espressione dura s’impossessò dei suoi lineamenti, un’espressione così nuova per lei che Albus tacque di sorpresa nel vederla.
 
“Non credi di stare esagerando?”
 
“No,” rispose John per Albus. “Perché siamo preoccupati, noi sappiamo, Rose, e abbiamo temuto che stessi male e fossi sola…”
 
“John…”
 
“Non era sola,” intervenne James, della cui presenza nessuno dei tre ragazzi sembrava essersi accorto. “Era con me,” precisò, indugiando poi lo sguardo sul fratello, esibendo una risatina divertita e di scherno. “Sei peggio di papà e zio Ron messi insieme, Al! Tranquilli, ragazzini, sta meglio, ha parlato con me, quando se la sentirà parlerà anche a voi.”
 
E James fu, in un certo senso, di parola, perché una decina di giorni dopo, Rose trovò finalmente il coraggio di appartarsi con i suoi amici, quelli con cui aveva condiviso tutto, e parlare loro di ciò che le stava accadendo, dei suoi dubbi, delle sue paure, dei suoi tormenti… La fissarono sgomenti: Rose non poteva davvero sentirsi a quel modo, non poteva! Rose era fantastica ai loro occhi, e la vita le avrebbe dato tutto, ma a suo tempo.
 
“Scusami, Rosie,” disse Albus quando furono soli.
 
“E di cosa?”
 
“Di essere stato un idiota in questi giorni, è che ero… credo geloso… non so spiegarti bene… ma un po’ lo sono ancora.”
 
Rose s’accigliò, non capiva. “Perché geloso? Geloso di cosa?”
 
“Ti sei fidata di James e non di me,” chiarì lui, votato da vero Potter alla sincerità. “Mi sono sentito tradito… tu sei amica mia. È sciocco, lo so…”
 
Sorrise lei, abbracciando suo cugino. “James non è te, Al, non devi esserne geloso.”
 
Quelle parole, Rose le sussurrò all’orecchio di Albus ed erano sincere, vere, poiché James non era Albus e il rapporto che lei aveva con Albus non avrebbe mai potuto averlo con James, nonostante fossero entrambi suoi cugini, ma ecco, nella sua mente, per un arcano motivo, James era molto più ragazzo e molto meno cugino di Albus. Era una sensazione che la ragazza non ricordava di aver mai provato quella che aveva iniziato ad assalirla ogni volta che incrociava James: si ritrovava a sperare che lui l’avvicinasse, che le chiedesse come andavano le cose, ma James non lo faceva mai, era tornato il James di sempre, che le rivolgeva un cenno del capo quando la incrociava e nulla più, il James che tra tutti i cugini preferiva la coetanea Molly, quella dai capelli rossi e ricci sempre legati in una coda, dagli occhi scuri e lo stemma Tassorosso cucito in petto, quella sbadata e un tantino goffa, ma che riusciva straordinariamente a brillare in ogni materia e a far ridere lo schivo James come nessun altro. Rose, prima d’allora, non aveva mai prestato tanta attenzione al rapporto tra quei suoi due cugini e non capiva per quale motivo iniziasse a covare una sorta di antipatia per Molly, che in fin dei conti non le aveva fatto nulla.
 
“Pensieri, ragazzina?”
 
“Dici a me?”
 
“Vedi altre ragazzine?!”
 
“Non ne vedo affatto, a esser sincera.”
 
James abbozzò un sorriso compiaciuto e si sedette anche lui sulla panchina, lì dov’era Rose, accoccolata nel suo giubbotto grosso e caldo e nella sua sciarpa dai colori Grifondoro. Non parlò la ragazza, ma avrebbe tanto voluto chiedergli cosa lo portava da lei quand’ormai era trascorso quasi un mese dalla ‘rivelazione’ e nessun contatto c’era stato.
 
“Come stai, Rose?”
 
“Bene.”
 
“Non mentire.”
 
Calò lo sguardo lei, fissando con sin troppo interesse il rosso acceso dei guanti che aveva indossato. Aveva mentito? Sì, l’aveva fatto. Ma come poteva non mentire? Come avrebbe potuto dire a quel ragazzo che l’aveva soccorsa che dall’incubo non s’era ancora svegliata? L’incubo di Rose, invero, apparteneva a quella schiera di mali silenziosi e infidi, che se ne infischiano di chiunque tenti d’attaccarli, perché loro sanno essere resistenti e pazienti e sanno attendere il momento giusto per tornare a galla. E a Rose era successo così, i primi giorni, grazie al sollievo d’aver condiviso con altri il macigno, le sembrava d’avere più appetito, più forze in circolazione e, in conclusione, più voglia d’essere al mondo, ma l’entusiasmo era svanito in fretta ed erano tornati la nausea e i conati e i conseguenti dolori addominali e la stanchezza e… tutto, era tornato tutto e lei era di nuovo indietro, mentre tutti gli altri andavano avanti. Eppure, c’era qualcosa di diverso quella volta, lei lo sentiva, c’era la voglia reale di rimettersi in piedi e, per l’amor di Godric, di correre! Lei aveva voglia di correre, s’era solo dimenticata in che modo metterli, i piedi, per fare una buona corsa, bisognava solo ricordare…
 
“Voglio correre, James,” disse d’improvviso, spezzando un silenzio che andava avanti da diversi minuti. “Voglio correre anche io, e non so perché lo dico a te.”
 
James non rispose immediatamente, si concesse il tempo di scompigliarsi i capelli scuri e ribelli – vizio che, nonostante tutto, aveva ereditato dal nonno –, osservò tutt’intorno a loro e, accorgendosi che Rose aspettava chiaramente una risposta, si degnò d’aprir bocca e parlare. “Lo dici a me perché sai che non ti trascinerò in pista.”
 
“E perché non lo fai? Albus lo farebbe.”
 
“Ma io non sono Albus, giusto?!” domandò con sarcasmo, facendo sorridere anche lei. “Sei molto più di quel che credi, Rose… E con i capelli sciolti sei molto più carina.”
 
Le era successo poche volte nella vita di arrossire, non era come suo fratello Hugo, che identico a Ron arrossiva per qualsiasi cosa, ma in quell’occasione arrossì sino alla punta del naso; fu una vera fortuna che il viso fosse già un po’ arrossato dal freddo. Aveva sciolto i capelli, quel pomeriggio, solo perché aveva mal di testa e la mamma le consigliava sempre di non legare i capelli in quei casi, ché, si sa, i capelli legati rischiano d’aumentare il dolore.
 
“Non mi hai mai detto perché quella volta eri tu a spiare la squadra Serpeverde, neanche giochi a Quidditch,” disse allora Rose, stemperando un’atmosfera strana, molto strana, che s’era creata a seguito della sottospecie di complimento.
 
“Colpa di Fred, mi ha costretto a farlo, perché si fidava solo di me e della mia faccia tosta.”
 
“A Fred non manca certo la faccia tosta,” intervenne mesta lei, non riuscendo a immaginare suo cugino Fred timido e taciturno.
 
James annuì concorde. “Infatti non era quello il problema, ma evitare che i Serpeverde sentissero puzza di bruciato. Nott8 non è un Troll, ha cervello e furbizia, avrebbe potuto notare qualcosa, quindi il piano era che io facessi l’infiltrato, mentre tutta la squadra di Quidditch si faceva vedere in giro dai Serpeverde.”
 
“Per questo era in giro anche Hugo, in genere non viene a Hogsmeade, preferisce dormire.”
 
“Sì, ma parerebbe anche dormendo, è fenomenale!”
 
“Perché non sei entrato nella squadra? Tutti si aspettavano di vedere un Potter giocare.”
 
“A me piace il Quidditch, ma gli impegni no, entrare nella squadra è un suicidio! Allenamenti su allenamenti e mai un minuto libero, io preferisco andarmene a spasso quando ho tempo. Sul serio, è un bel gioco, ma solo se resta un gioco che posso fare e non fare a mio piacimento.”
 
“Vorrei che Al la pensasse come te…”
 
“Non s’è ancora rassegnato? Amanda è meglio di lui, senza contare che è una gran bella ragazza e gli avversari guardano prima lei e poi cercano il Boccino. Al gioca comunque da riserva, è bravo anche lui.”
 
Andarono avanti così, consumando assieme in quel parco innevato il pomeriggio libero dalle lezioni. Parlarono tanto e toccarono ogni argomento e Rose non ricordò d’aver la nausea e i conati, non ricordò neanche d’avere male alla testa, ma ricordò di lì in avanti di tenere i capelli sciolti e di ridere alle affermazioni di pungente ironia di James. E James, che ancora non capiva bene per quale motivo l’aveva raggiunta, aveva a sua volta dimenticato di avere degli amici che l’attendevano, di detestare il freddo e le persone ch’erano abituate a scusarsi, perché quando Rose gli pestò un piede e poi disse ‘scusa’ lui seppe solo ridere e abbracciarla. Fu strano per entrambi, non s’erano mai abbracciati, non con la voglia di sentirsi l’uno vicino all’altra, non con quella strana sensazione in circolo. Fu strano e nulla più, e ancor più strano fu ripetere quel pomeriggio ancora e ancora: non capitava mai che si dessero appuntamento, ma s’erano abituati a ritrovarsi seduti su quella panchina poco distante dal portone d’ingresso, a parlare del più e del meno, e Rose non se ne accorse, ma ogni minuto trascorso con James era un passo in avanti, lei correva e tutti gli altri non erano più così lontani, erano anzi terribilmente vicini. Trascorsero tre mesi in tutta fretta e della neve non c’era più traccia alcuna, Marzo salutava tutti i suoi visitatori e apriva per l’ultima volta la porta e l’apriva ad Aprile, ch’era il nuovo padrone di casa.
Aprile, diversamente dal suo predecessore, aveva occhi sognanti e sorriso sbarazzino, era allegro e vivace e aveva voglia d’essere solleticato da risolini e sguardi languidi, era un gran capriccioso Aprile e fu forse per quel suo carattere così poco paziente e pretenzioso che inscenò un’inaspettata festicciola nella Sala Comune Grifondoro, costringendo due tra le tante maschere a cercarsi tra la folla festosa.
 
“Vinceremo la Coppa!” gridò uno scalmanato Fred Weasley, alludendo alla schiacciante vittoria su Corvonero di quella mattina. “Quest’anno è nostra!”
 
Esultarono tutti i Grifondoro, che s’erano stretti attorno alla figura del carismatico capitano; ognuno di loro, come aveva voluto Amanda, l’abile Cercatrice, aveva il volto, o solo occhi e naso, coperto da una mascherina colorata di rosso e oro, nessuno aveva chiesto ad Amanda perché indossare quelle inutili maschere di carta, poiché a tutti era parso d’esserle in qualche modo debitore: dopotutto, era stata lei ad acciuffare il Boccino a soli trenta minuti dal fischio di inizio!
James s’aggirava tra la folla come un leone in gabbia, erano diversi giorni, ormai, che aveva maturato una inconfessabile consapevolezza e non aveva voglia alcuna di accantonarla e dimenticarla, perché quella consapevolezza, per quanto appunto inconfessabile, era tutto ciò che desiderava. E la riconobbe immediatamente, la protagonista della propria scoperta, con i lunghi capelli sciolti e una mascherina a coprire occhi e naso, intenta a parlottare con un ragazzo che sembrava proprio John Canon. Fu strabiliante che Rose, richiamata da uno sguardo insistente, si voltasse proprio in direzione di James. Come soggiogati da un sinistro incantesimo, entrambi i ragazzi affrontarono la folla sino a ritrovarsi viso contro viso. Rose sorrideva, ormai aveva imparato di nuovo a sorridere, e sorrideva anche James.
 
“Non ti dona la maschera,” esordì spiccio James, “non riesco a guardarti negli occhi.”
 
“A cosa ti serve guardare i miei occhi?”
 
“Mi piacciono e basta.” Non aveva gli occhi, ma aveva il suo viso da guardare e poté vederlo irrigidirsi a quella confessione. “Una volta ti ho detto che se si elimina l’impossibile, anche l’improbabile diventa plausibile6.”
 
“Sì, me l’hai detto.”
 
“Beh, avevo ragione, perché è successa una cosa improbabile, molto improbabile.”
 
“Ti hanno preso negli Auror?” sdrammatizzò lei, ma lui finse di non ascoltare.
 
“Mi sono innamorato di te.”
 
Inspiegabile fu la prima parola che venne in mente a Rose, errore fu ciò che immediatamente seguì: un inspiegabile errore era la giusta definizione di quel qualcosa che l’elettrizzava e la scuoteva mentre indietreggiava di qualche passo, cozzando contro un altro studente, mentre metteva via la maschera e la gettava a terra, mentre la nausea e i conati, che da un mese non abitavano più in lei, tornavano a farle visita. Cos’era quel tremolio alle mani e alle braccia e alle gambe e a tutto il corpo? Cos’era? Repulsione? Paura? Eccitazione? Avrebbe dovuto dargli del pazzo, perché era suo cugino e i cugini s’innamorano di sconosciuti, non di altri cugini. Avrebbe dovuto indietreggiare ancora, scappare, schiaffeggiarlo quando s’era sentita afferrare da lui, urlargli quando aveva preteso un contatto tra i loro corpi, schiantarlo quando l’aveva baciata. Ma non lo fece Rose, non scappò, non urlò, non l’aggredì. Rose fece esattamente ciò che una giudiziosa quindicenne non avrebbe fatto: gli carezzò il volto e poi i capelli, si strinse a lui e lo baciò a sua volta. Nessuno dei due seppe dire quando, con esattezza, la Sala Comune piombò nel silenzio, quando Albus sputacchiò tutta la sua Burrobirra e Lily cascò a terra, e il non saperlo dire non importò né a Rose, né a James.
 
*
 
“Perché non me l’hai mai detto?”
 
“Tu non me l’hai mai chiesto.”
 
“E come avrei potuto saperlo?”
 
James sbuffò, sistemandosi al meglio contro il tronco dell’albero. “Insomma, Rose, vuoi sentirla o no, la canzone?”
 
Rose annuì, sedendosi a sua volta sul prato, di fronte al fidanzato. “È una canzone dei Morsmordre9?”
 
“Ma sei matta?! Quelli sono spazzatura. No, è un cantante Babbano, ho sentito le sue canzoni a casa tua, le ascoltava tua madre.”
 
La ragazza s’incuriosì e decise di non domandare altro, aspettando che fosse la musica a svelarle l’arcano, così James spettinò quei suoi capelli ribelli, strinse il plettro tra le dita della mano destra e iniziò a suonare la sua chitarra classica. Aveva lo sguardo concentrato e rapito mentre il plettro carezzava le corde e, gli occhi, li spostava dalla chitarra d’un marrone antico al volto curioso e vivo di Rose, che li aveva vinti, i suoi fantasmi. James le aveva detto che la musica e le parole di quella canzone riuscivano a rimandarlo a lei, a rilassarlo, le aveva detto ch’era dedicata a lei la canzone, che doveva farne tesoro; con quelle premesse Rose lo ascoltava cantare ‘no woman, no cry10’ e non s’accorsero i due Grifondoro di una piccola folla che iniziava a radunarsi attorno allo ‘strimpellatore’, che, invero, aveva una voce piacevole, calda, che non pretendeva di stupire, ma solo d’avvolgere con dolcezza. In quel pomeriggio di maggio, diversi studenti non raggiunsero mai il cancello che li avrebbe traghettati da Hogwarts a Hogsmeade, scegliendo di trascorrere il loro sabato seduti sull’erba ai piedi di un grosso albero, ascoltando la musica di James. Tra i tanti, c’erano anche Albus, John e Allison, che sedettero intorno a Rose, e Molly, che biascicò un finalmente esausto al vedere il cugino esibirsi nella sua più grande passione. Non tardarono ad arrivare neanche Fred e i suoi amici, e proprio Fred, elettrizzato da quell’atmosfera, si spogliò della maglia e la trasfigurò in un bongo che sistemò a terra, così d’accompagnare la chitarra del cugino con le proprie percussioni, poco dopo, anche Nott si convinse a partecipare e suonò divertito il bongo assieme al rivale di Quidditch.
Poco lontano dai ragazzi, il docente più disponibile che Hogwarts avesse mai avuto camminava verso le serre e, al sentire la musica, rallentò l’incedere sino a fermarsi del tutto, osservando con vivo interesse i suoi studenti, e ne riconobbe di tutte le Case, compresi gli esponenti della Casa Serpeverde; quell’immagine confermò la convinzione più grande di Neville: la morte, il dolore e persino la disperazione erano state un prezzo accettabile, un sacrificio che era germogliato e aveva dato dei frutti belli e sani. Dopotutto, quello sotto l’albero era davvero un mondo migliore.
 
 


 
1 Allison Macmillan: figlia di Ernie Macmillan e Tassorosso del quinto anno (personaggio di mia invenzione).
2 Leopold: nuovo proprietario della Testa di Porco (personaggio di mia invenzione).
3 John Canon: figlio di Dennis Canon e Grifondoro del quinto anno (personaggio di mia invenzione).
4 Madama Sally Flighty: nuova bibliotecaria di Hogwarts; ‘flighty’ è un aggettivo inglese che sta per ‘frivolo’, ‘inaffidabile’ (personaggio di mia invenzione).
5 William Smith: figlio di Zacharias Smith e Serpeverde (personaggio di mia invenzione).
6 “Se si elimina l’impossibile, anche l’improbabile diventa plausibile”: citazione tratta dalla serie televisiva Sherlock (BBC).
7 Hulton: professoressa di Pozioni a Hogwarts (personaggio di mia invenzione).
8 Nott: figlio di Theodore Nott e capitano della squadra di Quidditch Serpeverde, settimo anno (personaggio di mia invenzione).
9 Morsmordre: gruppo musicale magico di mia invenzione, composto da ragazzi della generazione post-guerra che per avere successo hanno assunto il provocatorio nome di ‘Morsmordre’.
10  “No woman, no cry”: canzone di Bob Marley, che è l’artista Babbano a cui fa riferimento James.


Angolo autrice: la storia è scritta per 'Il contest dei desideri!' e il desiderio da me scelto è stato quello di SnapeDumbledore, che richiedeva una storia di genere introspettivo, con protagonista la coppia Rose/James e con l'inserimento della citazione “Se si elimina l’impossibile, anche l’improbabile diventa plausibile” di Sherlock (BBC). Non ho mai scritto sulla nuova generazione e spero che questa oneshot sia piaciuta a chiunque l'abbia letta. I mesi marzo e aprile sono scritti con l'iniziale maiuscola perché in quel punto della storia li ho personificati.
 
 
 
   
 
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